Una delle conseguenze della pandemia, in particolar modo in Italia, è lo svuotamento.
Durante tutta la fase del lockdown, da noi più rigido e più esteso che altrove, è stato lo svuotamento dello spazio urbano. Le città, grandi e piccole, da sempre luogo della vita sociale tipica dei paesi mediterranei, si sono trovate desertificate dall’oggi al domani.
Questo processo, subitaneo, ha reso a sua volta evidenti due cose assai importanti.
La prima, che il ‘senso’ della città è precisamente nell’essere luogo di socialità, e che quindi - privandola di questa - se ne stava negando la ragione fondante e la si stava deprivando del proprio senso più profondo. In ciò, poiché il linguaggio della comunicazione è nella nostra società contemporanea fattore determinante, è importante notare che l’uso della dizione “distanziamento sociale” (in luogo di un più cogente “distanziamento fisico”) abbia di molto contribuito a questa privazione di senso.
La seconda, in un secondo tempo, quando la morsa del lockdown si è allentata, è che il cuore delle nostre città, i centri storici in particolare delle città d’arte, si erano già desertificati prima della pandemia, svuotati di abitanti e (quindi) di senso. Il tracollo dei flussi turistici, infatti, ha reso evidente un processo di turistificazione selvaggia, che nel corso degli ultimi 10/15 anni ha snaturato le città e ne ha espropriato gli abitanti. Senza turisti, il cuore delle città si è fermato. Nessuno li abita (più), nessuno li attraversa.
Questo duplice vuoto - di vita e di senso - è una ferita che non sarà facile sanare. Ma, soprattutto, è una condizione che non può protrarsi a lungo. Ogni vuoto, non rimane tale perché inevitabilmente si moltiplicheranno le spinte per riempirlo. E, ovviamente, se non sarà l’interesse pubblico a farsi avanti, saranno gli interessi privati a colmarlo.
Purtroppo, allo stato attuale, le rappresentanze del pubblico interesse, cioè le amministrazioni centrali e locali, non sembrano avere alcun... interesse, né tanto meno alcuna idea, in merito. Assistiamo anzi a spinte paradossalmente opposte.
I due mesi di lockdown serrato, tra l’altro caratterizzati da una ‘torsione’ della funzione dei vari corpi di polizia, passati dalla protezione del cittadino alla protezione ‘dal’ cittadino, sembrano infatti aver segnato culturalmente assai più i governanti che i governati. Sono infatti i primi ad aver perso l’abitudine a vedere i secondi nelle strade delle proprie città, ed in soli due mesi ne hanno cancellato ogni memoria. Tant’è che, nonostante, appunto, i centri storici siano svuotati dalla massiccia presenza dei turisti, ai loro occhi appaiano insopportabilmente ‘affollati’, e si moltiplicano le (bizzarre) idee per ‘delocalizzare’ in luoghi periferici la vita sociale degli abitanti. Con l’ovvio esito di svuotare ancor più gli spazi urbani, di vita e di senso.
Oggi più che mai, invece, è necessario pensare a come riportare senso e vita nelle città, per sanare la ferita inferta dalla desocializzazione forzata. Senso e vita che non possono essere un mero ‘ripristino’ di condizioni pregresse - ancorché impossibile oggettivamente - ma necessitano di forme nuove, per determinare condizioni nuove.
Se, dunque, le città d’arte sono state svuotate dai ‘consumatori nomadi’ dell’industria turistica internazionale, che a loro volta le avevano svuotate dagli abitanti e dalla vita ‘reale’, è il momento e l’occasione per innescare un processo inverso, di ‘riappropriazione’ della città.
Che lo spazio pubblico diventi agorà. Che i giardini, le piazze ed i cortili diventino aule, dove i cittadini di domani re-imparino le mille connessioni che li legano alla propria città, alla sua storia, ma anche quel senso di reciproca appartenenza su cui, tra l’altro, si fonda il senso di cittadinanza.
Ma più ancora, ed ancora più importante, è necessario che lo spazio pubblico sia invaso dall’arte.
Un’invasione immediata e non-mediata, di ogni spazio pubblico, da parte delle arti tutte - e non solo di quelle performative e dello spettacolo. Che non si limiti ad uscire all’aperto, ma che nel fare questo si reinventi, trovi forme nuove di dialogo con i luoghi e con chi li attraversa, per trovare - tutti insieme - un nuovo senso di vivere nella/la città.
Occorre che l’arte si espanda. Che ‘contamini’ ogni luogo, e se ne faccia contaminare. Che incontri ciascuno. Che non lasci fuori o indietro nessuno.
Occorre che l’arte espanda il proprio senso profondo, lo riconnetta con quel corpo vivo che sono le città, a cui va a sua volta restituito l’élan vital.
Occorre che lo si faccia ora. Senza attendere alcunché, tanto meno una idea precostituita del cosa e del come, perché:
Non esiste il cammino. Il cammino si fa camminando.
(Antonio Machado, Viandante non esiste il cammino)