L’Occidente, le sue élite politiche, i suoi centri di ricerca geopolitica, i suoi commentatori, quelli dei maggiori giornali e delle grandi catene televisive che dominano il mainstream, sono tutti in preda all’incertezza, qualcuno vicino al panico. Non capiscono quello che sta accadendo. Naturalmente vi sono eccezioni, ma rare.
L’ultimo infortunio in ordine di tempo — ma ormai clamorosamente evidente — si sta verificando in connessione con l’aggressione turca contro i curdi siriani, che è al contempo una ennesima aggressione indiretta contro la Siria di Bashar el Assad. Si dà il caso che lo stonato acuto baritonale di Erdogan si è verificato in coincidenza con la decisione di Donald Trump di ritirare tutte le sue truppe dal campo della contesa. Decisione accompagnata da un ripudio pubblico, netto, inequivocabile, irredimibile, di tutta la politica medio-orientale degli Stati Uniti nel corso di ben quattro tornate presidenziali: due di George Bush junior, due di Barack Obama. “Ci abbiamo buttato 8 trilioni di dollari”, ha detto il Presidente degli USA. “Che ci stiamo a fare laggiù? Voglio riportare a casa i nostri ragazzi!”
I ragazzi a stelle e strisce a casa non sono ancora tornati. E, con ogni probabilità, non torneranno. Ma non sarà Donald Trump a impedirne il ritorno. Saranno i suoi nemici interni, che li useranno per mettergli quanti più bastoni possibili tra le ruote. Qualcuno — come se stesse aspettando un ripensamento, o qualche evento sicuramente drammatico — ha deciso che è meglio acquartierarli in Iraq. Un Iraq che è una pentola piena di vapore surriscaldato. Non è chiaro chi ha deciso (anche se di “falchi” ribelli è piena la CIA ed è pieno il Pentagono e il Dipartimento di Stato, ma è chiaro che l’America della “guerra infinita” non c’è più.
Trump non è diventato pacifista. Con tutte le sue contraddizioni, qualche volta simili e veri e propri pasticci, ha una linea. Quella decisione l’ha presa nel bel mezzo di uno scontro all’ultimo sangue contro i suoi nemici interni: il deep state dei suoi servizi segreti, di parte del Pentagono, di parte del suo stesso partito Repubblicano, del Partito Democratico quasi al completo, dei grandi media, di Silicon Valley, di Google, Facebook, Yahoo and company; delle grandi banche internazionali e dei giganteschi conglomerati finanziari che controllano la Federal Reserve. Rimanere “laggiù” significava rimanere esposto a ogni false flag organizzata dai nemici interni, che agivano e continuano ad agire sul campo. Non da soli, perché appoggiati da Israele, che vuole lo scontro finale con l’Iran e che controlla direttamente più della metà dei senatori e della Camera dei Rappresentanti.
Ma torniamo al tema. L’Occidente intero assiste allibito a una serie di scossoni che fatica a capire. A cominciare da una Gran Bretagna in pieno collasso istituzionale. Per continuare con una Unione Europea impiccata al palo di Acquisgrana, immobile, squassata da una crisi politica e morale che non è in grado di dominare e che non sa più a che santo votarsi, perché il “santo” che la guidava fino a ieri non è più al comando del mondo e un altro “santo” non è all’orizzonte, né uno armato con la spada, come il precedente, né un altro più disposto al dialogo.
Cosa sta accadendo? Che l’America non c’è più. Per meglio dire: gli Stati Uniti d’America sono talmente divisi da far pensare addirittura a una specie di guerra civile imminente, a un colpo di stato incombente. L’Impero americano, che ha dominato il Pianeta per gran parte del XX secolo, non è più un impero. E non solo perché è apparsa la Cina, che con la sua sola presenza dimostra che gli ordini dell’Impero non sono più vincolanti per essa e, quindi, non lo sono più per nessuno. Ma c’è anche la Russia, che non è stata dominata e che si erge, in questo momento, come un ostacolo insormontabile — per la sua potenza militare e per la sua sagacia tattica.
Lo strapotere militare, che ha garantito il dominio statunitense sul mondo intero a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, è scosso in modo irrimediabile. Le immagini dei soldati del Cremlino che entrano nelle basi abbandonate in Siria, nel disordine dell’esercito statunitense, e che circolano sul web, sono l’epifania di questo cambiamento. E preludono a mutamenti profondi del sistema economico dominante del neo-liberismo più sfrenato.
Ed è l’epifania più evidente. Ma ce n’è un’altra, meno evidente ma perfino più significativa. Il patto tra Deng Xiao Ping e le grandi corporations americane, quello che ha trasformato la Cina in “fabbrica del mondo”, sta finendo. E la Cina, invece di essere fagocitata dal mercato mondiale — come i teorici della “fine della storia” avevano previsto — sta modificando il mercato mondiale e i rapporti di forza industriali, tecnologici, commerciali, e costringe gli stessi Stati Uniti a tornare ad essere “produttori di beni e servizi” dopo essere stati per settant’anni esportatori di dollari, creatori principali del debito mondiale e, quindi, strangolati essi stessi da un debito ineliminabile.
Se il governatore della Banca d’Inghilterra, Carney, va a parlare ai banchieri della Federal Reserve, annunciando la necessità di un nuovo paniere internazionale di monete in cui il Ren Min Bi abbia finalmente il ruolo che gli compete, insieme al ridimensionamento del dollaro, ciò significa che si sta aprendo una nuova era. E questa nuova era implicherebbe un ridimensionamento dell’Impero, un suo venire a patti con i suoi nemici. Ma tutto questo avviene mentre il Pentagono e in pratica l’intera élite politica americana, varano un programma militare strategico che proclama la fine della guerra contro il terrorismo internazionale (timbrata con la ennesima morte virtuale dell’ultimo terrorista con Denominazione di Origine Controllata, sotto le vesti di Abu Bakr al-Baghdadi) e individua con chiarissima determinazione i due nemici strategici dell’America: la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping.
Il tutto — ecco la terza epifania — mentre proteste popolari dilagano simultaneamente in decine di paesi: sia quelli del mondo occidentale, sia quelli meno sviluppati. Le rivendicazioni popolari che vi emergono sono le più diverse, ma s’intravvede sullo sfondo l’insostenibilità della distribuzione planetaria attuale delle risorse: troppi i poveri e i nuovi poveri, troppo pochi i ricchi smisuratamente ricchi.
La stabilità dell’Occidente, come quella di tutti i paesi emergenti, era fondata su un vasto ceto medio che fungeva da ammortizzatore sociale. Fu questa la formidabile trovata del welfare state. Certo in gran parte frutto della competizione contro il socialismo reale, finché fu temuto e rispettato. Così il capitalismo “ragionevole” fu capace di gestire a suo vantaggio la contesa strategica tra i due sistemi. Ma, con il crollo del socialismo, ovvero con la caduta del Muro di Berlino, ovvero con la fine della competizione con il socialismo, il capitalismo delle merci fu sostituito dal sistema predatorio costruito dalla Banca. Un sistema tanto prepotente quanto cieco: non interessato a distinguere tra le greggi dei rapinati. Che colpisce indifferentemente e con eguale brutalità tutti gli strati delle popolazioni subalterne. E accade così che non solo i poveri s’impoveriscono ulteriormente e aumentano la loro massa, ma anche che i ceti medi stanno scivolando verso l’indigenza. Indigenza relativa quanto si vuole, ma che viene percepita, da chi la subisce, altrettanto se non di più della percezione della povertà da parte di chi è già abituato a subirla. A quel punto — e molto ci dice che siamo vicini a quel punto — il “cuscino” che svolgeva la funzione di ammortizzatore sociale si sgonfia. I gruppi dei nuovi rapinati abbandonano i partiti ai quali avevano affidato l’equilibrio sociale, e vanno in cerca di nuovi protettori, che saranno più radicali e arrabbiati dei precedenti. È l’inizio di una rivoluzione politica, che sta assumendo forme diverse, e provvisorie, nei diversi Paesi, ma che è destinata a inasprirsi in assenza di risposte da parte delle élite, e di partiti alternativi, che non hanno ancora fatto in tempo a crearsi. Quella che è stata definita come la “liquidità” crescente dei corpi elettorali è la manifestazione pratica della transizione cui stiamo assistendo. L’Unione Europea, quella uscita, malconcia ma ancora indenne, dal voto del 2019, farebbe bene a non ritenersi al di fuori dalla tempesta quasi perfetta che è attualmente in corso e che non accenna a diminuire d’intensità. Pensare a un suo crollo nei tempi brevi non è realistico. Potrebbe ancora traccheggiare per un decennio. Molti capitali sono stati investiti per tenere in piedi una tale struttura e pretendono una redditività più lunga. Ma lo stato dell’arte e la confusione generale dicono che il logoramento è profondo. L’Occidente sembra destinato ad affrontare la resa dei conti, creata in primo luogo dal suo egoismo e dalla sua prepotenza, proprio mentre si manifestano profonde incrinature nello stesso tessuto sociale che esso aveva creato per difendere la propria stabilità.