Certo, come dicevo nell’ultimo dialogo, sarebbe fantastico riuscire a guardare con occhi nuovi e soprattutto ad esserne consapevoli. Io ci credo. Credo che questo sia possibile. Per fare questa scelta occorre innanzi tutto decidere di volerlo fare, di volere guardare con occhi nuovi e di agire in modo. Dimmi, secondo te cosa può spingere le persone a scegliere di abbandonare dei comportamenti che, come dicevamo prima, gli rendono comunque tutto più facile? Perché mai dovrebbero farlo?
Forse per necessità, perché non vedono più altre vie di uscita; forse perché l'ottica della sopravvivenza è sì la via più facile, ma anche quella che 'congela' in qualche modo la nostra esistenza, impedendoci sì di soffrire, ma anche di essere felici.
Per riprendere un altro poeta che amo particolarmente, Pablo Neruda, è fondamentale poter dire, al termine della propria esistenza: Confesso che ho vissuto...; a mio avviso, non c'è niente di più straordinario che questo: vivere!
Per decidere di vivere, occorre decidere di abbandonare schemi mentali così consolidati ed atteggiamenti che sono divenuti così abitudinari, non solo a livello individuale ma anche collettivo, da richiedere davvero un atto di coraggio, non ti pare?
Eh sì, è proprio questo ciò che ci è richiesto nel coraggio: staccarci da un mondo che è sì congelato ma anche, in qualche modo, fondato su certezze, sicurezze, protezioni. È un abbandono del conosciuto, per potersi aprire a nuove vie, tutte da esplorare, tutte da sperimentare.
È abbandonare le proprie paure...
Sì, o quanto meno non attaccarsi ad esse per giustificare se stessi. I cambiamenti richiedono atti di coraggio, ed il coraggio, secondo me, non è tanto non avere paura, quanto andare oltre ad essa, agendo nonostante la paura... assumendosi la responsabilità di sé, delle proprie azioni, dei propri pensieri.
Questa è la premessa per poter cambiare, per passare da un'ottica di sopravvivenza, come dicevamo l'altra volta, ad un'ottica di vita. Siamo così tornati al saper essere, al know-how da cui eravamo partiti nel nostro dibattito: è la consapevolezza di ciò che si è, di quelli che sono i comportamenti che si pongono in essere, di quali sono le credenze cui si aderisce, la premessa per poter essere etici. Mi pare però un compito troppo difficile, direi quasi impossibile, da svolgere da soli, quando pare che tutto il mondo giri proprio in senso contrario a quello che stiamo dicendo...
È vero, sono d'accordo con te che provare a cambiare i propri presupposti ed i propri comportamenti quando ti senti il solo a farlo è davvero troppo difficile! Però trascuri un aspetto fondamentale: che nella nostra vita noi non siamo soli, siamo invece inseriti in una rete di relazioni che ci lega così strettamente l'uno all'altro che il cambiamento nell'uno può generare un cambiamento anche nell'altro, e così via, fino a poter modificare tutta la rete di relazioni in cui si è inseriti...
Proprio come un'epidemia... è la teoria delle reti, di cui si sta cominciando a studiare il funzionamento solo in questi anni....
Sì, proprio così. La teoria delle reti è recentissima, proprio perché solo in questi ultimi anni ci si sta accorgendo di come siamo interrelati gli uni con gli altri, come nodi di reti così ampie che non riusciamo nemmeno a crearci un'immagine nella nostra mente... È grazie a sistemi tecnologici come Internet o il World Wide Web e, più in generale, ai sistemi delle telecomunicazioni che consentono trasmissioni in tempo reale che cominciamo a divenire consapevoli ed a percepire come in realtà condividiamo tutti lo stesso spazio. Adesso le parole rete, connessione, globale, sono entrate nel nostro linguaggio comune ma, se ci pensiamo bene, anche solo dieci o quindici anni fa avrebbero avuto ben poco senso per noi...
È vero; nonostante si sia sempre sostenuto, sia a livello filosofico che religioso, che occorre divenire consapevoli che tutte le cose sono interrelate in realtà, finché non se ne fa esperienza a livello fisico, corporeo, è estremamente difficile per noi comprenderlo veramente... Adesso che tutto ciò sta divenendo esperienza comune per ciascuno di noi, è più facile secondo me che in tempi relativamente brevi si possa cominciare a capire profondamente, non più solo intellettualmente ma direi in modo fisico, incarnato, ciò che significa essere interdipendenti. E l'esperienza che stiamo vivendo di essere tutti interrelati non è solo legata ad Internet o ai telefonini; è spesso anche di natura spiacevole o problematica, come le difficoltà economiche dovute alla globalizzazione, o le reticenze che abbiamo a confrontarci con culture diverse dalle nostre e che oggi ci ritroviamo 'in casa', o gli effetti dell'inquinamento che non sono più solo locali ma globali... Penso quindi che sarebbe decisamente importante fare il passo successivo: una volta che si è compreso a livello corporeo cosa significa essere interrelati, è bene comprenderlo anche a livello mentale, ossia accettarlo come nuovo modo di pensare, come nuovo paradigma.
Sarebbe un passo avanti... anzi, direi un salto in avanti, rispetto al nostro normale sentire, basato finora più sul concetto di dipendenza che di interdipendenza. Nell'interdipendenza, come abbiamo già discusso in precedenza, si supera il rapporto lineare di causa ed effetto, che porta con sé anche un approccio fondato sul senso di colpevolezza, in cui si cerca 'chi ha causato che cosa' ed in cui si presuppone un rapporto del tipo dominante/dominato.
A noi manca quasi completamente la capacità di percepire ciò che ci sta accadendo attorno e sentendoci isolati escludiamo anche la possibilità di interagire con ciò che ci circonda, e che comunque sta evolvendo, si sta trasformando, anche se non ce ne accorgiamo... Eppure, che ce ne accorgiamo o meno, il nostro comportamento influenza il comportamento di tutti coloro che sono in relazione con noi a qualunque livello.
Certamente. Direi che, nell'interdipendenza, anziché cercare il colpevole, o, come direbbe il Signor Malaussène creato da Daniel Pennac nei suoi romanzi, il capro espiatorio delle nostre azioni - e che tanta importanza ha avuto ed ha tuttora nella nostra cultura e nelle nostre pratiche religiose - si potrebbe cominciare a pensare in termini di responsabilità personale, intesa come etica nei comportamenti.
Questo, secondo me, non significa assumersi tutte le responsabilità di ciò che accade, quanto piuttosto, proprio attraverso la comprensione dell'interdipendenza e dell'essere quindi inseriti in una rete di relazioni, l'umiltà di accettare che non siamo 'onnipotenti', poiché la prevedibilità degli effetti del nostro agire è al di fuori delle nostre possibilità di comprensione.