Silenziosi e incolpevoli guardiani del pianeta, veri e propri termometri dello stato della Terra, vittime dei comportamenti umani che trovano in essi conseguenze drammatiche, i due poli al Nord e al Sud dell’asse terrestre sono, in modo diverso per la loro natura fisica, testimoni del tempo, di quella entità che così definiamo. Ma mentre per noi il tempo si quantifica in ore, giorni, mesi, anni e già al cospetto dei secoli e dei millenni cominciamo ad avere qualche difficoltà di comprensione, le due calotte polari (una mare glaciale al Nord e l’altra continente ghiacciato a Sud) sono sentinelle delle ere, pietre miliari delle evoluzioni geologiche ed anche testimoni più recenti della civiltà umana, l’ultima manifestatasi sul pianeta ma con capacità di interferire e modificare quello che milioni di anni hanno prodotto. Sarebbe superbo ed incosciente ritenere che l’operare umano sia il solo attore dei cambiamenti, ma certamente quanto di esso contrasta con l’equilibrio venutosi a conformare dalla formazione del pianeta, incide pienamente soprattutto perché contribuisce, o rischia di farlo, ad innescare mutamenti anche devastanti nei quali la potenza degli elementi fisici potrebbe spazzare via ogni traccia del nostro passaggio o ridurlo al lumicino come nelle più tragiche visioni catastrofiche della letteratura e del cinema.
Capire che cosa siano i poli, quali realtà rappresentino per l’insieme del sistema Terra, cercare di comprendere la loro formazione e il loro assetto passato e quello attuale non sono esercizi peregrini o intellettuali di pura ricerca, ma altrettanti sforzi di comprendere e soprattutto sentire quello che le antichissime civiltà indicavano come il “respiro della terra”, quella sensazione del pianeta come di un corpo vivente da rispettare e curare e prima di tutto conoscere nella sua formazione e nella sua evoluzione per centinaia di milioni di anni, al cui cospetto noi, l’umanità intera, rappresentiamo l’equivalente di qualche centesimo di secondo.
Da decenni sono in corso ricerche portate avanti da scienziati di numerosi Paesi come anche crescente è l’interesse “strategico”, per non dire militare, di grandi e medie potenze per avere un ruolo in quello che con poco lungimirante sguardo, viene indicato come sfruttamento delle risorse che il disgelo porta alla luce. Per secoli e decenni, quelle terre desolate, silenziose ed affascinanti agli antipodi sono state considerate patrimonio di tutti, tutti tenuti al rispetto per un bene comune da non sottomettere ad interessi particolari, così come le scoperte e le conoscenze delle quali sono state oggetto. Il cambiamento in atto nei ghiacci una volta definiti eterni, va di pari passo con l’accrescersi di mire espansioniste, di conquista e possesso di porzioni sempre più ampie, in aperto contrasto con la funzione che essi poli rappresentano per gli equilibri della stessa vita sulla Terra. Minori calotte glaciali significano infatti aumento dei livelli delle acque dei mari con le inevitabili conseguenze per tutte le comunità rivierasche in giro per il globo, rischio di salinizzazione delle acque interne destinate alla sopravvivenza degli esseri viventi, modifica degli stessi equilibri del pianeta con conseguenze sull’asse terrestre anche in questo caso con il pericolo di sconvolgimenti e mutamenti irreversibili nello stato della Terra che conosciamo. Ecco perché capire, conoscere significa indicare i rischi, pensare le strade per contrastare le derive. Per il bene di tutti e per la sopravvivenza della nostra civiltà, se non oggi o domani, sicuramente tra quale decennio o secolo. Oggi l’umanità si trova come i personaggi del Titanic con la differenza che ha a disposizione tutti i mezzi per vedere l’iceberg e dunque per trovare i rimedi adeguati ad evitare la catastrofe.
Due recenti campagne di ricerca hanno permesso di approfondire le conoscenze sia sull’Artide sia sull’Antartide.
Nel primo caso sono stati ricostruiti 120mila anni di storia di ghiaccio marino, quello della calotta del Polo Nord, un gigantesco oceano ghiacciato. Nel secondo si è cercato di conoscere quello che riserva il plateau del Polo Sud, la zona immensa ed inesplorata che circonda idealmente il punto di intersezione dei meridiani. Studi ai quali hanno preso parte scienziati e ricercatori italiani del Cnr e di altre strutture nazionali, insieme a team internazionali.
Andiamo allora per così dire da Nord a Sud. Uno studio dell’Istituto di scienze polari del Cnr su una carota lunga 584 metri, estratta nel 2015 sulla costa Est della Groenlandia, indica che l’estensione media di ghiaccio marino artico presente negli ultimi 11mila anni è stata inferiore a qualsiasi altro periodo degli ultimi 120mila. Si tratta di risultati ottenuti grazie a un’analisi innovativa dei sali marini. Un lavoro che è pubblicato su Climate of the Past, pubblicazione dedicata ai mutamenti dell’intero sistema terrestre nel corso del tempo. La ricerca e la scoperta, come sottolineano gli studiosi del Cnr ci porta indietro nel tempo dalle fasi finali dell’era interglaciale precedente, l’Emiano, a tutta l’ultima era glaciale, fino all’attuale periodo interglaciale, l’Olocene. Lo studio è stato portato avanti nell’ambito di un progetto Erc europeo, “ice2ice”, a cui il Cnr ha partecipato sia nelle operazioni di carotaggio sia nelle fasi successive di misure chimiche e analisi dei dati.
I risultati mostrano in modo accurato, come abbiamo premesso che l’estensione media di ghiaccio marino presente durante gli ultimi 11mila anni dell’Olocene, è stata inferiore a qualsiasi altro periodo precedente degli ultimi 120mila. Il record mostra anche che il periodo di massima estensione e spessore del ghiaccio si verificò circa 20mila anni fa, durante l’ultimo massimo glaciale. Da allora circa 17,5 mila anni fa il ghiaccio ha iniziato a sciogliersi, “in concomitanza con molti altri cambiamenti climatici avvenuti durante la deglaciazione che portò allo stato interglaciale attuale”, spiega Niccolò Maffezzoli, ricercatore del Cnr-Isp e autore della ricerca.
“Il ghiaccio che si forma dal congelamento dell’acqua di mare in inverno è una variabile climatica fondamentale, profondamente coinvolta nei processi che legano l’atmosfera, gli oceani e la biosfera. È un parametro molto sensibile ai cambiamenti climatici: ne è prova la contrazione a cui stiamo assistendo nell’Oceano Artico negli ultimi decenni, a causa del riscaldamento antropico che influenza le temperature dell’aria soprattutto a queste latitudini”, sottolinea Maffezzoli. “Le osservazioni satellitari in Artico sono disponibili dagli scorsi anni ‘80 e i modelli climatici prevedono un Oceano Artico libero dai ghiacci in estate nel giro di qualche decennio” la non certo confortante ed inquietante conclusione.
Dal punto di vista paleoclimatico il ghiaccio marino è un parametro molto difficile da ricostruire indica lo studio: “Il bromo e il sodio, gli elementi contenuti nelle particelle di sale che vengono utilizzati come traccianti per la sua ricostruzione, realizzata attraverso carotaggi di ghiaccio, lasciano infatti una traccia chimica che è mascherata dalla sorgente principale di questi sali, il mare aperto. Le analisi chimiche eseguite con spettroscopia di massa hanno quantificato bromo, sodio e altri elementi intrappolati nella matrice di ghiaccio fino a livelli del ppt, ovvero di una parte per trilione”, prosegue il ricercatore.
“Il nostro studio usa un marcatore di utilizzo recente nello studio delle carote di ghiaccio, il rapporto bromo-sodio, sul quale vi sono ancora da chiarire alcuni aspetti: ma le prove a suo sostegno, non ultime il confronto con le ricostruzioni ricavate dalle carote di sedimenti dei fondali oceanici, inducono a proseguire la ricerca in questa direzione. Attendiamo con ansia di poter misurare la carota che verrà estratta dalla calotta antartica nel progetto Beyond-Epica, che si stima possa coprire l’ultimo milione e mezzo di storia climatica della Terra”. E trasferiamoci, allora, agli antipodi per conoscere gli studi condotti nel corso di una missione compiuta da una squadra composta da scienziati francesi del Cnrs e dell’Università Grenoble Alpes e da ricercatori italiani del Cnr e dell’Ingv indicata come East Antarctic International Ice Sheet Traverse (EAIIST).
Obiettivo del progetto la raccolta di dati che consentano la stima delle precipitazioni al centro del continente bianco, lungo un percorso mai battuto finora, e permettano agli scienziati la verifica dei risultati di alcuni modelli di circolazione atmosferica e una stima più attendibile del fenomeno dell’aumento del livello dei mari, attraverso lo studio degli archivi climatici raccolti. La traversata scientifica - organizzata dall’Istituto Polare Francese (Ipev) con la collaborazione del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (Pnra), finanziato dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca e coordinato dal Cnr per le attività scientifiche e da Enea per l’attuazione operativa della spedizione - è partita dalla stazione Concordia il 7 dicembre 2019 in direzione Polo Sud ed è rientrata nella stessa base il 17 gennaio 2020.
Il team, composto da 10 persone, 2 italiani e 8 francesi, ha compiuto una traversata di 800 km sul plateau antartico fino a raggiungere l'area delle “megadune” antartiche. Si tratta di strutture uniche sulla Terra: superfici dall’apparenza vetrosa dove il ghiaccio è liscio e scoperto con ondulazioni su larga scala, invisibili a occhio nudo, ma rilevabili da satellite. Durante il viaggio - riporta il comunicato conclusivo del Cnr - il personale è stato impegnato in numerose attività: sono stati raccolti campioni di neve, sia superficiali che profondi, che consentiranno di migliorare le conoscenze sui fenomeni di circolazione atmosferica e di trasporto all'interno del continente, nonché di verificare l’arrivo di contaminanti di origine antropica. Sono state inoltre installate sei nuove stazioni sismiche equipaggiate con sensori a larga banda e cinque nuove stazioni Gps che permetteranno uno studio degli eventi sismici e delle micro-deformazioni connessi alle dinamiche glaciali. Sono stati poi realizzati rilievi fotogrammetrici superficiali del plateau e georadar per un totale di circa 1200 km, per lo studio dell’accumulo nevoso e la stratificazione nelle diverse aree attraversate. La storia climatica dei siti attraversati sarà ora ricostruita attraverso lo studio e l’analisi dei quasi 1000 metri di carote di ghiaccio raccolte.
Numerose le competenze presenti sul campo: dalla fisica della neve, alla geofisica, geochimica, chimica dell’atmosfera e meteorologia. Le misure al suolo saranno poi correlate con i dati da satellite e completate da studi di laboratorio. Tra gli obiettivi delineare in tema di cambiamenti climatici, i contorni di una delle incognite maggiori: l’impatto del riscaldamento globale in Antartide. Una fusione accelerata della calotta polare è già stata rilevata dalla comunità scientifica, soprattutto nelle zone costiere, ma secondo alcuni modelli di circolazione atmosferica, il riscaldamento potrebbe essere accompagnato anche da precipitazioni più intense sul continente bianco.
Un’ipotesi, questa, che se fosse vera e verificabile, avrebbe come conseguenza possibile che la perdita di massa della calotta glaciale potrebbe essere in parte controbilanciata dall’aumento di precipitazioni nevose. Ed ancora sarebbe possibile controllare il fenomeno dell’aumento del livello dei mari stimandone la consistenza in modo più accurato. I dati raccolti dal progetto EAIIST serviranno agli scienziati francesi, italiani e australiani per verificare l’attendibilità di questa ipotesi, controllando anche se sia realmente aumentato l’accumulo di neve sul plateau antartico. Direttore del progetto è Joël Savarino, ricercatore francese del Cnrs, l’Institut des Géosciences de l’Environnement (Cnrs/Université Grenoble-Alpes/Ird/Grenoble Inp); per l’Italia il responsabile del progetto è la professoressa Barbara Stenni dell’Università Ca’ Foscari Venezia. Alla traversata hanno partecipato anche Andrea Spolaor (Cnr-Isp) e Graziano Larocca (Ingv). Per lo studio dei dati raccolti e per le ulteriori sperimentazioni e ricerche, si aggiungeranno altri 40 ricercatori provenienti da una quindicina di laboratori italiani, francesi e australiani.
Le conoscenze si fanno di ricerca in ricerca più approfondite, la capacità di leggere i dati diviene patrimonio dell’intera comunità scientifica, le previsioni possono essere più accurate nel caso dei rischi emergenti e allo stesso tempo fonte di azioni e comportamenti preventivi a beneficio dell’intera umanità. Occorre però che l’umanità e coloro che ne guidano i destini abbiano consapevolezza crescente dei rischi e delle minacce incombenti, non per indurre il panico e l’irragionevolezza, ma per provare con coerenza a dare risposte in senso contrario, di contenimento, di prudente contrasto ad una deriva che potrebbe divenire senza ritorno. Il pianeta è uno solo ed in esso l’umanità è ospitata. Come ospiti dobbiamo conoscere bene e rispettare la casa comune!