In gita a Bologna, accetto con entusiasmo la proposta degli amici, di passare la domenica all'ippodromo: amo il cavallo e l'equitazione mi appassiona, anche se non sono mai stata alle corse che si tengono, ogni domenica, in città. Nella lunga camminata sempre diritta, da casa dei miei amici all'ippodromo, nel tipico clima del novembre bolognese, di freddo e leggera nebbia, gli amici esprimono pose di noia decadente: è necessario ammazzare la domenica, giorno di vuoto terribile per gente sofisticata e drogata di stimoli, di intrattenimento, insofferente al clima sospeso di un giorno festivo, indifferente al semplice piacere di un giorno libero dal lavoro – nessuno di loro, in effetti, ha la sfortuna di dover lavorare per vivere. A sentir loro, le corse dell'ippodromo si sono rivelate fino a quel momento il modo migliore per ammazzare la domenica: amano Paolo Conte e un certo tipo di letteratura – un universo narrativo, più che altro – da primo Novecento francese; i cavalli e le loro prestazioni non li interessano quanto l'atmosfera romantica, del tutto umana, delle scommesse. La speranza ubriacante nella volata finale.
Mi ci vuole un attimo per capire che qui, all'ippodromo, non c'è contatto con gli animali protagonisti dello spettacolo. Corrono cavalli, per risalente tradizione, perché sono attrazione sportiva da duemila anni, ma potrebbero correre dei cani – in Inghilterra la tradizione del cinodromo è radicata – o qualunque altro animale capace di coprire un tragitto lineare senza scantonare: per il pubblico sarebbe la stessa cosa. Alla minima distanza dagli animali, sono comunque tanto lontana da distinguere a fatica le razze. Vi è di certo, all'ippodromo, un mondo di box e stalle, un dietro le quinte ristretto a padroni e corridori, in cui il cavallo appare nella propria realtà di animale; c'è qui una regione interdetta in cui trovare il cavallo concreto, il cavallo-individuo. Per chi è sugli spalti, invece, il cavallo è solo una remota forma in movimento, un bizzarro nome composto secondo vaghe regole e – per aiutare le scommesse – le tre ultime prestazioni, sul giornale gratuito. L'ippodromo non è necessariamente un luogo per amanti del cavallo, e in effetti – a occhio – ve ne trovo pochi: gli amici in cerca di una speciale atmosfera sono i più soddisfatti; gli scommettitori, male in arnese o falsamente raffinati e vistosi, tutti con qualcosa di equivoco, tutti per varie gradazioni sul confine dell'azzardo terminale, avvolti dal fascino in verità poco intrigante di chi sia ormai abituato al tutto o niente; tutti disposti a concentrare l'eterna speranza del colpo grosso nell'ultima puntata, con gli ultimi soldi. Ecco la specie che anima per davvero lo spettacolo – i cavalli sono un contorno.
Uno di noi piazza una scommessa vincente. Scopro in fretta che il favorito non vince quasi mai, che il segreto è studiare la successione delle ultime tre gare, offerta sulla pubblicazione di strabiliante bruttezza che è vademecum per chi voglia fare la sola cosa che qui ha senso fare, cioè scommettere. Non posseggo lo spirito del giocatore, al contrario scommettere mi spaventa, non mi piace affrontare la prospettiva di perdere denaro: passa un'ora, con esasperante lentezza. Si beve molto, per fronteggiare il freddo bolognese: fioccano fiaschette caricate di liquore a casa, e il bar offre grappa scadente al prezzo popolare di un euro per bicchierino – bicchierini di plastica svuotati punteggiano gli spalti. La seconda cosa che ha senso fare all'ippodromo è bere: una seconda ora si esaurisce più rapida. Si corre solo al trotto, sequenze di quattro gare, e qualcuna di queste è più importante delle altre, ma non capisco – mi pare che nessuno capisca o voglia capire – cosa sovrintenda alla differenza. Stordita dalla grappa di seconda scelta, mi abituo al cavallo come oggetto dinamico, al vertice di un meccanismo che si ripete identico, a cinquanta metri dal nostro posto d'osservazione, per animare e sferzare di emozione chi sta giocando il proprio denaro, e annoiare – con tale inesorabile monotonia – tutti gli altri. Ma credo di essere la sola, in tutto l'ippodromo, che segua le gare senza scommettere. Cavalli, lì in basso, come astrazioni; cavalli come accidentale motore di un pendolo sempre uguale, che mi ipnotizza e mi addormenta. Mi svegliano quando è buio, e stiamo tornando a casa.
A Siena accompagno un amico a ritirare una vincita, presso la ricevitoria della Snai dalle parti di casa, mentre in piazza del Campo la sorte decide quale contrada baciare. Il pubblico del locale è lo stesso dell'ippodromo bolognese – come certi tossicodipendenti, sono particolarmente sciatti, particolarmente distaccati dalla loro esistenza materiale: igiene e abbigliamento vanno in secondo piano, quando c'è qualcos'altro di più vero e bruciante e intenso per cui vivere. Tutti fissano gli schermi a parete – otto, dieci monitor ultrapiatti – offrendo il fianco destro al bancone, in una coreografia straniante. Su questi monitor, le corse dei cavalli appaiono direttamente in forma di nomi, numeri, colonne di lettere e cifre bianche su fondo nero: passa qualche secondo e il monitor, oracolare, emette il suo verdetto della terzina vincente. Nessuno esulta, nessuno bestemmia, più che compostezza è distacco da ossessione. Su un monitor, eterna inquadratura sul centrocampo di un prato da calcio, e i nomi delle squadre che si fronteggiano. Non me ne intendo, ma sono squadre mai sentite, e suonano immaginarie. Mentre dalla piazza giungono grida di esultanza dei contradaioli, su un altro schermo, identica inquadratura fissa su centro campo, per una sfida – addirittura – fra Italia e Brasile: giocheranno probabilmente le giovanili, forse è un'amichevole, ma alle tre e mezza del pomeriggio? Il mio amico chiarisce la questione: la Snai offre ormai partite di calcio virtuali su cui scommettere, match di tennis virtuali, corse ippiche virtuali. È un algoritmo che decide chi vince, operando scelte plausibili, sulla base di quel che egli stesso ha deciso in precedenza. E gli scommettitori si fidano? Certo, non hanno motivi per non fidarsi: non c'è alcuna differenza, fra la casualità di una corsa fra cavalli reali e la casualità – magari controllata, razionalizzata – di una corsa fra cavalli immaginari.
Non so come giudicare un mondo che va, così deciso, verso l'astrazione.