Durante una mostra visitata al Museo della Penna a Perugia, Gli italiani e la moda 1860 – 1960 nell’estate di un anno, fa trovai in una teca espositiva vecchie edizioni del ventennio dai titoli ormai dimenticati come Ricette di Petronilla per tempi eccezionali, Orto di guerra, Cucina Vegetariana. Manuale di Gastrosofia naturista e perfino la locandina, bandita dalla Cattedra Ambulante di Agricoltura, dell’VIII Concorso nazionale per la vittoria del grano bandito dal Capo del Governo. Erano gli anni dell’autarchia e la produzione dei cereali stava subendo una vera e propria rivoluzione in termini di modalità di coltivazione, specie utilizzate, miglioramento genetico vegetale, cambiando radicalmente la dieta degli italiani.
Era il 1916 quando la Confederazione Fascista dei lavoratori dell’agricoltura pubblicava Le norme e istruzioni per l’organizzazione sindacale agricola (già alla seconda edizione a cura del servizio di Propaganda voluto da Benito Mussolini) che mirava allo “sviluppo, disciplina e potenziamento dell’agricoltura italiana” promosso e reso possibile dalle Corporazioni a ciclo produttivo agricolo, industriale e commerciale, ben otto diverse a partire da quella per i cereali, a quella olearia e dei prodotti tessili. Inizia così la sperimentazione agraria, la “battaglia del grano” e la propaganda agraria e zootecnica.
Di pochi anni dopo, 1928, sono i risultati delle ricerche che da tempo erano in corso, negli Stati Uniti d’America, di L.J. Stadler e G.H. Goodspeed per ottenere nuove varietà più produttive. “Il primo, irradiando semi di graminacee con raggi X, constatò un incremento della frequenza di mutazioni sia nell’apparato clorofilliano che nella morfologia delle piante; ad analoghi risultati pervenne anche il secondo, che aveva esposto ai raggi X e radiazioni emesse da radioelementi, semi, polline e piantine di tabacco”1. E negli stessi anni, in nome del progresso umanitario e della salvaguardia della sanità pubblica sanificando con il DDT le agricole invase dalla malaria, la Rockfeller Foundation che prende vita nel 1916 con il suo fondatore e “filantropo” John Davison Rockefeller Sr (1839 – 1937) e suo figlio John Davison Rockefeller Jr (1874-1960), proprietari della società petrolifera Standard Oil, inizia a mettere mano al grande affare del secolo: l’agroindustria.
Il pallino dell’eugenetica della Fondazione americana sarebbe stata di lì a poco l’intuizione vincente per far partire centinaia di ricerche scientifiche sul miglioramento genetico di tutte le specie vegetali più interessanti per l’economia mondiale2. L’agronomo scienziato americano Norman Borlaug (1914-2009), padre della “Rivoluzione Verde” vincitore del Nobel per la Pace, lavorava per i Rockefeller e nel 1942 per il colosso americano Du Pont per sviluppare battericidi e pesticidi potenti contro le malattie delle piante in particolare dei cereali, sui quali portò avanti le ricerche genetiche per modificarne la taglia, abbassandone lo stelo e creando nuove varietà da esportare nei Paesi in via di sviluppo a partire dal Messico fino all’India, l’Africa e l’Asia. Queste varietà nuove dovevano avere caratteristiche di “ampio adattamento”, cioè coltivabili nelle più vaste aree geografiche possibile rispetto a quelle con “adattamento specifico”, cioè idonee in particolare ad aree geografiche come “pianure fertili, zone aride, terreni collinari poco profondi, agricoltura di montagna”3. Le prime, teoricamente molto produttive, avrebbero avuto però come necessità per la coltivazione notevoli apporti di elementi nutritivi (azoto in particolare), meccanizzazione, nelle zone aride irrigazione e necessità di pesticidi specifici contro le avversità come funghi e insetti. La loro diversità a livello genetico sarebbe stata ridotta notevolmente rispetto alle varietà a adattamento specifico, cioè quelle coltivate dai contadini nelle varie aree del mondo selezionate in modo spontaneo per quel tipo di esigenze locali (clima, terreno, usi, pratiche tradizionali di trasformazione, resistenze alle avversità).
Vi chiederete cosa c’entra l’argomento con quello che oggi mangiamo, con il pane che troviamo negli scaffali dei supermercati o nei panifici trasbordanti di mille tipi di pane. Ebbene sarebbe utile chiederselo poiché la qualità dei prodotti alimentari che mangiamo è direttamente connessa al nostro benessere e alla nostra salute. A volte si sentono frasi che ricorrono tra i commensali: “Sembra il pane di una volta”, “Questo pane di farro integrale è per me l’unico digeribile!”, “Non riesco più a mangiare il pane bianco”.
Il mistero ce lo hanno svelato in questi ultimi anni diversi ricercatori, agroecologi e medici nutrizionisti che si sono chiesti il motivo dell’aumento di molte malattie legate all’uso dei cereali, come la celiachia o all’insorgenza nei bambini, ma non solo, di intolleranze al glutine, cioè fastidi connessi alla digeribilità e all’assimilazione dei panificati da parte del nostro sistema digerente.
Le varietà selezionate durante la rivoluzione verde, dette oggi “moderne”, per distinguerle da quelle tradizionali, erroneamente chiamate antiche, sono quelle favorite nelle zone più produttive, piovose più fertili sia naturalmente sia con metodi artificiali (esportati anche nei Paesi più poveri dal sistema Occidentale) come concimazione, meccanizzazione e irrigazione. Queste varietà che hanno sostenuto opportunamente i grandi produttori di sementi ed i sostenitori del metodo di selezione sopra descritto, hanno fatto scomparire la buona parte delle varietà locali, quelle selezionate dai contadini dell’Asia, dell’Africa o del Medio Oriente, nelle aree più povere e aride.
Le varietà cosiddette commerciali hanno come caratteristica l’uniformità genetica, quella agognata dalle ditte sementiere che riducono al massimo i costi di produzione e riescono a coprire più vaste aree coltivabili possibile a spese degli agricoltori che devono poi avvalersi degli insetticidi, diserbanti selettivi e concimi acquistati dalle stesse aziende fornitrici di sementi. Dietro questa uniformità genetica (ottenuta evitando che le varietà si incrocino tra di loro durante la produzione controllata del seme) si nasconde un’agricoltura, ormai agli occhi di tutti, non solo degli addetti ai lavori, vulnerabile alle variazioni del clima, ai parassiti e alle infestanti. Ma soprattutto una produzione di frumenti omogenea in centinaia di Paesi del mondo, e nel caso del pane, causa dell’aumento di malattie su base infiammatoria, dell’acidosi dell’organismo, fino alla crescita di alcune forme di cancro. Molti i dati allarmanti riportati dai contributi scientifici nelle maggiori riviste di medicina in merito all’incremento vertiginoso dei casi di obesità, diabete e malattie cardiovascolari in tutto il mondo occidentale.
E ritornando al pane, se alla bassa qualità e uniformità genetica della materia prima, la specie frumento, si unisce una trasformazione che punta alla riduzione dei costi con l’uso di acceleratori di lievitazione e additivi chimici atti alla lunga conservazione (spesso presenti nelle migliaia di miscele presenti in commercio destinate ai panifici) il risultato è fatale per il nostro organismo. Non per niente è in crescita esponenziale la richiesta di pane integrale, fatto con miscele di farine di altre specie come farro, segale, canapa, orzo e molti altri negli ultimi cinquanta anni considerati cereali minori, forse perché solo “colpevoli” di non essere stati oggetto delle ricerche speculative ed interessate delle grandi aziende sementiere.
Allora una risposta può essere sicuramente quella di avvalersi più possibile di una materia prima di qualità, priva di trattamenti, di concimazioni, di più varietà panificabili possibile, farro, orzo, avena, segale, canapa, frumento duro, tenero, integrali o semi integrali con l’aiuto di un buon lievito di pasta madre o lievito fresco di birra ed il gioco è fatto. Basta solo mettere tutto in forno dopo l’impasto ed una lunga lievitazione naturale!
1 Scarascia Mugnozza G.T., Cappelli E., L’energia nucleare al servizio dell’agricoltura, Rocca San Casciano 1962.
2 Il miglioramento genetico vegetale, era già in essere dal XIX secolo ma con modalità molto diverse e complesse (incrocio e selezione massale) che non è possibile approfondire in questa sede, fanno riferimento al Centro Nord Europa, alla Spagna e all’Italia dove a partire dal Novecento si praticò con il selezionatore Nazareno Strampelli (1866-1942) l’incrocio frumento Noè con il Rieti. Strampelli non conosceva ancora le leggi di Mendel “che scoprì soltanto nel 1905, cioè dopo quasi cinque anni da quando, di fatto, aveva cominciato ad applicarle al loro lavoro”. Oltre a lui per circa un quarto di secolo, sempre sul frumento, operarono nella selezione di varietà produttive, resistenti all’allettamento alla ruggine e precoci, altri italiani come Todaro Venturelli, Michaelles e Maliani. Proprio in quell’epoca autarchica di cui si è detto sopra. Porfiri O., I Frumenti. Dalle varietà al campo. Pentagora Ed., Savona 2014. Su Strampelli si può consultare la bibliografia di Sergio Savi sul miglioramento genetico dell’italiano Strampelli rivalutato in Italia solo negli anni Novanta.
3 Ceccarelli S., Ci vediamo stasera a Damasco. Contro la Rivoluzione Verde, tra i contadini: due vite, una scola scelta di campo (in tutti i sensi), Pentagora, Savona 2019 pagg. 89-91.