Del silenzio come comunicazione verbale, lo spazio di un’architettura ma anche l’estetica del vuoto e di una forma in cui vivono le città e i territori, e dove assistiamo ad altri paesaggi urbani. Ai tempi del Coronavirus, accade anche questo. Si assiste alla metamorfosi e alla trasformazione delle identità urbane, ad una bellezza altra e forte, con le piazze e le strade vuote in cui vige l’apologia di un “silenzio imperfetto” che crea un senso di solitudine e di smarrimento.
Le nostre città da settimane sono diventate identità metafisiche, configurazioni astratte, bellezze riconoscibili - le riconosciamo in quanto sono le città in cui viviamo - quasi fossero monumenti sospesi, quando invece sono la forma reale di quanto costruito nel tempo, identità che vivono attorno a noi, ma che spesso sfuggono ai nostri occhi, al nostro sguardo e alla nostra percezione in quanto il silenzio e la mutazione urbana non appartengono a quel quotidiano che le immagini e le riprese televisive da tempo ci presentano in un quadro anonimo e deserto, dentro una dimensione costituita da luoghi - strade, piazze, incroci - presenti ma assenti, in quanto spopolati degli “attori sociali” che danno luogo alla vita quotidiana rendendola dinamica e pulsionale.
Così le nostre città sono diventate l’espressione di un silenzio, la mancanza di rumore, di una quiete quale mutazione dell’azione. È un “silenzio imperfetto” quello che ci accompagna in questo periodo di timore e di angosce, di lutti e di dolori, è un silenzio che non si scosta dalla parola nascente, anzi la circoscrive e tiene per sé quello spazio che prende il posto di un territorio da difendere - un presidio interno - o di una prima prossemica ai distanziamenti o confinamenti. È un silenzio imperfetto che si alimenta in un’estetica del vuoto, tra bellezze e ansietà, preoccupazioni e l’ingresso di nuovi codici – verbali, visivi, emozionali.
E le immagini delle città al tempo del Coronavirus sono così la testimonianza di un silenzio imperfetto insediatosi nella nostra vita quotidiana. Città mutate - da Roma a Milano passando per Venezia, Firenze, Pompei, Napoli, Bologna e Verona e tante altre città ancora - diventate ora i territori di conquista del virus, i luoghi del silenzio e del vuoto.
Queste città oltre ad essere già entrate a far parte della nostra memoria storica, sono la rappresentazione di una realtà che deve fare i conti con il Coronavirus, un nemico invisibile che, tra angosce e paure, ha riconcettualizzato il nostro sguardo sulla città con spazi aperti o di confine, verso spazi chiusi.
In altri tempi, sono stati famosi fotografi come Gabriele Basilico - massimo interprete del paesaggio e delle città - ad immortalare quelle forme e quei caratteri urbani diventati oggi il codice visivo quotidiano, la testimonianza di una presenza, il virus, e di un’assenza, l’individuo.
Ma le mutazioni del nostro paesaggio urbano, la forma e l’identità delle nostre città, possono essere anche il motivo di analisi e indagini sui nostri sistemi urbani e sulla necessità di futuri cambiamenti, in quanto nelle nostre città diventate improvvisamente territori disabitati, si sono da tempo radicati concetti ben precisi quali il tempo, la lentezza, la contemplazione, l’assenza e il vuoto - segni su cui ora ha preso corpo una nuova identità urbana e sociale.
E le città come insieme di storie, di forme, di architetture e di frammenti, dovranno, anche essere ripensate per altri paesaggi e iconografie urbane, in cui poter fronteggiare la presenza del “nemico invisibile” che ha mutato la nostra società, i tempi e gli spazi della nostra quotidianità.