Da sempre l’uomo esplora la dimensione del sacro intrecciando il rito al mito, il gesto alla parola. Le antiche tradizioni della medicina sacerdotale riconoscevano al suono una valenza magica e trasformativa: nelle liturgie di raccolta delle erbe, gli officianti entravano in contatto con il principio divino della pianta come in una funzione liturgica: ataviche consuetudini stabilivano l’abbigliamento dovuto, stagione e orario della raccolta, la giusta esposizione ai venti o a un certo punto cardinale. Ma il fulcro del rito era l’invocazione allo spirito della pianta, oppure al dio o al demone a cui questa era consacrata, attraverso formule che ne attivavano la vis terapeutica, lasciando emergere forze segrete in grado di agevolare la trasformazione in farmaco.
Il valore demiurgico della parola corrispondeva a una precisa funzione taumaturgica, che si manifestava nel nucleo metafisico del suono, laddove era possibile forgiare, modificare o trasformare la realtà. Scongiuri, litanie e invocazioni animano molti trattati di medicina antica, e ancora nelle fonti medievali non è insolito trovare una combinazione di incantesimi e preghiere cristiane mescolati in un sincretismo sinergico. Le parole erano esse stesse ingredienti medicinali, poiché operavano in una dimensione sottile, interponendosi fra l’invisibile e il visibile. Si riconosceva una funzione terapeutica anche all’acqua in cui venissero immersi e sciolti testi di preghiera, come se anche il tratto scritto potesse veicolare la carica demiurgica del suono. Secondo le scritture, Dio aveva chiesto al profeta Ezechiele non soltanto di ascoltare e predicare la sua Parola, ma di spingersi a ingerire un foglio dove essa era stata scritta, affinché si trasformasse in dolcissimo nutrimento spirituale. In una prospettiva simbolica, “mangiare” le parole equivaleva ad assumere un medicinale: cosa che nel rito magico poteva avvenire in modo sorprendentemente concreto. In un papiro greco è riportata la prescrizione di inghiottire, sciolto in acqua, l’inchiostro con cui erano state vergate parole curative.
E dopo averle scritte, toglile via sciacquandole in acqua di fonte presa da sette fonti, bevile a digiuno nel corso di sette giorni quando la luna è crescente.
Era possibile anche trascrivere le formule di guarigione sulle foglie di piante dalle virtù medicamentose, come la salvia, per esempio, che venivano poi fatte assumere al malato. La “compatibilità” fra erbe e incanti è la prova di una possibile convivenza di linguaggi religiosi sovrapposti: una sorta di corto circuito fra tradizione pagana e ortodossia cristiana. In una ricetta del Leechbook, miscellanea anglosassone di rimedi del IX secolo, una curiosa ricetta prescriveva di raccogliere betonica, lupino e altre erbe locali intonando canti e danze rituali, per poi dirigersi verso una chiesa.
Quando il giorno e la notte si separano, canta litanie in chiesa, vale a dire i nomi dei santi, e il Padre Nostro; cantando la canzone spostati in modo da essere vicino alle erbe e gira loro intorno tre volte; e quando le hai raccolte torna alla chiesa cantando lo stesso canto, e canta dodici messe in onore dei dodici apostoli per le erbe e per le bevande appropriate per la malattia.
Anche in questo caso, l’accesso alla funzione curativa della pianta era mediata da preghiere e da rituali attentissimi. È interessante il ricorrere del numero dodici, nell’indicazione delle messe cantate in onore dei dodici apostoli, significativo soprattutto in quanto riferito alla betonica, pianta considerata sacra già dalla tradizione egizia e poi greca e romana, e che nella farmacopea classica era chiamata “erba dei dodici dei”. Sempre in epoca ellenica, rituali simili accompagnavano la raccolta dell’elleboro nero o della mandragora: intorno a quest’ultima si usava disegnare tre cerchi concentrici con una spada, per poi tagliarla rivolgendo lo sguardo a ovest, danzando e pronunciando formule magiche.
Tracce di questi residui cultuali si trovano ancora numerose negli atti dei processi dell’Inquisizione contro le guaritrici popolari, dove è possibile osservare il medesimo impasto di linguaggio e gestualità. Nella seconda metà del Cinquecento, una guaritrice veneziana, Elena detta la Draga, per liberare un bambino da un maleficio prendeva cinque spicchi d’aglio, cinque cuori di ruta, altrettanti di abrotano, di assenzio, di erba stella, e mentre preparava il farmaco recitava cinque padrenostri e cinque avemarie, ritmando ogni gesto o quantità sul numero delle piaghe di Cristo. Poi, aggiunto del carbone prelevato dal focolare nella notte di Natale, pestava tutti gli ingredienti insieme e vi versava sopra olio d’alloro. L’unguento ricavato serviva per curare l’indemoniato nel terzo o nell’ultimo giovedì di Luna, seguendo uno schema a croce nel trattare le singole membra e supplicando Cristo, la Vergine e la Trinità di concedere la guarigione.
Benvenuta Pincinella, guaritrice bresciana accusata di stregoneria nel 1518, quando trattava un malato era solita inginocchiarsi tenendo fra le mani un mazzetto di ruta e recitando padrenostri e avemarie, senza dimenticare di rivolgere un’invocazione alla pianta, che cominciava così: “Dio ve salvi, Madonna ruta...”: ancora una volta, il rito ci trasporta in un’atmosfera permeata di magia pagana mediata da un linguaggio cristiano, e la “strega” Benvenuta non ci appare tanto diversa dalla maga Medea, quando nelle notti di Luna piena, a piedi nudi e con i capelli sciolti, priva di ornamenti, avanzava nel silenzio dei boschi invocando Ecate, maestra di arti magiche, e la Terra, madre di tutte le erbe. E mentre il filtro ribolliva nel calderone, affinché radici, semi e fiori diventassero farmaco, si affidava alla magia delle herbae cantatae.