La mela d’oro che decretò Venere la più bella e scatenò la guerra di Troia, le mele del giardino delle Esperidi e forse anche il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male non erano le mele rosse e succose del nostro immaginario ma gialle, quindi color oro, pomi d’oro, le mele cotogne.
Il melo cotogno è uno dei più antichi alberi da frutto conosciuti e che ha subito poche modificazioni da parte dell’uomo; sembra che sia uno dei primi frutti presenti nel frutteto, e quindi la gran parte delle mele di cui si parla in storie, tradizioni e leggende, erano con buona probabilità delle mele cotogne.
Il luogo di origine di questo piccolo albero è l’Asia Minore, in particolare l’Anatolia e la Persia, in cui si trovava una città dal nome di Cotonium e del melo cotogno se ne sono trovate tracce in rovine dell’antica Babilonia risalenti a 2000 anni fa. Dall’Asia Minore il melo cotogno si diffuse nel bacino del Mediterraneo, venne largamente coltivato a Creta sin dal VII secolo a.C. e proprio dalla città cretese di Kydonia prese il nome botanico Cydonia oblonga.
Esiodo, nella Teogonia, narra delle bellissime ninfe figlie di Atlante, le Esperidi, poste a guardia del sacro giardino all’estremo occidente del mondo, dove ogni giorno si fermava la corsa del carro del Sole, e dell’albero posto al centro del giardino pieno di frutti color dell’oro, in greco chrisomelon, mela d’oro, mela cotogna, per la cui protezione dai furti Era ordinò al serpente dalle cento teste, Ladone, di arrotolarsi intorno al tronco per proteggere i frutti dai ladri.
Queste mele cotogne sono i frutti raffigurati nei rilievi delle metope del Tempio di Zeus a Olimpia, in cui Atlante è colto nell’atto di porgerle a Eracle. Il mito narra infatti di come Eracle, costretto dal re Euristeo a un’undicesima fatica (quella appunto di rubare le mele delle Esperidi), si fosse introdotto nel giardino che Gea, la Madre Terra, aveva donato alla figlia Era per le sue nozze con Zeus e, consapevole dell’immane peso sulle spalle di Atlante, di come Eracle sfruttò questa debolezza del Titano per indurlo a cogliere i frutti offrendosi di reggere la volta celeste al suo posto, per il tempo necessario. Atlante, stremato, accettò subito e andò a cogliere tre mele d’oro dal sacro albero, ma per nulla intenzionato a riprendere subito il suo posto disse ad Eracle che le avrebbe portate lui al re Euristeo, così da riposarsi per qualche mese. Eracle finse di accettare e con la scusa di sistemarsi meglio il peso del cielo sulle spalle, chiese ad Atlante di reggere il carico per un istante, per poi fuggire a gambe levate con il prezioso bottino.
Tutti gli elementi del mito, che mescola amore, giardino, frutti d’oro sacri, serpente, furti e Venere tentatrice, li ritroviamo anche nell’Eden e, secondo alcuni, il “pomo d’Adamo” sia il boccone di mela cotogna andato di traverso.
È ancora la mela cotogna e non la mela il pomo della discordia legato all’antefatto della guerra di Troia. Al banchetto di nozze di Peleo e Teti, Zeus invitò tutti gli dei dell’Olimpo ad eccezione di Eris, la dea della discordia. Questa, infuriata per l’affronto, meditò una vendetta: si presentò al convito e lanciò sulla tavola imbandita un pomo d’oro con la scritta “Alla più bella”. Al che, Era, Atena e Afrodite, pretendendo ciascuna d’esser la più bella, iniziarono a litigare al fine di ottenere il frutto prezioso, non pensando che così facendo sarebbero cadute in pieno nella trappola tesa da Eris, spietata creatrice di conflitti e di guerre e, secondo l’epiteto omerico, signora del dolore. Zeus, per dirimere la lite, invitò Hermes a scortare le tre contendenti sul monte Ida dal pastore troiano Paride che, uomo giusto e leale, avrebbe fatto da giudice. Scortate da Hermes fin al cospetto di Paride, le tre dee, al fine di ingraziarsi il giovane pastore troiano, iniziarono a promettergli le più svariate ricompense. Paride scelse Afrodite, che gli aveva promesso in cambio l’amore di Elena, e Hermes le consegnò il pomo della discordia, secondo il volere di Zeus. Afrodite, in seguito, aiuterà il principe troiano a rapire Elena, moglie di Menelao, re di Sparta. Proprio a Sparta, racconta Ateneo, si offrivano agli dei certi pomi che “hanno un profumo soave ma che non sono molto buoni da mangiare”, le mele cotogne appunto. Ciò sarà la causa scatenante della guerra di Troia, il cui esito ultimo sarebbe stato la distruzione della città ad opera delle armate achee.
Delle mele cotogne scrissero tra gli altri Stesicoro (VII-VI° secolo a. C.): “…gettavano molte mele cotogne [kydònia mala] verso il carro per il re, molte foglie di mirto, corone di rose e fitte ghirlande di viole” e Aristofane (V°-IV° secolo a. C.) nella commedia Nuvole: “Nessun ragazzo allora si ungeva al di sotto dell’ombelico, sicché la peluria e la lanuggine sul pube fioriva come sulle mele (mèloisin)”. Nonostante qui “mela” non sia accompagnato dall’aggettivo è chiaro che si tratta proprio di quella cotogna, l’unica che abbia una peluria.
Plutarco (I°-II° secolo d. C.), nella Vita di Solone, riporta che “(Le leggi di Solone, legislatore ateniese del VII°-VI° secolo a. C.) prescrivono che la sposa sia chiusa con lo sposo nella stanza nuziale, mangi una mela cotogna (malon kydònion) e che il marito abbia con lei almeno tre rapporti ogni mese; infatti in questo modo, anche se non nascono figli, tuttavia questo rispetto e cortesia manifestati alla casta moglie liberano entrambi dagli inconvenienti che son soliti verificarsi in un matrimonio e si ottiene inoltre che non diventino estranei tra loro per un disaccordo”.
Anche i Romani furono particolarmente affascinati da questo frutto e sebbene la loro mitologia non sia ricca di elogi nei suoi confronti come quella greca, sappiamo che essi si appassionarono molto alle tecniche di coltivazione, raccolta, conservazione e consumo dei frutti per la loro bontà, le virtù terapeutiche riconosciute dai più celebri medici del tempo e per altri utilizzi, non da ultimo quello per la creazione di unguenti e profumi.
Nel mondo latino Catone (III°-II° secolo a. C.) è il primo redattore di un elenco di varietà di meli tra i quali alcuni saranno classificati da autori successivi come varietà di meli cotogni: “Meli strutei (mala struthea), cotogni (mala cotonea), allo stesso modo altri che si piantano, meli mustei (mustea)…”.
Plinio ne parla nel suo libro Historiae Naturalis: “Mala, quae vocamus cotonea et Greci cydonia ex Creta insula advecta” (La mela che noi chiamiamo cotogna e i Greci cydonia, fu esportata dall’isola di Creta).
Marziale (I° secolo d.C.): “Se ti vengono offerte mele cotogne (cydonia) sature di miele cecropio puoi dire che sono mele al miele (melimela)”; “Hai una peluria così impercettibile, tanto morbida che un soffio, un raggio di sole e una leggera brezza la consumano. Sono nascoste da una simile lana le mele cotogne ancora acerbe, che brillano spogliate dalla mano di una fanciulla”.
Negli scavi di Oplonti e a Pompei si trovano spesso raffigurazioni di mele cotogne riprodotte, ad esempio, in un vaso di cristallo, insieme ad altra frutta, o raffigurate tra gli artigli di un orso che è ghiotto di questi frutti. Oltre che nell’arte antica, la mela cotogna è protagonista di opere più recenti come il Parnaso di Andrea Mantegna, glorificazione del matrimonio tra Isabella d’Este e Francesco II Gonzaga, dove la mela cotogna compare proprio accanto alla coppia formata da Venere e Marte.
Anche Giovanni Bellini, cognato di Mantegna, l’aveva resa protagonista ponendola tra le mani di Gesù Bambino come allusione alla resurrezione.
La mela in genere era molto apprezzata anche in cucina e dal De Re Coquinaria di Apicio (opera compilata nel III/IV sec. d.C. che tradizionalmente raccoglie circa cinquecento ricette del gastronomo vissuto nel I sec. d.C.), ne vediamo un utilizzo sparso tra antipasti, piatti a base di carne, pesce, contorni e, naturalmente, dolci. Era la frutta per eccellenza servita a fine pasto e il modo proverbiale “Ab ovo usque ad mala” citato da Orazio con il quale i Romani indicavano l'inizio e la fine dei pasti, equivalse presto anche a dire “dall’inizio alla fine, senza interruzione”.
I greci ed i romani mangiavano i frutti del cotogno, considerati simbolo di amore e fecondità, crudi col miele o li usavano per produrre una specie di sidro. Aspra, astringente, ricca di pectina, già per Ippocrate più che un frutto era un rimedio salutistico per liberare l’intestino, per Dioscoride, medico e scienziato greco del I secolo, autore del De Materia Medica, testo studiato per oltre 1500 anni, “fiori di melo cotogno impiastrati” sono utili alle infiammazioni degli occhi, mentre “se le donne gravide mangiano spesse volte le mele cotogne, partoriscono i figliuoli industriosi, e di segnalato ingegno.”
Nel Medioevo e nel Rinascimento, oltre a essere considerata un potente antidoto ai veleni se masticata cruda, la mela cotogna veniva prescritta anche come cataplasma per uso esterno. La mela cotogna nelle preparazioni culinarie oggi è quasi un frutto dimenticato e solo circa 43000 ettari sono dedicati alla sua produzione, dei quali oltre la metà in Turchia dove le foglie del cotogno vengono impiegate come rimedio popolare per il trattamento del diabete.
La ricetta più famosa è la cotognata, anch’essa di origini antichissime. Se ne trovano tracce in un ricettario veneziano del ‘300. Si legge di una pasta dolce di mele cotogne, a lunga conservazione, fatta con pochi ingredienti: mele cotogne e zucchero in parti uguali, acqua e succo di limone. Della cotognata esistono tante reinterpretazioni regionali che variano la ricetta con qualche ingrediente o passaggio in più durante la preparazione. Il risultato porta a ottenere cotognate più o meno dure o con un differente livello di dolcezza: nell’Appennino Emiliano, per esempio, si aggiunge come tocco finale una spennellata di grappa sulla superficie del dolce, in alcune zone del Nord Italia, si prepara la cotognata speziata, aggiungendo chiodi di garofano, cannella, pepe e un pizzico di senape.
Le più celebri tra le cotognate italiane rimangono però indubbiamente quella leccese, con minor quantitativo di zucchero, e quella siciliana resa ancor più unica dagli stampi di terracotta in cui viene messa ad asciugare, decorati con fiori, frutti o altri simboli.
Nell’ambito delle credenze magico-popolari, si crede che un frutto di cotogno conservato in casa tenga lontani le streghe, gli orchi e gli incubi.
Sarà vero? Chissà, ma certo è che una mela cotogna è tradizionalmente usata non solo per aromatizzare le botti del vino ma per profumare le stanze e gli armadi: si inseriscono chiodi di garofano su una mela cotogna e poi si appende per il picciolo, ottenendo un profumatore d’ambiente naturale.