Uno dei “tormentoni” dell'epoca del Coronavirus e non solo, sono, nella vita quotidiana, le regole, regolette, regolamenti che ci piovono addosso, spesso incomprensibili e contraddittori, suscitando equivoci, incomprensioni, con le relative polemiche giornalistiche, pretesti politici, ecc.
Ma, se questa congerie di norme ci dà individualmente e un po’ egoisticamente fastidio, ripensandoci, dobbiamo ammettere la difficoltà di affrontare una congiuntura inusitata come quella della pandemia e anche capire che senza di esse la situazione potrebbe forse essere peggiore: si tratta di capire la loro utilità e la loro equità, dando magari un’occhiata a quanto avveniva in passato. In particolare, visto che l'alimentazione è alla base della nostra vita, e per mangiare bisogna fare la spesa, addentriamoci in uno dei più importanti mercati alimentari del ‘600, quello di Ravenna, per scoprirne protagonisti, tutori, regolamenti, norme igieniche e sanzioni.
Se entriamo nel particolare delle regole, riscontriamo che l’applicazione e il riscontro delle norme, così come la comminazione delle pene, erano appannaggio di una sorta di “supervigili”, che si aggiravano tra strade, mercati e botteghe accompagnati dai loro scagnozzi, guardie del corpo ed esecutori materiali.
I supervigili nella loro funzione dovevano “essere rispettati, come ministri publici, e di più obediti dagli Artefici (artigiani) di qualsivoglia essercitio e professione in modo tale, che richiesti, dovranno aprire le case, botteghe e magazini senza veruna contradittione…”.
A questo punto, essi dovevano verificare se le derrate alimentari “di carne, pesce, vino, oglio, & altre cose (fossero) forte putride, corrotte, guaste, overo falsificate…sotto pena della perdita della robba, d’abbrucciarsi su la Piazza a sue spese”.
Dal paragrafo riguardante gli evasori del dazio, in entrata e in uscita, veniamo a sapere che all’epoca si vendevano e consumavano “oglio, sapone, risi, mandole, fichi, cacio, caviale, arenghe, sardelle, saraghe, aranci, limoni, cedri, lana, lino, carta, tavole, chiodi” e che si producevano “legna, vino, pesce, ova, cacio, butiro, pollami, piccioni, oche, anitre, agnelli, pecore, castrati, vitelli lattanti, porci, candele, pere, mele, noci, sellari, cardi, carchioffi”.
Tutte queste merci più o meno pregiate, più o meno essenziali alla vita quotidiana, esigevano un calmiere e i nostri i vigili avevano il compito, dopo aver controllato la loro qualità, di fissarne i prezzi, in base ai costi dei rivenditori, facendo esibire chiari cartelli coi rispettivi prezzi in modo che non fossero venduti “a maggior prezzo di che sarà stato imposto, & ordinato…”.
Esisteva già il “registro clienti” che doveva essere rigorosamente aggiornato con “cognomi de’ compratori, quantità, qualità, e prezzo della robba, con la data del di mese, & anno… e mancando il libro di uno de’ detti requisiti, non se gli prestarà fede, come sospetto di falso”.
Il fenomeno dei venditori abusivi era già di pubblica diffusione se si prescriveva che chi voleva vendere non poteva farlo “per strada, né in altro luogo fuori della pubblica piazza”, così come era diffuso il fenomeno della merce esposta artatamente: “Se alcuno studiosamente porrà nella sommità delle ceste, e panieri, robba bella, e buona… & al di sotto d’altra forte, e d’inferiore conditione, s’intenda incorso in pena di mezzo scudo per cesta, e perdita della robba”.
Nel ‘600 il pane era l’alimento base nella tavola della maggioranza della popolazione, perciò, le autorità, per scongiurare un malcontento che avrebbe potuto sfociare in pericolosi tumulti provocati da un’eventuale carenza dell’indispensabile alimento, erano estremamente rigorose con fornai e “panevendoli”.
Anzi tutto era loro obbligo “mantenere continuamente la piazza abondante di pane, a tante lire lo staro… e vendere detto pane conforme a’ calmieri”, inoltre, per evitare accaparramenti: “occorrendo che non trovino frumenti per cagione di penuria, si concede libera facoltà… di provedere, e sforzare con tutti i rimedj opportuni e necessarj ciascuna persona ch’abbia frumento a venderlo a fornari al giusto & honesto pretio”.
Severissime erano le norme e le punizioni relative alla sofisticazione del pane, per cui si poteva anche arrivare a pene corporali: “Se accadrà che alcun fornaro sia tanto ardito di porre studiosamente del loglio nel pane, o della terra, calcina, semola, o di mischiarlo con altre sostanze, sia castigato in pena di dieci scudi, perdita del pane e privazione del suo esercitio, e tre tratti di corda”.
Però, anche allora non si viveva di solo pane e, appurato che il vino locale più diffuso era “l’albanella bianca” e che i controllori, in veste di enologi, dovevano assaggiare, gustare e approvare i vari campioni della popolare bevanda, per poi sigillarne le botti, passiamo ad un altro alimento fondamentale della mensa dell’epoca: il pesce.
Ma che pesce si consumava? Tra quello fresco spiccavano i cefali (di cui era vietata la pesca da febbraio a giugno), gli storioni, i pescecani, le anguille, le aringhe, le sarde, le seppie, le canocchie, i granchi e le ostriche.
Richiesto era anche il pesce salato, affumicato e carpionato, così come “paverazze” e “cappe”; molto numerose dovevano essere anche le friggitorie, se una norma minacciava gravi sanzioni a tutti quei “frigitori” che facevano incetta di pesce “in pregiudizio e patimento universale”.
Viabilità e traffico: eterno problema che sembrerebbe essere croce (e mai delizia) della città contemporanea, ma non è così, perché, nel ‘600, invece dei motorini smarmittati, incombevano… i maiali, che non solo potevano intralciare il traffico, ma anche essere parcheggiati abusivamente: “Ordiniamo & espressamente commandiamo che nessuno per l’avvenire possa tenere porci vagabondi per la città, né legati per le strade publiche”.
C’erano anche le zone ZTL, infatti, era proibito ai conducenti di asini “camminare sui saletti delle strade, né correre per la città, né tampoco passare per alcune la strade sotto pena in ciascuno delli capi suddetti d’uno scudo”; limitazioni ancora più restrittive ai mezzi privati entravano poi in vigore nei giorni di mercato.
Altro problema di grande attualità l’abusivismo edilizio e l’arredo urbano: già allora si stabiliva che nessun manufatto avrebbe dovuto “impedire il caminare, andare, e tornare per le strade, a piedi, a cavallo, & in carrozza… né sarà lecito a gli artefici tenere nelle strade sassi, mattoni, colonne, terreni, banche e banchetti, scanne e scaranne…”.
Dunque, uno spaccato di vita del mercato di una città, che evidenzia la difficoltà di gestire interessi diversi, da una parte l’esigenza di non intralciare approvvigionamenti e commerci, come avviene oggi con le “riaperture”, dall’altra il dovere di fare rispettare rigorose norme igieniche. I mercati sono sempre stati, e per la densità di avventori, e per il rischio di contaminazione da cibi ed animali, fomite di focolai epidemici, lo sono stati nel ‘600, epoca di terribili epidemie, e lo sono, come stiamo costatando, purtroppo oggi, con il COVID-19. Le autorità, come vediamo, sono spesso in balia dei poteri forti di Confindustria, Confcommercio, Confesercenti & soci, sta a noi cittadini attuare quei comportamenti “virtuosi” capaci di dare un appoggio concreto a chi ci governa, per non soggiacere alle pressioni di chi pensa a una teorica e astratta ripresa economica, oltretutto inattuabile senza aver prima debellato completamente il virus, come dimostrano le continue “chiusure” e “riaperture” in Cina, Germania, Francia, Gran Bretagna, ecc.