Abbiamo intervistato il duo bn+BRINANOVARA composto da Giorgio Brina (Milano, 1993) e Simone Novara (Milano,1994) in occasione della loro ultima mostra presso gli spazi di Adiacenze a Bologna, Dreamt Uncanny Valley, a cura di Daniela Tozzi e Amerigo Mariotti.
bn+BRINANOVARA sono tra gli artisti giovani più interessanti del panorama contemporaneo e domandandosi “quanti luoghi può vivere un’immagine?” le loro opere ci accompagno sempre in una riflessione, profonda, di transito, nella materia e nella storia (culturale e dell’arte).
Come definireste l’essere artista? Che ruolo dovrebbe avere o ha nella società contemporanea l’artista, oggi?
L’artista ha il compito di "strappare un’immagine al reale (da Georges Didi-Huberman), ovvero raccogliere una forma dall’informe accadere di das Ding (“La Cosa”, il reale) come direbbe Lacan. L’artista è libero di dare forma - creare un’immagine - attraverso l’incontro con il reale. Il punto nodale della questione sta nel fatto che è il reale che ci guarda per primo e non viceversa.
Oggi, l’artista ci sembra una figura sfocata perché spesso è convinto di essere lui ad imporre la propria visione al reale: compie uno sforzo titanico e non si accorge di rimanere fermo nella stessa posizione in cui si trovava. All’artista è chiesto di cambiare il metodo del suo incedere quotidiano. L’artista è un portavoce della società, sia in senso più ampio sia nelle sue forme più esclusive, ma quello che non torna è che la società non sa bene che collocazione dargli, non ha ben chiaro il suo ruolo. Come conseguenza di questi due fattori, l’artista risulta di frequente il primo ostracizzato dal medesimo sistema sociale che difende e di cui si fa portavoce.
Siamo molto duri perché abbiamo intuito che questo rischio si gioca in primo luogo in noi stessi e abbiamo visto che si può fare meglio. Se osserviamo la realtà, i fatti parlano chiaro: i campioni, i grandi artisti, sono sempre riusciti a restituire l’immagine eccedente del reale. Riescono a rivelare il mondo in modo che chi guarda possa riconoscerlo.
Vi siete formati tra Italia e Inghilterra. Quanto reputate sia importante l’ambito della formazione (dalle Università alle Accademie) per un artista? Mi raccontate come sono stati i vostri anni da studente?
Tutto dipende da come usi il tempo. L’università - come l’accademia - è uno strumento importante, ma pur sempre uno strumento. Il nostro percorso è apparentemente piuttosto turbolento, tuttavia è stato e sarà determinato da una cosa: educarsi a riconoscere ciò che è necessario per crescere. Niente di più. In particolare, si è sempre rivelato utile avere modi diversi di approcciare le stesse cose - sia da un punto di vista strettamente disciplinare che geografico-culturale.
Come vi siete avvicinati all’arte?
In realtà è andata al contrario. È l’arte ci ha trovato. Era necessaria, come dicevamo prima, e l’abbiamo seguita. Poi quando ci ha chiesto “pillola azzurra o pillola rossa?”, beh, puoi immaginarti come è andata.
La vostra formazione è trasversale: va dalla scultura alla pittura, fino all’architettura. Avete dei riferimenti artistici? Artisti che vi hanno ispirato? Opere in particolare?
Bisogna sempre avere tanti riferimenti. Noi forse ne abbiamo troppi, anche perché siamo in due, e non riusciamo a farli emergere tutti, con il dovuto rispetto, nei lavori che facciamo. Tutti i nostri riferimenti, a modo loro, ci fanno spesso ridere - per genialità, cinismo, follia o solo simpatia.
Ci fa molta compagnia Philippe Parreno, per esempio, Pierre Huyghe ma anche Francis Alÿs, Felix Gonzalez-Torres, Luca Bertolo, Martin Creed, Urs Fischer, Matthew Day Jackson, David Hockney, Roni Horn, Richard Patterson, Rudolf Stingel, Gabriel Orozco, Adrián Villar Rojas, Fischli e Weiss… per non parlare di ‘old-masters’ che guardiamo sempre. E sicuramente Marcello Maloberti.
Poi bisogna avere tanti riferimenti non artistici, è importantissimo perché i lavori ne hanno bisogno. Ma evitiamo di elencarli, altrimenti non finiamo più.
Le vostre opere sono oltremodo ricche di riferimenti letterari. Avete delle letture a cui siete particolarmente legati? State leggendo qualcosa in particolare in questo periodo?
Ci stai facendo venire il dubbio di non essere legati a niente in particolare. In questo periodo stiamo leggendo Timothy Morton, Kenneth Goldsmith, Lacan e Didi-Huberman. Intervallati dai nostri classici e immancabili Slavoj Žižeke Douglas Coupland.
Come raccontereste, a chi non ha avuto l’occasione di visitarla Dreamt Uncanny Valley una delle vostre ultime mostre negli spazi di Adiacenze a Bologna, a cura di Daniela Tozzi e Amerigo Mariotti?
Dreamt Uncanny Valley è un ecosistema dove si attua una narrazione. La mostra è l’ipotesi del sogno di un androide che rivela ciò che desidera di più al mondo. Tutto nasce dal fatto che l’essere umano ha generato una distanza di sicurezza con l’androide perché, nonostante abbia sembianze umane, non è veramente umano; e questo lo intimorisce enormemente. L’androide nel suo sogno desidera poter essere uomo: sperimentare la finitudine, la mortalità che lui non può provare.
Il fulcro della mostra è - un momento di incontro - Unpredictable Ecosystem 19, una tavola dipinta con smalti e oli la cui superficie è stata in parte erosa per far emergere i vari strati di colore. La tavola raffigura il ritratto di un androide con le fattezze di un cavaliere a grandezza reale. Fare un ritratto vuol dire privilegiare la visione di qualcuno e, in particolare, l’immagine che uno vuole dare di sé. Il cavaliere è l’immagine che l’androide vuole dare di sé a chi sta abitando il suo sogno. Ci piaceva l’idea che l’uomo si veste con l’armatura per rafforzarsi e perfezionarsi e l’androide si veste da uomo per nascondere le sue imperfezioni. Quest’opera è importante perché è un momento vero di confronto tra noi e l’androide. Lui desidera entrare in dialogo con noi e per mostraci che non siamo poi così dissimili, cerca nella realtà un’immagine che possiamo comprendere più facilmente: un uomo in armatura - formalmente vicino, ontologicamente incolmabile.
Che rapporto avete con la città in cui vivete?
Milano è super. Favolosamente energica. Ma prima di tutto è casa. Ha una pecca rispetto al settore artistico: Milano è limitata. Tanto aperta quanto chiusa, e questo non fa bene alle opere. Per questo motivo ci stiamo muovendo molto in Italia e anche all’estero.
Cosa pensate del sistema dell’arte contemporanea attuale?
Non abbiamo mai capito bene cosa sia. Ci viene quindi difficile giudicarlo. Soffre, forse, di quel fattore per cui l’artista non ha un ruolo chiaro nella società e che quindi gli pregiudica la possibilità di essere un sistema a tutti gli effetti. Vive una specie di complesso di inferiorità che lo rende cattivo. Ma, dato che stiamo ancora ‘scoprendo quanto è profonda la tana del Bianconiglio’, appena coglieremo qualcosa di nuovo ti faremo sapere.
Stiamo vivendo un periodo decisamente difficile ed inedito, a causa della pandemia globale causata dalla diffusione del Coronavirus. Come vi prefigurate lo scenario post virale? Come state vivendo questo periodo di riflessione “forzata”?
Stiamo pensando ai possibili risvolti che avrà la nostra figura in relazione a tutto il resto. È un momento molto utile - ovviamente nell’ottica di valutare ciò che di positivo si può trarre da una situazione drammatica che non avremmo mai auspicato. Pertanto, crediamo che lo scenario post virale dipenda, almeno in ambito artistico, dalla scelta personale di rimettere in discussione il modo con cui abbiamo sempre fatto le cose. Solo così può essere che cambi qualcosa - sempre in positivo. Anche se troppo spesso si tende a dimenticare le cose velocemente, crediamo che un evento di questa portata lascerà un solco molto profondo.
Giunti al termine di questa conversazione, agli artisti faccio sempre una domanda … Cosa vorreste che vi chiedessi? C’è qualcosa che non vi è stato ancora domandato?
Cosa vi piace. Credo ci piacerebbe che ci domandassi cosa ci piace. Perché è una domanda che deve trovare una risposta diversa ogni volta. Il reale si manifesta nel nostro problema di fare immagine solo come un lembo, ma ogni volta è affascinante e nuova. Magari non è nulla di eclatante: è qualcosa di semplice, però è pazzesco! Pensa che cosa incredibile scoprire ogni momento una cosa che ci piace e farla vedere agli altri, piuttosto che subire il peso irragionevole di dover affermare la nostra visione delle cose. E non stiamo dicendo che una sia più giusta dell’altra, solo che uno dei due metodi dopo un po’ annoia l’altro no. Devi sapere che siamo come dei bambini: quando ci annoiamo ci mettiamo a piangere fortissimo finché non succede qualcosa di nuovo.
Ultima domanda giuro. Se chiudete gli occhi in questo istante descriveteci l’immagine che vedete. (se la vedete)
Quello che ci piace, è ovvio! E sono sicuramente due immagini diverse.