La colpa è mia, piangeva, ed era vero, non si poteva negare, ma è pur certo, se può servirle da consolazione, che se prima di ogni nostro atto ci mettessimo a prevederne tutte le conseguenze, a considerarle seriamente, anzitutto quelle immediate, poi le probabili, poi le possibili, poi le immaginabili, non arriveremmo neanche a muoverci dal punto in cui ci avrebbe fatto fermare il primo pensiero. I buoni e i cattivi risultati delle nostre parole e delle nostre azioni si vanno distribuendo, presumibilmente in modo alquanto uniforme ed equilibrato, in tutti i giorni del futuro, compresi quelli, infiniti, in cui non saremo più qui per poterlo confermare, per congratularci o chiedere perdono. D’altro canto, c’è chi dice sia questa l’immortalità di cui tanto si parla.
(José Saramago, Cecità)
Quante volte la nostra azione è solo una reazione a quanto ci è appena accaduto? Abbiamo così la scusante che non è colpa nostra ciò che abbiamo fatto, ma è stato l’altro, che ha agito prima di noi, a costringerci a farlo; noi, di nostra iniziativa, non l’avremmo mai fatto.
Peccato che la nostra azione si inserisca, sempre e comunque, in una catena di azioni e reazioni, in cui non possiamo ritenere di essere soli. Non siamo stati i primi ad aver cominciato a far girare la giostra, e non possiamo illuderci di riuscire mai a essere gli ultimi per fermarla.
Watzlawick, nel suo famoso libro Pragmatica della comunicazione umana, scritto con altri collaboratori del Mental Research Institute di Palo Alto, illustra molto bene il principio - definito nel testo come “il terzo assioma della comunicazione umana” - secondo cui la comunicazione tra le persone è regolata da forme di ‘punteggiatura’ utilizzate per l’interpretazione della stessa: ogni interlocutore è come se inserisse, nel dare significato a ciò che accade, dei punti di interruzione nel flusso della comunicazione, definendo così autonomamente l’inizio e la fine di un atto comunicativo. Questa punteggiatura della comunicazione è diversa per ogni interlocutore coinvolto, di modo che ciascuno ritiene che la propria comunicazione sia la naturale conseguenza di quanto fatto o detto dall’altro, creando delle sequenze di eventi comunicativi che definiscono come ciascuno interpreta la relazione con l’altro ed il proprio ruolo sociale. Un classico esempio di punteggiatura tra due vecchi coniugi: lei afferma: “Quando siamo in casa lui brontola sempre, e così io sto zitta e me ne vado in un’altra stanza”; mentre lui afferma: “Quando siamo in casa lei sta sempre zitta e se ne va in un’altra stanza, e così io brontolo”.
Noi agiamo di conseguenza alle azioni di altri, e questo ci consente di non sentirci colpevoli o responsabili di ciò che accade: non dipende da noi. Questo, tuttavia, è l’atteggiamento di entrambi gli interlocutori e l’analisi di quanto accaduto non può che portare a fraintendimenti e conseguenti conflitti. E questo vale non solo per ciò che diciamo, ma anche, e soprattutto, per ciò che facciamo. Del resto, la comunicazione comprende la parola e il silenzio, l’azione e la sua omissione. Tutto questo è comunicazione, ed è un circuito continuo, un anello di azioni e reazioni senza fine, dove è impossibile trovare un punto di inizio e poter rispondere alla domanda: “Chi ha cominciato?”
Analogamente, è inutile chiederci: “Perché l’ho fatto?”. Potremmo trovare motivazioni all’infinito, creando catene causali che a ritroso ci portano lontano nel tempo e nello spazio, per perderci definitivamente nella storia che ci raccontiamo senza che questo possa essere di alcun aiuto per la comprensione di quanto sta accadendo qui, ora. È molto meglio chiedersi: “Quali sono gli effetti dei miei atti?” e “Qual è lo scopo del mio agire?”, per cominciare a valutare sia l’impatto delle nostre azioni sia la loro coerenza con quanto desiderato.
Quando si agisce, l’azione entra nel circuito delle interazioni e delle retroazioni presenti nel contesto in cui si va a innestare, e chi l’ha compiuta ne perde il controllo. L’azione potrebbe essere deviata rispetto alle intenzioni iniziali di chi l’ha compiuta, essere pervertita rispetto al suo senso iniziale, ritorcersi persino contro il suo stesso autore.
È quello che Edgar Morin, filosofo della complessità, chiama “il principio caratteristico dell’ecologia dell’azione”: ogni azione sfugge alla volontà del suo autore entrando nel gioco delle inter-retro-azioni dell’ambiente in cui essa interviene.
La realtà è molto più complessa di quanto ci piaccia credere: mentre noi pensiamo al futuro interrogandoci su cosa accadrà, stiamo dando per scontato il presente. Ed è il presente che invece è opaco ai nostri occhi. Il possibile che è nascosto nella realtà presente rende incerti gli effetti del nostro agire già fin d’ora, e noi non siamo abituati a fermarci per sollevare il velo che ci nasconde il possibile ed esplorarlo. Dovremmo cominciare a farci delle domande ‘non banali’, a cui non siamo ancora in grado di dare una risposta. Ci illudiamo che ciò che sappiamo sia sufficiente per comprendere la realtà, spesso riducendo il contesto in cui andiamo a situarci al poco che già conosciamo.
Di fronte a questa nuova consapevolezza possiamo ritrarci spaventati, oppure accettare il fatto che non possiamo ritenerci colpevoli di tutto ciò che accade nella concatenazione degli effetti delle nostre azioni. Ha poco senso, infatti, chiederci di chi sia la colpa di ciò che avviene: le migliori intenzioni possono generare disastri, e le peggiori intenzioni salvare infine la vita di qualcuno.
Sarebbe molto più sensato muoverci con delicatezza e attenzione, camminare con passi lievi, continuando a chiederci: “Qual è l’impatto del mio agire” e “Qual è lo scopo del mio agire” e adattando il proprio comportamento in funzione di ciò che accade, considerando anche la propensione della situazione, come direbbe Jullien.
Interrogarci su quali possano essere gli effetti delle nostre azioni e chiederci su cosa si vanno a innestare, sforzandoci di immaginare anche ciò che non vediamo, il presente possibile ma incerto nella sua realizzazione, amplia lo spazio delle nostre possibilità. Non potremo più dirci: “Era inevitabile, non avevo altra scelta”.
È un presente potenziale, che ci attende come artefici del suo compimento. E se si compirà, forse potremo evitare di dire che è stato il destino a decidere per noi, che non poteva essere che così, non essendo stati in grado di immaginare in quale rete di eventi ci siamo inseriti a nostra insaputa e quante scelte abbiamo compiuto senza comprenderne la portata.
In fondo, questo è il futuro: le azioni che abbiamo compiuto od omesso di compiere, le parole che abbiamo detto od omesso di dire, ed il modo in cui si sono intrecciate con le azioni e le omissioni di altri, con le parole e i silenzi di altri. E come tutto questo abbia generato degli effetti che si diluiscono nel tempo e nello spazio, disperdendoci e congiuntamente rendendoci immortali nelle innumerevoli combinazioni che eternamente si manifestano, chiamandoci – questa volta sì – in causa, senza che nulla potremo mai obiettare.