Con decreto del 3 settembre 1960 Paterna sollecitudine del cardinale Clemente Micara, allora vicario di Giovanni XXIII per la diocesi di Roma, inizia la storia della chiesa, sede parrocchiale, di San Policarpo (quartiere Appio Claudio, Municipio Roma VII di Roma Capitale, Prefettura Vicariatus Urbis XX).
Questa fu costruita tra il 1964 e il 1967, ed inaugurata dal Cardinale Luigi Traglia il 15 luglio 1967, ai limiti del quartiere in una zona a forte sviluppo abitativo. Il terreno fu donato dalla famiglia fiorentina Gerini.
Situata in uno dei posti più suggestivi e carichi di storia del paesaggio romano, si chiude completamente all’esterno, interpretando il suo ruolo di baluardo, e si auto referenzia. Per Roma si tratta di uno degli esempi di architettura sacra più riusciti negli anni Sessanta, capace di realizzare una valida sintesi di stili, citando e trasformando varie forme tradizionali di architettura religiosa (chiesa a pianta centrale rinascimentale, sviluppo verticale del tiburio e della lanterna, uso di materiali tradizionali romani, vetrate slanciate verso l’alto). Il materiale usato (marmo peperino e mattoni rossi) per l’edificazione delle pareti è in armonia con quello utilizzato dagli architetti di epoca romana per la realizzazione degli attigui acquedotti.
Disegnata dall’ingegnere-architetto Giuseppe Nicolosi (1901-1981), che progetta una fabbrica che si impernia intorno alla figura geometrica dell’esagono e dei triangoli equilateri che lo compongono, dove sono impostate due diverse strutture: una interna in cemento armato che sostiene la copertura, l’altra di chiusura perimetrale, in muratura autoportante rivestita all’esterno con blocchi squadrati di peperino alternati a ricorsi di mattoni, capaci di configurare la forma urbana, alta, possente, solitaria, dell’edificio.
In questa opera si assiste al momento più felice dello sviluppo artistico di Nicolosi. La chiesa di San Policarpo rappresenta, infatti, un prezioso codice di lettura del linguaggio compositivo del maestro romano, sia all’esterno che nello spettacolare spazio interno dell’aula cultuale centrica, che proietta lo sguardo dell’osservatore verso l’alto in un afflato di forte suggestione sia artistica che mistica.
Il segno distintivo del progettista e della chiesa di San Policarpo è proprio nella sconnessione degli elementi costruttivi della fabbrica, dove volutamente si mantiene la struttura portante e le pareti separate in un colloquio espressionistico apparentemente distante ma in realtà vicino.
La committenza della chiesa è la Santa Sede, Pontificia Opera Preservazione della Fede e la Provvista di Nuove Chiese; la Direzione dei Lavori è dell’Ufficio Tecnico della Pontificia Opera, ingegnere Francesco Fornari, l’impresa di costruzione è di Augusto Lupano.
Casa di Dio e la casa degli uomini
La chiesa di San Policarpo è la casa di Dio e la casa degli uomini del quartiere, originale costruzione centrale a pianta esagonale fortemente allungata, con un sesto lato brevissimo, di soli 270 cm, sul quale all’interno è posizionato in basso il Tabernacolo a muro, al di sopra del quale è presente per tutta l’altezza e la larghezza una stretta e alta vetrata.
L’edificio dalla caratteristica e inconfondibile forma a lanterna, presenta tutte le facciate rivestite da lastre di peperino fortemente bugnate di diverse dimensioni. Le lastre sono tagliate, apparecchiate e lavorate in situ con estrema precisione, annoverando una fascia perimetrale liscia ed una incisione tra blocco e blocco. Le lastre della zoccolatura a terra non presentano bugnatura e sono completamente lisce.
Tutti i prospetti sono inoltre segnati orizzontalmente da ricorsi di mattoni a una, due, tre file sovrapposte, che serrano tre, quattro, cinque file di lastre di peperino.
Il risultato finale è una facies architettonica che sembra incredibilmente nascere e svilupparsi dalla terra, con alte pareti fortemente materiche caratterizzate dal gioco discreto di luci e ombre. In questa opera il contenuto poetico e lirico si fonde in tutto l’impianto plastico, attuato con lucidità sino all’apparente “non finito” delle pareti.
All’interno il tempio presenta un’imponente struttura in cemento armato apparentemente avulsa dalle murature perimetrali. Sei grandiosi pilastri interni in cemento armato a vista, di pianta pentagonale fortemente allungata analoga, anche se ovviamente di dimensioni ridotte, a quella della chiesa, sorreggono altrettante alte travi a sostegno della volta che intersecandosi formano la figura di una stella a sei punte, considerata da alcuni studiosi di David.
La forma della stella è infatti ottenuta dall’incrocio di due triangoli equilateri (aventi quindi tre angoli identici di 60 gradi ciascuno) e di eguali dimensioni. La stella di David, o anche sigillo di Salomone, insieme alla Menorah, rappresenta la civiltà e la religiosità ebraica.
Il lungo cammino professionale di Giuseppe Nicolosi, pur costellato di importanti traguardi, trova l’esternazione più emblematica nella chiesa di San Policarpo, la fabbrica religiosa più matura e convincente.
Sviluppata in pianta e in alzato da teoriche interpretazioni geometriche, ma allo stesso tempo legata inscindibilmente al paesaggio e al territorio circostante. Sullo straordinario sistema spaziale di travi si impernia il tiburio che svetta sopra la copertura rendendosi leggibile dall’interno, ma anche dall’esterno, come prisma a base stellare. Il tiburio è riconoscibile dall’interno anche per l’utilizzo di mattoni pieni per le murature dei dodici lati. Alle intersezioni dei piani verticali del tiburio, due strette asole angolari vetrate poste tra slanciati e sottili pilastri lasciano passare linee nette di luci che all’interno si spezzano proiettandosi sul disegno degli intrecci. Una impercettibile finestra a nastro orizzontale corre continua tra la copertura e le pareti laterali, denunciando nuovamente l’autonomia delle due differenti strutture.
L’architetto realizza un presbiterio straordinario, anche nelle dimensioni, con il “semplice” prolungamento dei due lati dell’esagono, punto di convergenza di tutti gli sguardi dei fedeli, dove il celebrante manifesta una rappresentazione sacrale, dove nel Tabernacolo piramidale incastonato nel muro si esterna il mistero, dove oltre la parete di fondo divenuta eterea vetrata non si trova l’esterno con gli alberi del Parco ma Angeli musicanti inneggianti il Signore.
L’atrio è particolarmente studiato da Nicolosi. Una lunga, solida e semplice cancellata esterna immette nell’ambiente prismatico dove si trova l’ingresso principale che annovera una vetrata protetta da una sobria cancellata in ferro battuto che manifesta un raffinato disegno geometrico che si ritrova in tutto l’impianto. Il battistero si attesta alla destra dell’atrio d’ingresso, da dove si accede e da dove viene distribuito.
L’interno e le opere d’arte
L’interno della chiesa è maestoso, costituito da una vasta aula generata in pianta da sei monumentali pilastri. Le svettanti pareti perimetrali manifestano un paramento in mattoni pieni disposti a cortina, fino all’altezza dei varchi. Al di sopra, gli stessi mattoni sono disposti in filari che alternano una fascia allineata con una fascia dove i mattoni sono posati a 45 gradi. L’allettamento dei mattoni a spigolo richiama le murature di restauro, così realizzate per differenziarle dalle originali. Questo disegno, nato per risolvere anche problemi acustici della sala, genera un effetto fortemente materico di tessitura capace di attrarre le luci radenti ribaltandole in molteplici piccole ombre. Teologicamente i mattoni disposti ad incrocio su file parallele intendono richiamare la situazione della realtà umana, in cui si incrociano la vita ed il destino di un uomo con un altro, ed in cui ogni persona, così come ogni mattone, è utile e necessario per sorreggere l’altro.
Il Tabernacolo disposto al centro di tutta la composizione, sull’asse di simmetria, determina una posizione spaziale preminente. L’architetto lo ha posizionato più alto possibile cercando di renderlo estremamente prezioso in modo che nella generale severità dell’insieme costituisca un punto di assoluto polo d’attrazione, di emergenza, anche con soffusi e discreti effetti di luce. La porta vetrata del fondo e l’elegante cancellata del pronao rendono visibile al passante la sede del Santissimo Sacramento.
Il presbiterio rialzato dalla caratteristica pianta a triangolo appena tagliato in punta vede due panche marmoree addossate alle pareti. Al centro, l’altare realizzato con due blocchi parallelepipedi di peperino posizionati vicini ma non congiunti, su cui poggia una lunga mensa.
Sopra il Tabernacolo è l’altissima vetrata policroma verticale realizzata dall’artista Mirella Patruno con 16 lastre di cristallo assemblate insieme, posizionate due a due per otto registri, decorate con la raffigurazione del Martirio di San Policarpo. In basso troviamo, infatti, il colore azzurro-blu intenso che salendo si trasforma in verde e, successivamente, in rosso, a simboleggiare le fiamme e il sangue versato da Policarpo. In alto i colori si trasformano in bianco e giallo, quelli del Paradiso sopra il Sole, riservato al martire.
Cinque strette finestre verticali inserite in ciascuna delle pareti contigue all’altare illuminano la parte bassa dell’aula cultuale di San Policarpo. Più che finestre sembrano castellane “feritoie a gola di lupo” aperte, ma allo stesso tempo nascoste nello spessore delle pareti, notevolmente strombate all’interno, superato l’infisso posto sul filo interno, solcano l’ampio spessore murario secondo una direzione inclinata rispetto alla parete stessa, ma ortogonale all’asse della chiesa.
Le dieci vetrate policrome, in realtà vetrofanie, sono state realizzate da Carla Mastronario con raffigurazione di Episodi evangelici, più precisamente del ciclo dei Vangeli della Domenica di Quaresima Anno B.
Originali le 14 stazioni della Via Crucis, realizzate nel 2007 dall’artista di Umbertide (Umbria) Amblè Sonaglia, definito dalla critica “il poeta dei chiodi”, che firma la XIII stazione, utilizzando chiodi diversi per lunghezza e tipologia, verniciati di nero e lavorati per ottenere personaggi e paesaggi infissi su tavolette quadrate (cm 40x40) di legno.
La Cappella Feriale
Alla Cappella minore, o Feriale, si accede dall’interno della chiesa, si tratta di un’aula quasi rettangolare lunga e stretta, coperta da unica falda fortemente inclinata, che prende luce da due asole sottili orizzontali aperte lungo i lati maggiori di diversa altezza della stessa cappella.
L’intera parete lunga di sinistra della Cappella annovera un’opera di straordinaria dimensione (1.300 x 500 cm) di Ugo La Via. La tecnica usata è quella dell’olio su muro, e raffigura la Storia della Salvezza, lo svolgersi e compiersi nel tempo del disegno di amore da parte di Dio per l’umanità.