Stretta sul fondo, sinuosa, si apre come un occhio sul palato esigente, tazza bollente.
Da qui, lieve ed impercettibile si erge verso l'etere un rivolo di vapore la cui origine ha l'aspetto cremoso e quel pallore che si addice alla tenebra di un affondo notturno quanto solo la lingua può insinuare nella cavea delle parole: gola le cui pareti ardono per un così oscuro sentimento.
L'olfatto conclama l'amplesso prima dell'accensione del motore che passa da un “trito” rituale esotico: la presa del caffè al “Bar”.
Questo suono composto da tre lettere definisce un luogo destinato alla vendita di bevande alcoliche ed analcoliche e deriva dalla contrazione dell'inglese barrier che significa sbarra. Nell'epoca della prima colonizzazione delle Americhe veniva impiegata come separatoia nelle osterie e nelle bettole per l'angolo dedicato alla somministrazione degli alcolici.
In Inghilterra, lo si fa risalire alla parola barred ossia “sbarrato” in quanto nel XIX secolo le restrizioni proibizioniste serravano gli ingressi degli spacci di alcolici con sbarre chiodate.
Entrambi i termini derivano dalla parola latina barra che di fatto cinge il bancone del locale in quanto si presenta doppia, in ottone, sia per l'appoggio delle braccia che alla base per quello dei piedi; ma può essere anche l'acronimo di “Banco A Ristoro”, definizione data dall'imprenditore toscano Alessandro Manaresi che aprì il primo locale di questo tipo in Italia.
Recarsi in un luogo di ristoro e d'incontro è d'ispirazione per la percezione dell'emotività sociale e la costruzione di un fenomeno di stile da esso ispirato.
Il bar, o café che dir si voglia, è protagonista della creatività umana, tanto quanto il giardino d'artista.
Da Giverny a Granville dove la sostanza vegetale rivelata dalla luce e dalle molecole umide degli specchi d'acqua ha assolto al ruolo qualitativo della bellezza rivelata nella modernità impressionista, alle relazioni sociali, ritratte da Renoir, nei locali alla moda e nei luoghi di ritrovo pubblico, come i café o i grandi alberghi delle capitali europee e i loro bar.
Questi ultimi sono certamente molto frequentati nelle rigide temperature degli inverni della prima metà del '900. A quel tempo il clima continentale era carico di quel sapido contrasto che faceva dell'escursione termica il carattere di una stagione ed era parte integrante delle emozioni forti della vita quotidiana. Nulla si era ancora mitigato attraverso il consumo di energia, come oggi, nostro malgrado, accade e il passaggio dalla bella stagione all'inverno generava la più assoluta acutizzazione dei battiti cardiaci.
Così era Parigi, nel gennaio del 1947, con il termometro che segnava quattordici gradi sotto lo zero. Da poco si era usciti dal conflitto mondiale e la misura dei sogni emergeva con difficoltà dalla mera sopravvivenza ricostruttiva di quella parvenza di normalità che prima si mima e poi si compone attraverso la spinta alla vita.
L'oblio dell'arte, causato dall'orrore bellico, aveva celato il moto ascensionale dello spirito ma non lo aveva cancellato e si muovevano i primi passi verso una nuova declamazione poetica del bello. In quella morsa termica mancava poco alla riapertura delle danze della moda che tornava alla calendarizzazione tradizionale di prima della guerra.
La curiosità e l'attenzione alla forma che l'abbigliamento stava assumendo, in un presente ancora carico di razionamento energetico e di aspetti vestimentari fortemente compromessi dalla cruda dimensione imposta dal conflitto, si misurava con il crescente impiego della donna come forza lavoro. Rigore ed essenzialità venivano ben rappresentati da uno stile dalla “linea quadrata”.
Dal 5 febbraio, per una settimana, si sarebbero presentate, nella capitale francese, le collezioni della haute couture Primavera-Estate 1947. Attorno a quel calendario si erano alimentate le aspettative legate all'edificazione di un nuovo progetto finanziato dal re del cotone Marcel Boussac. Costui aveva rilevato una palazzina al numero 30 di Avenue Montaigne, a Parigi, lasciandosi guidare da un couturier che aveva lavorato negli atelier di Robert Piguet e Lucien Lelong: Christian Dior.
A quest'uomo di 41 anni, originario di Granville sulle coste della Normadia, Boussac voleva affidare la maison Philippe e Gaston, ma Dior gli propose di aprirgliene una a suo nome. Sarà dunque a quel civico, nell'VIII arrondissement, che l’8 ottobre 1946, verrà fondata la maison di moda Christian Dior.
Il numero che rappresenta l'infinito sarà anche l'accento formale della sua prima collezione battezzata En Huit, presentata il 12 febbraio dell'anno seguente.
Quali sono le ragioni che portano alla scelta di Avenue Montaigne?
Christian Dior ravvede nella presenza al n. 25 dell'Hotel Plaza Athénée, luogo di ritrovo dell'aristocrazia e dell'alta borghesia internazionale, una ragione per sviluppare il sogno dell'alta moda.
Progettato dagli architetti Jean e Charles Lefebvre, l'Hôtel Plaza Athénée apre ufficialmente le sue porte il 20 aprile 1913. Nella via intitolata allo scrittore e filosofo Michel de Montaigne, si affacciano diversi palazzi eleganti e sofisticati club di cabaret. La costruzione di questo lussuoso hotel inizia nel 1911, per volontà dell'albergatore Jules Cadillat.
Fu concepito nello stile parigino dell'architettura Haussmann, con la facciata in pietra tagliata mossa dai balconi in ferro battuto riccamente decorati e ombreggiati da quelle tende da sole rosse che sono divenute uno dei suoi tratti distintivi. La storia del Plaza si intreccia con la vita cittadina e con la cultura della capitale; di fatto il vicino Théâtre des Champs-Élysées viene aperto esattamente lo stesso giorno e diviene presto un ritrovo popolare sia per i compositori che per gli amanti dello spettacolo che regolarmente vi cenano.
L'hotel diviene il centro nevralgico della Café Society: con questo termine si definiva l'insieme delle persone che facevano parte di una élite economica e culturale frequentatrice dei locali più alla moda.
Dior è uno degli assidui avventori dei saloni progettati dai Lefebvre: ne respira energia, gusto e clientela. Le ricche signore, in tailleur, che verso sera vi si recano per bere qualcosa, giocano la partita di una vanità ritrovata.
Nelle avventrici del bar dell'Hôtel Plaza Athénée Christian Dior ravvede il tratto ispirazionale di una nuova seduzione che attraversa lo stile Luigi XVI (XVIII secolo) ed esalta una ritracciata curvilinearità femminile fornendogli la base archetipica del modello simbolo della sua prima collezione: il “Bar”.
L'attenzione della stampa internazionale e del bel mondo era dunque rivolta alla collezione finanziata da Boussac che sarebbe andata in scena il 12 febbraio. La curiosità era alle stelle, alimentata da alcune delle voci più vicine al couturier, come Christian Bérard: artista, scenografo, decoratore, personalità eclettica dell'arte e dello spettacolo, incontrato, 25 anni prima, attraverso la passione comune per la musica (Dior suonava il piano). Costui aveva rilasciato dichiarazioni che tracciavano un'ipotesi di linea della nascente maison di moda.
Sta facendo delle gonne lunghe come quelle che portavano una volta le mogli dei pescatori marsigliesi e le farà indossare con tacchi alti e piccoli cappelli.
Simili affermazioni aprivano squarci di luce e di ombra sull’attesa rivoluzione. L'idea di avere anteprime era già parte integrante del sistema comunicazione dell'epoca dove molto si vedeva, ma anche si leggeva.
Cristian Dior anticipa i contenuti del défilé al suo pubblico con un comunicato il giorno della sfilata e alle 10:30 si apre il sipario.
2 Silhouettes principales:
La silhouette “COROLLE” et la silhouette en “8”.
“8”: nette et galbée, gorge soulignée, taille creusée, hanches accentuées.
I modelli presentati sono 96, la prima indossatrice ad apparire è Marie-Thérèse la quale ha un medesimo numero di uscite rispetto alle altre e un medesimo protocollo esecutivo che va dall'emersione dalle tende in satin grigio sino allo scalone, attraversando i saloni della maison annunciata da una voce che scandisce il numero di uscita in francese e in inglese.
Per primi sfilano i tailleur e i completi da città, seguono i modelli eleganti da cocktail per finire con gli abiti da sera e la sposa.
In quella data l'essenza del profumo Miss Dior è diffusa a profusione nelle stanze della maison per il suo lancio e ciascun abito porta, nel sottogonna, un rametto di mughetto, fiore preferito del couturier.
Ad ogni passaggio le creazioni floreali, uscite dalle memorie delle colture vegetali di Madeleine Dior (madre di Christian), a Villa Les Rhumbs in Normandia, accolgono l'infrangersi degli applausi sulle sete cangianti e sulla più felina savana che per la prima volta macchia il corpo fisico della moda, così come sui ricami che illuminano la sera.
Quelle donne dal carattere differente e dalla differente età alle quali Dior ha affidato la posa delle sue creazioni sono le sue modelle che con un vezzeggiativo chiama “chérie”. Esse rappresentano un tutt'uno con quanto indossano e con la sua visione: Noëlle, Paule, Yolande, Lucile, Tania e Marie-Thérèse hanno il compito di accompagnare l'atto ideativo sino alla sua concretizzazione di fronte al mondo.
Una su tutte, Tania, farà risaltare, con il suo ondeggiante avanzare, un modello che più di ogni altro risulterà declamare, con movenza di danza, la nuova semantica della haute couture: linea “En Huit” per la “Corolle”.
In quel giorno parigino la temperatura era di meno sei gradi centigradi, l'inverno più rigido dal 1870, ma quanto accadde, parafrasando Sir Alfred Joseph Hitchcock, convertì l'atmosfera ghiacciata in bollente (“ghiaccio bollente” era la definizione data dal regista a Grace Kelly, sua musa e grande estimatrice della maison Dior).
Dalla cristallizzazione dell'acqua che raffredda i cocktail nei bar alla moda, a coloro che al bar vi si recano per esprimersi nella vitalità della Café Society il passo è breve ed il battesimo di uno dei tailleur più iconici e rivoluzionari della storia dello stile mondiale è fatto:“Bar”, da quel bar, del Plaza Athénée, di cui Dior era frequentatore e al quale si era ispirato.
La giacca è in shantung di seta avorio, come una seconda pelle poggia, per la prima volta, senza intermediazione alcuna, sul corpo della donna. Modellata come il busto di un manichino da sartoria, braccia comprese, il capo segue e struttura il torso delineandosi come l'anatomia che Tania suggerisce: nuova Eva, tutta curve, dalle spalle al bacino.
Il piccolo revers esprime una lieve traccia di punta che emerge dal taglio a monopetto dopo una sequenza di cinque asole e altrettanti bottoni fatti di quell'avorio di cui è rivestito il corpo della dea. La seta scivola a copertura di minareto nel tornire il fianco con falde che ombreggiano, come parentesi, 12 metri di plissé di lana nera per 140 cm di altezza a lambire l'ambiente circostante di un volteggiante moto chiaroscurale.
Coesa all'anatomia umana questa giacca fu affidata all'esecuzione chiururgico-scientifica di un giovanissimo Pierre Cardin, allora responsabile dell'atelier tailleur, il quale eseguì un lavoro di modellato attraversando la superficie del busto femminile con una serie di pince e intagli per “affinare il corpo senza strizzare”, come da dettato di Monsieur Dior.
Per ottenere la bombatura in stile Luigi XVI, determinante per accentuare la linea a “8” nella “Corolla”, il giovane Cardin acquista, alla farmacia dell'angolo, delle compresse di cotone sterile che unisce, ripiegate a ventaglio, a ridisegnare, dall'interno della giacca, il fianco per creare il volume desiderato.
Alla gonna, dalla già importante metratura, si aggiungono delle sottogonne in tulle. Per aumentare il preziosismo, il couturier di Granville, recupera una tradizione da tempo abbandonata che voleva la presenza di una fodera di percalle e taffetà.
Vennero impiegate 150 ore per la realizzazione di questo capo simbolo della rinascita della moda e dell'industria manifatturiera nel dopoguerra.
I numeri ci dicono che il modello Bar fu il più applaudito ma non il più venduto di quella collezione in quanto 7 furono le sue repliche e 14 le tele per esso realizzate, contro i 60 pezzi del modello New York, i 55 del modello Maxim's, i 45 del modello 1947 e i 34 del modello Amour.
Vita stretta, fianchi marcati, spalle arrotondate e petto pronunciato: ecco le caratteristiche stilistiche di quello che la redattrice capo di Harper's Bazaar America, Carmel Snow, definì, con un'esclamazione: “It's such a New Look!” e che questo tailleur da Café Society perfettamente sintetizza.
Saint Laurent, successore di Dior, dal 1957 sino al 1960, mai lo replicò, al punto che si parlò di “Now Look”.
Saranno altri, dopo di lui, da Bohan, a Ferré, passando per Galliano, Simons e Chiuri, ad interpretarlo sino ai nostri giorni perché certamente qualcosa di “stretto e sinuoso” lega il Bar alla vita di tutti noi.
Dalla tazza al tailleur...