Esiste mai davvero un limite, un confronto fra storia e innovazione? O non è forse l’una, a rendere l’altra possibile? La musica, dice Alfio Antico, sa e può essere diversità e aria di casa allo stesso tempo, sa essere novità e tradizione, sofisticatezza e autenticità. Non solo l’una non esclude l’altra: bisognerebbe partire dalla terra per sfiorare il cielo, trovare ciò che la fa tremare – per capire che ciò che sarà è anche frutto di ciò che è da sempre, in evoluzione per natura. Come “il polverone che sale in cielo quando un trattore fa sballare una montagna”, la musica è ambizione al cambiamento, al movimento, alla scossa. Trema la terra, in uscita venerdì 13 marzo, è una scossa in tutti i sensi: un lavoro “educato, gentile, fatto di semplicità”, unito ad “elementi elettrici ed elettronici, inserti rumoristi e sonorità che guardano al grande panorama della world music contemporanea”. Alfio Antico è un provocatore, un detonatore di sani (e necessari) terremoti. Nel suo coraggio, dice, la chiave di svolta è la generosità. E mentre di “un palazzo di quattro piani, spesso, non sappiamo nemmeno chi lo abita”, Alfio dà importanza a tutto, “va sull’armonia come può fare un’onda di mare, un vento leggero, un borio, uno zefiro”. Viene definito “ancestrale e futuristico”: un ossimoro che accetta volentieri e che ben lo descrive, ma che non basta a rappresentarlo. Dai lavori precedenti, più personali, a Trema la terra, Alfio, pur rimanendo lo stesso, calibra i suoi suoni avendo sempre più chiaro il suo unico scopo e grande punto di forza: l’autenticità. A tal proposito sostiene: “La tradizione nessuno ce la insegna, nemmeno a scuola. Io non l’ho mai studiata.” Così, suggerisce: “Mi piace invece pensare che è lei ad essersi legata a me.”
Da venerdì 13 marzo sarà disponibile nei negozi tradizionali, in digital download e sulle migliori piattaforme streaming Trema la Terra (Al-Kemi/AlaBianca – distr. Warner/Fuga). Cosa si aspetta da questo disco?
Innanzitutto, mi aspetto che la gente lo ascolti come un disco diverso dalla solita musica che gira. Musica italiana, mediterranea: la mia musica rientra nella cultura classica, è una musica popolare. Non faccio la pizzica, ma vengo da una tradizione abbastanza profonda. Sono siciliano, la mia musica è quasi barocca, o greca, i miei ritmi sono più ariosi. Da bambino mi colpì vedere un trattore sballare una montagna e un polverone salire in cielo, ero con mio nonno a pascolare gli animali. Dopo quarant’anni tornai nello stesso posto, la montagna non c’era più. Da qui l’idea del titolo Trema la terra.
Che cosa lo differenzia dai lavori precedenti?
Lo strumento, forse. Che dà diversità, che rappresenta un mondo mio educato, gentile, fatto di semplicità. Metto a confronto la realtà di oggi, che è senz’altro molto bella, con quella di un tempo, che era bianca, più armoniosa. Un tempo ci si conosceva, si parlava, si discuteva. Oggi si fugge. Di un palazzo di quattro piani non sappiamo chi ci abita. Faccio questo paragone un po’ in chiave ironica, giullaresca, satirica. Lo strumento che mi accompagna è fondamentale, non è un tamburello ma un tamburo creato da me. Se suono la pizzica con il mio tamburo, per dire, la pizzica ci guadagna molto. Ma se un salentino suona il mio tamburo, non lo sa suonare. Io vado sui suoni, sull’armonia come può fare un’onda di mare, un vento leggero, un borio, uno zefiro. I lavori precedenti sono sempre stati lavori personali. In Supra Mari faccio il paragone tra il mare “laggiù” e la terra, la gente di mare e la gente di montagna. Supra Mari indica che io sono “sopra”, sulle montagne, quindi più sicuro. In Antico sono andato alla ricerca di suoni più ancestrali. Questo disco si avvicina ad Antico, ma lo ritengo più interessante. Antico, forse, era troppo elettronico. Quello che conta, comunque, è il coraggio, esagerare solo nella generosità. Fa parte anche questo della radice vecchia, antica, come anche nell’ambito del jazz e del rock.
E di Pancali cucina, singolo uscito il 27 novembre, cosa ci può dire?
Pancali è una montagna, un cucuzzolo che sporge e guarda l’Etna. Anticamente era un vulcano attivo, ma ora è assopito. Ci pascolano, ci coltivano addirittura le cicorie! Non è più pericoloso. Io lo conosco nella sua lettura pastorale; nella storia antica serviva a leggere il tempo. I pastori non sbagliavano mai, leggevano il maltempo meglio di chiunque altro. Le chiese nacquero dopo. Se un uomo di chiesa poteva fallire, ai pastori non succedeva mai. Si diceva che quando Pancali, la montagna, “cucinava”, cuoceva, bisognava preparare la farina, cioè il cibo, rimanere in casa e non uscire. Sono proverbi, e di solito non sbagliano! Poche parole, profonde e chiare.
“Il disco unisce le radici musicali di Alfio Antico ad elementi elettrici ed elettronici, inserti rumoristi e sonorità che guardano al grande panorama della world music contemporanea. Tutto al servizio della parola e delle storie raccontate dall'autore”. Può spiegarmi perché “tutto al servizio della parola”?
La parola già di per sé è un suono. Quando scrivo, quando canto, io già comunico, la parola già forma una metrica, forma un suono. Nel realizzare un rumore, se uno ha sensibilità, indovina subito l’intonazione. Basta pensare al rumore del vento, di un campanello, di un bicchiere. La sfumatura la crei tu, ma i rumori messi insieme creano autonomamente un’armonia.
È d’accordo con l’ossimoro, la terminologia dicotomica assegnatagli “ancestrale e futuristico”?
Sì.
Nasce nell’entroterra siciliano, racconta di essersi formato fra le montagne e i miti della cultura contadina. Sua nonna le insegna con il proprio tamburello a suonare. C’è un aneddoto che vuole raccontarci di quella che fu la sua iniziazione alla musica?
Sì, fu mia nonna ad insegnarmi a suonare. Il tamburello è uno strumento femminile, penso di essere stato il primo a dirlo e ad esserne il testimone, anche tecnicamente. In Sicilia c’è la malattia della pizzica, io ho rispetto perché nasco da quella tradizione, la portai anch’io ai tempi di Eugenio Bennato e con Musicanova. Eugenio fu il primo a diffonderla. Tutti sono portati alla pizzica ma non tutti sanno farla, non tutti sanno come si suona il tamburo siciliano. Quando mia nonna portava il tamburo a casa era una festa, portava il ballo, era generosa. Il tamburello rappresenta una figura femminile, era come fare una pasta in una pentola di terracotta. Il fumo che ne usciva attirava l’attenzione dei presenti, era un richiamo. Tra i cementi armati, invece, mi viene da dire che non circola, non cammina niente.
Proprio dopo l’incontro con Eugenio Bennato, entra nei Musicanova ed incide con loro cinque LP. In seguito, collabora con la compagnia di Peppe Barra e con Tullio De Piscopo, Edoardo Bennato, Lucio Dalla, Fabrizio De André, Roberto Carnevale, Renzo Arbore e la sua Orchestra Italiana e di nuovo con Eugenio Bennato. Nel 1990 Fabrizio De André lo chiama per registrare il suo tamburo nel brano Don Raffaè, per il disco Le nuvole. Nel 1995 è ospite d'onore del Festival Internazionale di Sitges (Barcellona). Nel 1996 suona ne Il ballo di San Vito di Vinicio Capossela. Nel 2006 inizia la collaborazione con Carmen Consoli che pubblicherà con la sua Narciso Records l'album Guten Morgen, impreziosito da un duetto con Fiorella Mannoia nel brano Cunta li jurnati. Cosa è cambiato dal suo ingresso nel gruppo Musicanova a Trema la terra?
Ho scoperto me stesso, prima di tutto. Non sapevo nulla della mia terra. Eugenio mi ha scoperto nel ’77. Io tentavo di fare il muratore. In Piazza della Signoria suonavo spesso la sera e un po’ mi vergognavo a fermarmi, perché nel fermarmi partivano gli applausi. Scoprivo la mia bravura nel suonare il tamburello. Eugenio mi ha dato tanto; Napoli per me rimane una sorta di “tetta” che non finisce mai. Artisticamente nasco a Napoli. Se suono è grazie a lui, mi ha dato quel mondo sacro-saggio, pastorale-campagnolo. Capire il bene, la cosa che si può fare, l’innesto. Quello che ci vorrebbe oggi in Italia. Con Musicanova scoprivo di sentire a naso. Diventai bravo, fui quello che inventò l’assolo con il tamburello. Io non ho mai suonato il tamburo tradizionale. Mi chiamavano per avere il mio suono. Fabrizio De André in Don Raffaè voleva “il pollice”, quel “bum” lo voleva fatto da me. Capii quanto era importante il mio suono. Il tamburo mi ha dato questo, con lui ho scoperto la mia vena artistica.
Oltre ad essere un “custode” dell’antico e della tradizione, lei è però anche un grande inventore, un musicista visionario. Oltre che per le liriche, è infatti considerato un innovatore anche per le tecniche strumentali, con l’invenzione del “trillo”, una tecnica che usa l’attrito del dito sulla pelle per far suonare i sonagli. Ce lo può spiegare?
È difficile da spiegare! Il trillo non è il battere e nemmeno il levare. Non so se vi è mai capitato in campagna di vedere una foglia trascinata dal vento: rotola, viaggia sospesa. Il trillo è una rullata. In tempo di vendemmia, anche il calore sembra camminare. La mano non sapeva farlo, non sapeva riprodurre quella rullata, perciò l’ho fatto con il pollice. Si fa così: a salire verso l’alto. È come il passo della gallina, che quando cammina alza la testa in alto, poi la zampetta, e fa quel rumore. Molti provano a rifarlo bagnando il dito con le labbra, che così si attacca meglio. Ma lo fanno tanto per dimostrare che anche loro lo sanno fare, lo fanno senza affetto. Come si suol dire, è più difficile e impegnativo far bene un piatto di pasta che un secondo.
Leggevo che lei ha oltre settanta tamburi, tutti fabbricati da sé e meravigliosamente intarsiati con immagini di divinità agresti, segni antichi che racchiudono una saggezza eterna. “Io sono il tamburo”, diceva. C’è un tamburo a cui lei è più affezionato e perché?
Sì, il primo. Ce l’ho in soffitta, in custodia. Ogni tanto sembra chiedermi: “Ma perché mi hai abbandonato?” Io lo chiamo “barulè”. Al femminile “baronessa”, cioè la moglie del barone. È uno dei primi tamburi che feci, ricamato. Avevo dodici, tredici anni. I ricami sono molto campagnoli, c’è sempre l’anima barocca, l’intarsiamento dall’anima di chiesa, di religione. Con mio zio ricamavamo le collane di legno che poi si mettevano agli animali, alle pecore, alle loro campane. Settanta tamburi sono pochi, penso di averne settanta solo io a casa, ma li ho anche regalati. Li regalavo anche a persone che nulla c’entravano con la mia vita. Un domani, uno strumento vale più di qualsiasi altro regalo perché non è solo un tamburo; la notte ha la sua luce, ha la sua armonia, e si può portare sulla spalla. Anche le campane delle pecore suonano. In primavera, il pastore incampanava le pecore. Mille pecore con circa trecentocinquanta campane addosso: questa è armonia, è un dialogo. Questa è la magia dell’arcaico che diventa moderno: un suono che diventa musica.
Giuseppe Attardi la descrive così: “Alfio Antico non è soltanto l'ultimo aedo di una cultura popolare. Alfio Antico è la cultura popolare. È la "radica" di una cultura ancestrale, le cui origini si perdono nel tempo.” Cosa ne pensa? È convinto anche lei che le origini della cultura ancestrale si perdano con il tempo? Oppure sono destinate ad essere eterne?
Per far sì che siano eterne, bisogna prima riconoscerle. Il novanta percento si perde, perché spesso ci si vergogna di parlare di certe cose. “Bisogna andare avanti”, si dice. Me ne accorgo quando vado al mio paese e nessuno sembra riconoscermi, soprattutto le persone di una certa età. C’è l’ignoranza, e ci sono gli ignoranti. Non c’è rispetto per la tradizione, mi dicono: “Devi andare nel modernismo”. Se mia moglie fa le castagnole, un dolce tipico tradizionale fatto di farina, anice, buccia d’arancia fritta, sicuramente non lo fa come sua madre, ma almeno ci prova. E più ci prova, più sarà buono. Questo è il rispetto della cultura, che ci insegna a crescere e a dialogare. L’altro giorno ho letto una frase che dice: “Il Sud porta il sale, e cioè il sapore, la sapidità, la dolcezza”. È vero, il Sud porta il sale a tutto il mondo. La creatività, la dolcezza, il sapore. Dipende tutto da noi.
La cultura popolare ha, oppure no, ancora un suo spazio in un mondo che sembra girare sempre più all’insegna dell’uniformizzazione, del livellamento indotto dalla globalizzazione? C’è ancora spazio per una soggettività, per dei costumi e delle tradizioni singolari? In altre parole: è ancora corretto oggi parlare di “musica popolare” quando, di popolare, non sembra esserci più niente?
Esatto. Spesso chiedo: “Per popolare cosa si intende?” Ciò che faccio è popolare perché io parlo il dialetto, la mia lingua siciliana? Non credo. I dialetti sono infiniti, anche nella lingua africana troviamo i dialetti. Il popolare oggi si confonde, non è più il classico, il tradizionale. Anche la musica lirica lo è. Che cosa è popolare? Ci sono migliaia di gruppi di musica pugliese o siciliana che però, gira e rigira, fanno tutti le stesse cose. Non c’è una vera e propria regola per la cultura popolare. Io sono Alfio Antico, come Vinicio Capossela è Capossela. Fa il suo. Lui è oltre il popolare, è quasi un circo messo in scena. Il ballo di San Vito viene bene, in fondo, anche perché ci sono io. Non lo dico per vantarmi, è un fatto di armonia, di affinità. Forse la tradizione è contenta così. La tradizione nessuno ce la insegna, nemmeno a scuola. Io non l’ho mai studiata. Mi piace invece pensare che è lei ad essersi legata a me.