Il teatro è semplice: ti siedi nell’oscurità e ascolti la luce.
(Christian Bobin)
Sotto il cielo africano dalla bellezza che notoriamente crea dipendenza e incide sul destino, il piccolo Guido Levi, italiano di Léopoldville dove nacque nel 1952, aveva un bambinaio congolese di nome Ambroise. Il fanciullo andava a scuola in bicicletta e sul manubrio viaggiava appollaiata la scimmietta Daisy, Ambroise pedalava poco dietro e per Guido era quasi un secondo padre: il primo era un ingegnere che lavorava tantissimo in una fabbrica italiana con sede anche in Congo e aveva fondato un istituto per i ragazzi del villaggio. Un ingegnere che ebbe parte persino nella storia della Nutella.
Guido raccontava che Ambroise, con il quale parlava in francese, gli insegnò come si fa a difendersi dalla natura senza ucciderla: una volta, sulla strada della scuola, la scimmietta cominciò a strillare come un’ossessa, berciava, faceva proprio la bertuccia. Ambroise vide la ragione dell’impazzimento e gridò “Fermati!” perché sul loro cammino c’era un serpente, poi afferrò un sasso, prese il serpente per la coda e appena quello si girò spalancando le fauci, gli ficcò la pietra in bocca, infine lo fece roteare lanciandolo lontano. Vivo, ma fuori dai piedi.
Ambroise e Guido andavano sul fiume Congo passando sopra i coccodrilli che se dormono sono innocui, tipo passerella. Certo va capito se dormono davvero e Ambroise, a differenza di molti di noi, lo capiva.
Il ricordo incancellabile dei colori e della luce.
Guido Levi ha sempre detto che questo lavoro l’ha fatto solo e soltanto grazie all’Africa. Il lavoro è quello del lighting designer, ma la definizione gli pareva brutta e si è sempre proclamato Lucifero.
Ha sconfitto le tenebre nei teatri più importanti del mondo, Guido “Lucifero” Levi, illuminando sia le opere liriche che la prosa. Direttori d’orchestra e registi non plus ultra accarezzati dai lampi benefici di quello speciale portatore di luce con i baffoni che, però, amava cominciare dal buio, custode di ogni raggio. Raggiungeva la console o il palcoscenico e, un po’ per scherzo, un po’ sul serio, annunciava: “Facciamo buio”. Perché è dall’oscurità che sorge la luce e perché si prendeva gioco degli altri: “Ma quand’è che facciamo buio in questo spettacolo?”.
Ha sempre vissuto in leggerezza, sdrammatizzava. Si arrabbiava, ciononostante. Fu Claudio Abbado che gli porse una delle grandi felicità della vita professionale chiedendogli la “luce del buio”. Don Giovanni, Ferrara. A un certo punto dell’opera Abbado desiderava il buio in scena, il mistero. Ci sarebbe stato il riflesso della luce dell’orchestra, gli fecero notare. Ma Abbado in cerca di assoluto rispose che allora l’orchestra avrebbe suonato al buio.
Al direttore si deve anche l’unica uscita di Guido per ricevere gli applausi dopo la prima. Di solito non usciva: sosteneva che se usciva lui sarebbe dovuta uscire tutta la squadra dei tecnici. C’entrava anche la timidezza, inoltre rimanere appartato era diventato un vezzo. Alla prima stava in teatro, ma non in sala. Mai guardato lo spettacolo: si pascolava nel foyer, o al bar perché voleva che il lavoro diventasse proprietà del gruppo. Fatti loro. Ogni tanto si affacciava. Era lì, nervosamente.
Il Flauto Magico, Edimburgo. Abbado lo chiamò durante gli applausi, poi lo andò a prendere dietro le quinte perché lui non voleva salire. Inciampò pure, Lucifero impacciato.
L’unica cosa che io ho da dire è che per fare le luci in teatro serve andare a recuperare i ritmi della natura e la luce dentro la natura. Finché non si fa questo non si capisce che cosa vuol dire fare la luce.
Lucifero arrivava presto, se la convocazione era alle 9, alle 8 era già davanti alla portineria, certe volte apriva con il custode del teatro. Ad alcuni sembrava un eccesso di zelo, per altri un atteggiamento da capo. In realtà per lui era fondamentale entrare nell’oscurità e nel silenzio totale perché si caricava in attesa dei tecnici. Come tutti gli intelligenti aveva dubbi. Le fasi si succedevano: eccitazione, interesse, “Oddio, bisogna fare il miracolo”. Lotte furibonde con la direzione artistica e tecnica per avere più ore affinché i tecnici, che chiamava operai per sottolineare i loro diritti, potessero fare i turni. Uno dei dispiaceri degli ultimi anni è che oggi ogni produzione ha poco tempo e tutto dev’essere accelerato.
Lucifero era cresciuto in Africa, non è mai diventato un europeo davvero e il senso del tempo, il lasciar andare, erano africani: un tramonto ci mette il suo tempo, mica lo puoi sveltire.
Si presentava “nudo” di fronte a un nuovo incarico, senza studiare libretti d’opera, musica, commedie e tragedie. Il suo principio era: io non devo avere preconcetti, devo essere puro. Era così anche nella vita, si alzava la mattina ed era come se fosse il primo giorno. Dichiarava 17 anni: “Non voglio diventare maggiorenne”. Si metteva a vedere le prove, ascoltava la musica, andava a toccare i tessuti, gli oggetti per sapere il tipo di rifrazione. Poi, facendosi una sigaretta, guardava su in alto per capire dove doveva mettere le “americane”, posizionare questo e quello. Dopo aver solo osservato e ascoltato. Quello che ha fatto nella vita, sempre. Qualcuno lo ha visto dare uno sguardo al libretto, raramente. Ai suoi inizi, forse, ma dopo che hai fatto otto volte Cavalleria, sei volte Carmen, sei volte Flauto magico che leggi?
Si imponeva di ascoltare l’opera negli anni ultimi, costretto dalle abitudini mutate dei teatri a fare le piante delle luci a casa. Anche quando affrontò Capriccio lesse il libretto. Capriccio a Cagliari, una messa in scena di Luca Ronconi bellissima, pulita, tutta di specchi. Quando gli mettevano gli specchi si lamentava: “Che dramma!”. Specchi e proiezioni insieme, dal punto di vista dell’illuminador è una follia, ma lui li ha “trattati” in diverse occasioni e spesso c’erano dei diverbi con quelli che facevano i video. Video ormai dominanti. Non che gli dispiacessero, dipendeva dalla qualità. Guido diceva che il teatro dovrebbe rimanere uno spazio per il senso dell’umano. Però anche che il teatro riflette la realtà, la società e dunque…
Per Ronconi illuminò il Farnese di Parma, protetto da tutti, Unesco inclusa: le luci dovevano essere “volanti”, nessun appiglio concesso. Per Ronconi era stato a Torino in occasione delle Olimpiadi, quattro o cinque spettacoli in contemporanea, le “Ronconiadi”. Chi ascoltò nei decenni i dialoghi fra il Maestro, che lo aveva voluto anche nella sua scuola di Santa Cristina in Umbria, e Lucifero li ricorda più o meno così: “Uhm”, “Ehm”, “Allora”, “Vabbè”, “Dai, è andata”, “Sì, sì”, “Boh”, “Dai, sì”, “Ci vediamo”.
Innumerevoli le avventure di Guido Levi e le collaborazioni prestigiose, ma lasciamo che saltino fuori negli anni a venire, per farci compagnia.
Da ricordare subito il suo impegno al Cantiere d’arte di Montepulciano e l’innovativo Experimentum Mundi composto da Giorgio Battistelli nel quale ogni lavoratore suona il proprio strumento di lavoro.
Nel suo peregrinare professionale sono notevoli gli esperimenti: di recente, in uno spazio d’accoglienza sociale nell’ex quartiere operaio di Napoli, San Giovanni a Teduccio, sottratto alla camorra, ha dato la possibilità a una serie di ragazzi di scoprire i propri talenti artistici. Una lampada di sua invenzione, la “guida di luce” diffonde la luce sui quadri in modo uniforme e nel rispetto della conservazione del dipinto, del resto Lucifero ha creato l’illuminazione di Caravaggio nella cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo a Roma.
All’occorrenza trovava soluzioni lì per lì ed era sconfortato che nel teatro l’artigianalità fosse andata perduta. La sua regola era: io faccio il progetto delle luci, lo applico, si realizza lo spettacolo, sto fino alla prima. Dalla prima in poi, quelli che hanno lavorato con me devono essere in grado di riprodurre esattamente quello che abbiamo fatto. Semplice? No, perché è vero che ti affidi a una macchina, ma sul palcoscenico non ci sono macchine. Se una sera per caso sbagliano un’entrata o se si spostano di qualche centimetro, la macchina non lo sa. Un’uscita per gli applausi ritardata? La macchina non lo sa. Ci vuole la mano sul cursore. Le entrate e le uscite si fanno a mano. E si ascolta la musica. Chi ha lavorato con lui ha capito le ragioni di questa scelta e si è trovato bene. Certo è meno facile, devi avere un livello di concentrazione alto. Devi essere nello spettacolo.
La luce è la fonte della vita, è la nostra energia e se si spegne la luce sparisce tutto: sentimenti, emozioni, ombre.
Guido voleva stare all’aria aperta. Per le pareti di casa chiedeva l’impossibile: le sfumature del cielo, in certi momenti. Nel 2011 tenne un Workshop di illuminotecnica teatrale al Parco la Mandria di Druento, Torino, seduto sul prato.
È vissuto fuori, è cresciuto fuori. I romantici che l’hanno amato smettono di piangere solo se pensano che non sia morto, ma si sia ritirato fra gli elefanti.