Non sono molte le rassegne che possono vantare il fascinoso appeal che ha sempre avuto il Montreux Jazz Festival nei confronti di cultori, musicisti e addetti ai lavori. Nell'incantevole cornice del lago di Lemano, a pochi chilometri da Ginevra, il festival venne battezzato nel 1967 presso il locale Casinò, con un parterre di ospiti che comprendeva Bill Evans, Weather Report, Soft Machine, Keith Jarrett ed Ella Fitzgerald fra molti altri. È bene ricordare che quel luogo fu distrutto da un incendio durante un concerto di Frank Zappa e che quella drammatica circostanza venne fissata dai Deep Purple nell'epocale Smoke on the water. Ricostruito nel 1975, il Montreux Jazz Festival si è poi espanso negli anni sotto la guida del suo deus ex machina Claude Nobs, che aveva una predilezione per il genere afro-americano come per il Brasile, ospitando centinaia di esibizioni memorabili con delle vere e proprie icone come Miles Davis, Elis Regina, Chuck Berry, Oscar Peterson, Charles Mingus e diventando nel tempo un festival di musica globale capace di richiamare folle di spettatori anche grazie al ruolo di testimonial e co-produttore esercitato dal leggendario produttore Quincy Jones, che ancora oggi mantiene un ruolo attivo nell'organizzazione.
Dopo la prematura scomparsa di Nobs nel 2013, le redini sono passate saldamente a Mathieu Jaton, un giovane ed appassionato che si è formato con slancio e dedizione proprio accanto a Nobs. Quella che si è chiusa a luglio è stata l'edizione numero 53 di una manifestazione che continua a crescere, (circa 250.000 spettatori per circa 400 concerti in 2 settimane su 9 palchi con un miglioramento costante anche nella sezione gratuita), mantenendo i conti in ordine in un programma trasversale che del jazz incarna lo spirito di condivisione e la libertà.
"Una musica ancora viva e palpitante, uno stato della mente, con un futuro più che mai brillante - ribadisce lui in questa intervista esclusiva - mentre per la prossima edizione che si terrà dal 3 al 18 luglio del 2020 sono stati già annunciati i nomi delle superstar americane Lionel Richie e Lenny Kravitz.
Qual è la visione della tua direzione artistica oggi? Secondo quali criteri si muove?
Intanto parliamo di arte, quindi non si potrà mai ragionare al pari di una scienza esatta. Sono diversi i fattori da prendere in considerazione: i gusti del pubblico come la nostra lunga storia ed altri fattori legati alla logistica ed all'andamento del mercato globale. Per cui i criteri sono diversi ma il mio compito è sempre quello di preservare lo spirito e il DNA del festival con un programma che deve essere audace e possibilmente esclusivo. Quest'anno abbiamo presentato alcuni spettacoli cui tenevo in maniera particolare come Janet Jackson, Anita Baker, Bon Iver, Thom Yorke, ed altri amici del festival come Chick Corea, Ivan Lins, Terence Blanchard, per finire con la grande passerella commissionata a Quincy Jones. Qui a Montreux c'è una vicinanza ed un tipo di predisposizione per il pubblico da parte degli artisti coinvolti che è difficile trovare altrove: anche quest'anno abbiamo assistito a delle jam after-show straordinarie. Siamo molto affezionati a quegli artisti capaci di ricreare quella bolla di libertà creativa dopo il loro concerto ufficiale, che si è realizzata quasi tutte le sere. Ma è stata un’edizione storica da diversi punti di vista, a partire dal nostro primo concerto open air che ha coinciso con il tour di addio di Elton John.
Mi ha molto incuriosito anche lo spazio che avete concesso a Mahmood: dal punto di vista curriculare la sua partecipazione al festival varrà molto di più della sua vittoria a San Remo, fra l'altro lui non aveva neanche previsto di andare in tour...
Lo abbiamo voluto fermamente ed ha realizzato anche un concerto travolgente, che è stato apprezzato da tutti. Felici di questo suo debutto internazionale che si inserisce appieno nel mio ruolo, che paragonerei quasi a quello di un moderno direttore d'orchestra, che deve essere capace di assecondare il suo intuito calandosi nel presente e nel futuro della musica, con i suoi nuovi protagonisti e linguaggi. Lo stesso Claude amava dire: “È un po’ come aggiungere sale e pepe quanto basta per essere certi di realizzare una situazione all'altezza del Montreux Jazz Festival e della sua autenticità”.
Come ti sei formato e cosa hai imparato da Claude? Immagino quanto possa essere stato straordinario per un giovane amante del jazz stare accanto a lui...
Ho studiato in una scuola alberghiera, viste le caratteristiche del nostro territorio a vocazione turistica, poi ho iniziato al festival aiutando per gli eventi da semplice volontario. Dopo ho avuto un incarico nel settore marketing. Claude mi ha insegnato che il tempo è la nostra ricchezza più consistente, che niente è impossibile e che conoscere l'arte dell'accoglienza rappresenta la qualità essenziale per lavorare su grandi progetti.
Il Jazz, invece, come è entrato nella tua vita? Hai avuto un interesse spontaneo, hai assistito ad un concerto o ascoltato un disco che ti ha cambiato la vita?
Ho iniziato ad ascoltare jazz con John Hiseman ed i Colosseum, ma anche John McLaughlin e la fantastica Mahavisnu Orchestra. in realtà sono stato più incline alla fusion, perché in gioventù cantavo e suonavo la chitarra in una rock band.
Hai avuto il privilegio di assistere a tanti momenti di gloria a Montreux, quali ricordi con maggiore piacere e cosa ritieni sia stato veramente memorabile ed unico?
Sono state tante le occasioni memorabili con Prince, Santana, Van Morrison, George Clinton con champagne fino alle 5 di mattina, i Muse che hanno accettato di suonare in una sala da "soli" 4mila posti, rispetto agli stadi che riempiono sempre, ma forse il flash che ho più in mente è stata l'esecuzione integrale di Low, venticinque anni dopo la sua registrazione a Berlino da parte di David Bowie, nella seconda parte del suo concerto qui a Montreux del 2002. Un’emozione pressoché unica, e non solo perché è stata l'ultima volta delle pochissime in cui venne eseguito l'integrale in quel tour a seguito dell'uscita di Heathen, un disco quasi all'opposto di quello concepito insieme al geniale produttore Brian Eno. Il filmato è presente nei nostri archivi in alta qualità sia audio che video, ma ancora non è prevista una sua uscita ufficiale.
E di quella volta di Quincy con Miles Davis sul palco a riprendere gli arrangiamenti di Gil Evans invece cosa ricordi?
Purtroppo niente perché io ho iniziato a collaborare al festival solo nel 1994, mentre quel concerto si tenne nel 1991, pochi mesi prima della sua morte. Il disco poi venne pubblicato due anni dopo ed ebbe ovviamente un successo straordinario. Quincy è un formidabile ambasciatore per il nostro festival, che ha anche coprodotto per tre anni proprio a partire da quella edizione in cui Miles si ritrovò sul palco con lui: mantiene un grande spirito, ha sempre un sacco di storie da raccontare ed ama stare fra la gente ed ovviamente la musica continua ad essere la sua vita.
Qual è stato invece l'artista che è sempre sfuggito al MJF, ovvero che volevate invitare e poi non è venuto oppure quello che adesso tu sogni di portare?
Sicuramente Tom Waits, ma purtroppo lui non partecipa ad alcun tipo di festival, ma sogno anche una performance di solo piano e voce da parte di Paul McCartney...