Nella parete di fronte, il qui che vedo ora, sono cubi blu sopra un armadietto verde pallido che porta nelle due ante, etichette con i numeri 29 e 30. Non sto nel letto n. 30, io sono il letto n. 30. Nella stessa parete un piccolo tavolino, sempre verde pallido, con televisore. Appesi, ritratti di Santi e della Madonna. Un crocefisso. Alcuni citofoni.
Alla mia destra un'ampia finestra mi fa intravedere le metamorfosi del cielo. Non so ancora che per 40 giorni, se tutto procede bene, non vedrò più quel che accade fuori.
Il tempo del "letto n. 30", come in tutti gli altri letti, è scandito dal dolore, dalle pillole, dalle analisi, dai prelievi. E dalle visite.
Vicino a me c'è Carmela. Si difende. Vive aggrappata alla televisione e al campanello. Si lamenta di infermiere e infermieri, poi quando arrivano, li copre di complimenti che rasentano l'adulazione. Tra un lamento e l'altro vuol sapere perché sono lì e mi chiede in continuazione come mi chiamo. Alterna momenti di furbizia non comune a momenti di smarrimento totale. Non capisco, forse recita a tempo pieno. Quando arrivano i miei parenti interviene nei nostri discorsi e si lamenta che nessuno la viene a trovare. Naturalmente non è vero. Ha capito subito che mia figlia Marcella può sostituire, nelle sue richieste di aiuto, le infermiere. Finalmente quando scende la sera si addormenta, però il suo respiro è pesante - russa. Tanto io non dormo. Le notti qui dentro sono molto più lunghe che fuori. Dalla porta aperta vedo la luce del corridoio. Sento lamenti rivolti al nulla, ma nella camera vicina persone giovani parlano e ridono. Alle due, nel corridoio, una signora inizia una conversazione al cellulare. Il tono della sua voce è alto, ma contemporaneamente è intimo, seducente. Non c'è dubbio, la sua è una conversazione amorosa. Dopo un'ora, alle tre, però mi sembra tutto eccessivo. Chiamo l'infermiera e chiedo se può dire alla voce misteriosa di abbassare il tono. E lei mi dice che non è possibile; la signora è giù di testa, dall'altra parte del cellulare non c'è nessuno. Cado nel vortice del dolore. Del mio, della signora giù di testa, della "ragazza di Kobane" e del suo popolo tutto intero -perché questa gente ha tentato di impiantare la democrazia più avanzata del mondo, trasgredendo così a tutte le leggi dei potenti della terra, nel luogo più impervio per qualsiasi sogno di pace? Ecco che il dolore si dilata, tenta d'inglobare tutta la sofferenza umana, si deposita nel mio corpo e raggiunge le periferie più estreme.
Sono a Cesena. Ho un bellissimo soprabito trasparente tutto ricamato. Attorno a me ci sono bambini che mi scappano di mano e così non riesco mai a infilarmi del tutto questo capo regale. Nel pomeriggio inoltrato mi trovo a passeggiare con mia sorella Viri nelle vie del centro. Ho fame e ricordo un negozio che aveva panini ripieni, squisiti. Viri mi dice che ha comperato 2 chili di libri e mezzo chilo di verdure - creatura d'ombra sta dentro, lei sta dentro il libro. Infatti preferisce ritornare a casa velocemente, passando per una viuzza buia. Invece io sono attratta dalle vie con le luci. Ci separiamo. Entro in chiesa, dove un coro di ragazze fa le prove. Alcune di loro sono mie ex allieve. Continuo ad avere problemi con l'abbigliamento: le calze auto reggenti non fanno il loro dovere e scendono alle caviglie. Ho una borsa molto grande e l'appoggio in un banco. Tento di tirarmi su le calze ma ho paura di dare scandalo e non riesco ancora ad infilarmi il copricapo. Mi giro per riprendere la borsa; non c'è più. Penso a tutto quello che c'era dentro. Un signore mi consiglia di uscire per vedere se i ladri, dopo aver preso i soldi, l'hanno lasciata fuori. Esco. In realtà è l'uscita della biblioteca Malatestiana. Il giardinetto è pieno di bambini. Seduto sul muretto c'è mio fratello. Mi fa vedere una fotografia dove lui, bambino, sorride a un amico. Mi dice: " Stavo spiegandogli matematica e non capiva. Allora ho detto che andavo di sopra a vedere cosa facevi. Vedi, è sempre stato così".
L'incidente
Nel gioco con il tempo l'incidente rappresenta sempre una nostra sconfitta per una imperdonabile disattenzione o, per chi ci crede, per quella cosa molto complessa, che chiamiamo destino: un attimo prima o un attimo dopo. No, proprio ora.
Io ho sbagliato orario: mi sono imbattuta in un folto gruppo di studenti all'uscita dalla scuola.
Teste basse, biciclette super veloci zigzaganti, auricolari, cellulari, risate, accoppiate di amici finalmente liberi dopo una mattinata di noia imposta, di segregazione scolastica. È l'ultima cosa che ho visto. Poi la mia amata bicicletta - compagna di viaggio in pedalate lente ma inesorabili - si è bloccata all'improvviso come colpita da una folgore. Ho fatto un volo, con giravolta e sono piombata sull'asfalto. Dal 20 novembre sono immobilizzata a letto con frattura del femore e incrinatura di due vertebre. E la mia vita è cambiata da così a così.