La matematica egizia era pura aritmetica e sempre particolare, cioè non fece mai il salto da «sette più tre fa dieci» a «x più y è uguale a z». Questa matematica non conteneva deduzioni, e nemmeno dimostrazioni, secondo la nostra accezione del termine.
Sono stati gli Arabi, a quanto pare, a introdurre nella matematica il concetto di «qualunque», creando così l'algebra.
Per esempio, l'equazione x + y = z possiede una e una sola soluzione per tutti i valori di x e y, purché ci accordiamo sui passaggi e gli artifici che dobbiamo usare. Se le «grandezze» sono definite in modo appropriato e se l'«addizione» è definita in modo appropriato, allora x + y = z ha una e una sola soluzione.
E z sarà della stessa sostanza di x e y.
Ma che salto, cari miei, dalla concretezza dell'enunciato «sette più tre fa dieci» all'astratta generalizzazione che si regge soltanto su convenzioni e condizioni arbitrarie!
Ecco, i parametri della moderna psichiatria hanno fatto la medesima cosa, hanno introdotto il concetto di «qualunque» nel comportamento umano, e hanno trasformato così l'aritmetica dei valori umani nell'algebra delle funzioni umane. Fuor di metafora, per i criteri diagnostici della psichiatria contemporanea non è importante sapere se un paziente soffre d'ansia perché ha perso il lavoro vittima di luridi favoritismi o perché ha giocato sporco con i colleghi e ora è stato giustamente licenziato. Non gli importa sapere se l'umore di un depresso è sotto le scarpe perché viene dileggiato da compagni superficiali e crudeli, o perché ha abusato di amfetamine e ora sta scontando il suo contrappasso chimico. Non gli interessa sapere se il ragazzo con una diagnosi di «fobia sociale» sia sul serio invalidato da incapacità di rapportarsi agli altri, o se invece sia semplicemente circondato da coetanei prepotenti e inetti.
No, ha importanza soltanto che, per esempio, da «più di due settimane a questa parte abbia una bassa autostima e mostri perdita di interesse o piacere nelle attività normalmente piacevoli». Ha importanza soltanto la funzione, in cui ogni valore concreto è stato sostituito da un'incognita, da un «qualunque». Alla moderna psichiatria non interessa sapere se dietro quella x c'è un 7 oppure un 8, men che meno di sapere se il 7 o l'8, pur sempre quantità astratte, designano pere invece che mele. E poi ancora, quali pere? Quali mele? Perché non è affatto indifferente.
Tuttavia, i criteri diagnostici non contemplano questi valori, non li tengono in considerazione; per la psichiatria contemporanea le idee, i fatti, le fedi, le scelte di vita, l'onestà, la coerenza esistenziale del paziente rimangono pure incognite, restano le x, le y e le z di un paziente «qualunque»...
Ciò che ho tentato di fare per tre anni ascoltando i racconti e le storie delle persone che incontravo al Day Hospital è stata l'operazione esattamente inversa. Ho cercato di riempire la funzione, di darle corpo e restituirle vita e concretezza. Ho ascoltato, indagato e domandato affinché per ciascuna funzione cucita addosso a un uomo o una donna «qualunque» riaffiorasse il valore originario. Ho risalito la corrente, e dalla scheletrica impalcatura di una funzione diagnostica ho cavato fuori la polpa di una storia, fin nei suoi più piccoli, contingenti, realissimi aneddoti.
Io non sono una terapeuta, sono una persona a cui interessa dar voce all'umanità. Negli archivi ospedalieri sono accatastate le cartelle cliniche dei pazienti che via via si sono avvicendati durante i ricoveri in reparto psichiatrico e durante le permanenze in Day Hospital. Le cartelle vengono compilate nella più frustrante e spennacchiata combinatoria di variabili.
Ogni anno tirano fuori dal cappello decine di nuove diagnosi per fotterti meglio all'occorrenza, ma di fatto ne vengono utilizzate solo quattro o cinque, e sempre le stesse: depressione, ansia, disturbo bipolare, fobia sociale... Ah, ma allora è più sofisticato l'oroscopo, i segni zodiacali sono ben dodici!
Ebbene, se le cartelle cliniche conservano la memoria di un paziente «qualunque» che verrà archiviato come depresso, o bipolare, o se gli va bene come affetto da disturbo della personalità con qualche accenno psicotico; qui, in queste righe, proverò a fare in modo che il paziente venga ricordato a «tuttotondo», in tutta la sua umanità.
A proposito del tuttotondo, Michelangelo Buonarroti litigava sempre con i suoi committenti ecclesiastici a causa dei ritardi nella consegna delle statue dei santi da collocare nelle chiese. I vescovi lo incalzavano: “Sbrigati, che stai a rifinire le natiche e i riccioli dietro le orecchie, intanto non si vedono!” In effetti, le statue destinate alle nicchie delle navate non sarebbero mai state spostate da lì, e la sublime nuca di un san Lorenzo Martire addossata alla parete non l'avrebbe più vista nessuno. Ma Michelangelo niente da fare, non mollava. Le sue statue dovevano essere perfettamente levigate e raffinate a tuttotondo, anche laddove l'occhio umano non sarebbe mai potuto arrivare. Come dargli torto...
Voglio subito fare un esempio tratto dalla mia esperienza. Ciò che un tempo poteva essere ascritto a un tipo di personalità – per esempio, personalità introversa, riflessiva – o che semplicemente veniva chiamato timidezza, oggi viene considerato un carattere deviante rispetto alla (presunta) normalità psichica.
Marco, un ragazzo di 20 anni con cui ho dialogato per mesi, ha una diagnosi di depressione e di fobia sociale. Da quando aveva 16 anni viene trattato con anti-depressivi e con farmaci per regolarizzare il sonno. Durante i nostri incontri, Marco mi parla di sé, dice che non ama andare in discoteca, che ha soltanto un paio di amici e che la maggior parte delle volte preferisce stare a casa a giocare con i videogiochi. A Marco piacerebbe avere una vita sociale più appagante, e non si sente per nulla portato alla solitudine, tuttavia non tollera le continue prevaricazioni, il sessismo, le battute volgari, la mancanza di spessore dei dialoghi dei suoi coetanei.
Durante i nostri colloqui, Marco ama moltissimo parlare delle sue emozioni e analizzare i suoi pensieri, è smanioso di condividerli e confrontarli, esige una continua attenzione critica, non si sottrae mai al contrasto dialettico; insomma, non fa altro che dare libero corso alla sua natura raffinata e introversa, incline alla speculazione intellettuale.
Non so decidere se i cicli di sedute con me gli possano aver fatto più bene che male. Da una parte, è vero che Marco era completamente soddisfatto dai nostri dialoghi e ogni volta non vedeva l'ora di tornare. D'altra parte, è altrettanto vero che l'indulgenza concessagli dal nostro setting (sedute individuali in cui gli era concessa la più totale liberà d'espressione, scevra da ogni pericolo, una sorta di ambiente ideale, protetto da ogni possibile attacco) ha alimentato a dismisura la sua introversione ed esacerbato la sua insofferenza nei confronti degli altri.
Ma, al di là di questo - penso profondamente amareggiata, anzi proprio incazzata, - il risultato è che un ragazzo intelligente, consapevole, sensibile e attento al dialogo molto più della media dei suoi coetanei, non soltanto sia stato svilito a fobico sociale ma, in quanto tale, sia anche stato tartassato farmacologicamente. Quello che voglio dire è che sono totalmente d'accordo con Paul R. McHugh, professore di psichiatria alla facoltà di Medicina all’Università Johns Hopkins, quando sostiene che in questo modo la psichiatria dimostra di aver smarrito la sua strada non solo intellettualmente, ma anche spiritualmente e moralmente. McHugh a questo proposito ha affermato che per via del DSM:
Le persone irrequiete e impazienti vengono convinte di soffrire di un disturbo dell’attenzione; le persone ansiose e guardinghe, di soffrire del disturbo da stress post-traumatico; le persone testarde, ordinate, perfezioniste vengono diagnosticate come sofferenti da disturbi ossessivi-compulsivi; quelli timidi e sensibili manifestano disturbi da personalità ritirata, oppure fobia sociale. Tutti sono stati convinti che, ciò che è semplicemente un tratto della loro personalità, sia invece un problema medico e quindi va trattato con farmaci... E, ancora più preoccupante, dovunque vadano, queste persone trovano psichiatri ansiosi e volenterosi di «andargli incontro»1.
Ed è questo che è accaduto a Marco: alcuni tratti del suo carattere, certe qualità appartenenti al suo «tipo psicologico», come direbbe Jung, sono stati rinominati «depressione» e «fobia».
Il caso di Marco mostra in tutta evidenza come sia prevalso il dominio della dimensione funzionale su quella valoriale: se x rifiuta y, allora z. Dove: se x [Marco, un individuo] rifiuta y [la società, gli altri], allora ne consegue z [la fobia sociale]. E ciò, per la psichiatria, è sempre vero, indipendentemente dai valori di x, y e z.
L'acume scientifico cui è giunto l'odierno paradigma psichiatrico sostiene che se Marco si rifiuta di condividere il suo tempo e le sue esperienze con gli altri, con i suoi coetanei, se Marco si rifiuta di socializzare, allora ne deriva che Marco è fobico-sociale. Che capolavoro deduttivo!
Non si domanda chi siano e come siano questi «altri», né chi sia e come sia «colui che rifiuta»; non indaga su quali siano i valori dominanti della società rifiutata e quali invece quelli di chi la rifiuta. Come dicevo prima, non si chiede che cosa ci sia dietro quella x, dietro quella y. Non si chiede se l'azione stessa di «rifiutare la socialità», in cui i criteri diagnostici vedono soltanto un sintomo della devianza, non possa per caso essere a sua volta un'importante azione sociale. Non tiene neppure in considerazione la possibilità, del tutto verosimile, che gli individui con le qualità caratteriali di Marco siano altrettanto funzionali e utili per la costruzione e la preservazione del sociale.
(Estratto da: La variabile umana, Eleuthera, 2019. Per gentile concessione della casa editrice.)
1 Paul R. McHugh, «How Psychiatry Lost Its Way» in American Jewish Committee Commentary, 1999.