La morte è la quiete dall’impressione dei sensi,
dagli impulsi che ci muovono come marionette.(Marco Aurelio, Colloqui con se stesso)
Freud in tutta la sua vita non incontrò mai Arthur Schnitzler nella loro Vienna. Diceva che aveva timore di incontrare in lui il suo doppio. Lo scrittore nella sua celebre opera Doppio sogno rivela, infatti, un’acuta disinvoltura nella messa in scena delle profondità psichiche, di cui lo stesso Freud aveva imbarazzo e timore reverenziale. E Freud fece bene, se è vero che incontrare il proprio “doppio” porta alla morte.
Nel film di Kieślowski del 1991 La doppia vita di Veronica il tema è questo e genera una poesia strana e sottile: incontrare se stessi, o il proprio “doppio”, porta alla morte. Il “doppio” è più del sosia, è come l’immagine dello specchio, come l’Ombra dell’inquietante favola di Andersen. Un grande film è come un liquore: si apprezza meglio con il passare del tempo, se resiste alla prova del tempo come questo gioiello di Kieślowski.
Weronika è una bella e giovane donna polacca. Il volto pulito, semplice, a suo modo perfetto di Irene Jacob. Una donna-cigno. Ha trovato l’amore e anche la via dell’arte, vincendo a Cracovia un provino per uno spettacolo di musica colta. La sua voce è limpida e acuta, incantevole, come le atmosfere di questo film. Una Polonia e una Cracovia tutta colta nell’interiorità pura di Weronika. La Storia resta fuori, conta solo il cuore. Quando Weronika passa in fretta in una grande piazza agitata dalle tensioni della storia un passante la urta e le cadono gli spartiti. Lei è tutta in se stessa. Raccoglie gli spartiti, si alza e allora si vede, vede Véronique, turista francese che fotografa da un pullman. Véronique non vede, non la vede, ma fotografa la piazza, e anche lei. Weronika vede per prima. Incontra se stessa, il suo limite, il suo riflesso.
Vince il provino e al suo debutto al concerto a teatro il suo cuore cederà mentre sublime si eleva il suo canto nelle note affascinanti del Concerto in mi minore di Zbigniew Preisner. Una musica mistica, rivelativa, estremamente intensa nel suo congiungere atmosfere sospese con epifanie apocalittiche e salti timbrici e di altezze.
Nel film questa scena appare sublime. Le luci della scena tendono al verde, come il raro raggio verde del sole al tramonto. Weronika canta con un cuore che dolora e sta cedendo, inclinando il capo, come nelle statue ellenistiche, come nelle posture pittoriche pre-raffaellite. Quando cade, il punto di visuale cade come il suo corpo. Un gesto filmico semplice ma sapiente. Il mondo è il nostro vedere. La visione del direttore d’orchestra, del pubblico e della sala stessa visti da Weronika, dai suoi occhi, dai suoi ultimi suoi minuti di vita, sembrano irreali, artificiali, eccessivamente teatrali. La sua voce con la musica ormai vivono di vita propria, stanno uscendo dal palcoscenico del mondo. Il canto va oltre il cuore, oltre il visibile. Il canto del cigno.
L’incontro asimmetrico sarà fatale anche per Véronique. Sarà posticipato perché lei vede Weronika in foto, a Parigi, successivamente, non riconoscendo se stessa, al contrario di come Weronika aveva in lei riconosciuto se stessa. Vite del tutto simili: amore per la musica, problemi cardiaci, soddisfazione affettivo-amorosa. Nell’illustrazione della vita di Véronique compare il tema della marionetta, colto sia musicalmente (Le marionette di Zbigniew Preisner) che esistenzialmente.
Tema già presente nei ragionamenti filosofici di Marco Aurelio. L’imperatore stoico vedeva il divenire consueto dell’umanità, pressata dal conflitto delle passioni, come la storia di marionette la cui assenza visibile di fili mostrava un’apparente quanto inesistente libertà.
La grazia lieve e magica di questo film è data proprio dalla sua totale libertà da ogni pretesa o ansia narrativa. Il racconto è semplice e sembra esporre e illustrare tutto senza ambiguità o riserve mentali. Un racconto più visivo e sonoro che fattuale ed espressivo. Proprio per questo scende nelle corde più profonde, perché simula l’esistenza in un suo aspetto tra i più determinanti, cioè l’assenza di spiegazioni, l’assenza apparente di senso. Il racconto resta in interiore, inesplicato, concluso in se stesso come una scultura, come un cerchio. Il limite, il ritorno, l’incontrare se stessi, il vedere eccessivamente in chiarezza si rivela fatale e mortifero in quanto conclude il percorso di dis-velamento che è la vita stessa.
Trovare se stessi è il telos dell’esistenza. Nulla di esoterico, né di trascendentale. La poiesis del film risiede nella grazia dell’acqua, nella grazia del non opporsi al Destino. Una visione greca, profondamente greca. La Polonia non raccontava di sirene nei suoi fiumi? Non era la Grecia arcaica del Nord? La stessa grazia con cui un oggetto scende nell’acqua fino al fondo. Quasi uno scorrere del tempo dalla fine al presente. Non dalla potenza all’atto ma dall’atto alla potenza.
La fine di Weronika appare opera d’arte essa stessa: trapassare nel suono oltre il visibile. Sente il cuore duolerle ma continua a cantare fino al crollo. La fine di Véronique appare anch’essa a suo modo perfetta a livello narrativo: l’appoggiare una mano ad un tronco di un grande albero, paterno, di fronte ad un cancello. Come l’atto finale di una recita perfetta. Come il lieve posarsi di una marionetta. E proprio allora suo padre si accorge del suo svanire.
La poesia non si può spiegare. Si può lasciare risuonare.