Non so come dirlo a Denise, che come me non crede nell’amore a distanza.
L’infarto del padre è stato una benedizione ma purtroppo è sopravvissuto. La fase sperimentale della mia autonomia professionale s’è rivelata un completo successo. Ora, nonostante i medici gli abbiano prescritto un sacco di pastiglie e di riposo, il vecchio è tornato in trincea a schivare i proiettili dello stress. Ottuso e accentratore come sempre, m’ha spedito ancora in un angolo buio e silenzioso dello studio.
Non so ancora come lo dirò a Denise.
Potrei tollerare la responsabilità dell’opulenza materiale soltanto qualora essa derivasse da un’inestimabile ricchezza interiore. Il senso del dovere, figlio del mediocre compromesso e dell’autoinganno, lotta disperato da oltre un decennio contro ciò ch’è giusto.
Rinunciare alle certezze d’una professione non ancora in crisi per essere un poeta e vivere d’astuzia e birra o sperare non venga mai istituito l’albo degli amministratori di condominio, affinché la storia possa insabbiare comodamente l’enormità della marchetta burocratica e contabile?
Ne avrei dovuto discutere con Denise.
Le bozze di tre critiche, racconti vari, un romanzo e una silloge richiedono urgentemente tutta la mia attenzione.
Sul tavolo del soggiorno-cucina riposano indisturbati tre romanzi, una biografia, tre sillogi eccezionali e un dizionario e un manuale di retorica e stile anch’essi monumentali.
Sto sprecando le giornate fra bilanci, fatture di gas, luce e acqua, idraulici, elettricisti e muratori.
Come lo dirò a Denise, che non può essere soddisfatta attraverso una webcam?
Ho davvero bisogno di trascorrere un mese nella writer house di Copenaghen e poi pellegrinare per le molte altre che costellano il Nord-Europa. Non basterà tutta la vita per animare demoni, fantasmi, damigelle e cavalieri che sguazzano nudi fra i flutti d’un’immaginazione insana e tempestosa. Però il piacere deriva dal viaggio e ogni nuovo passo è una meta.
La mia gente ha cominciato a celebrare l’universo e la vita prima ch’esistesse la scrittura e ne ha lasciato sporadiche tracce lungo tutto l’arco della storia umana. Lirica estatica emerge da muri graffiati di sciamanico rosso e spinge l’anima oltre le stelle fra ditirambi, epitalami ed epicedi.
Poi l’ora zero: quella in cui Rimbaud vergò la Lettera del Veggente dimentico di ciò che era stato fino a quel punto e noncurante nei confronti dell’ineluttabile posterità.
Sono nato allo scoccare del primo decennio del secondo secolo dopo Rimbaud. Non posso voltare le spalle alla vocazione e al dovere di pestare forte il suolo con l’orma estetica che funga d’anello di congiunzione della tradizionale catena orfica e iniziatica.
Poche parole sincere per dirlo a Denise, ch’è la mia musa.
Ho bisogno di nascondermi a Cristiania, calpestare selciato e non asfalto, sentire il profumo della marijuana.
Voglio un faro da custodire e avvolgere in vertigini di parole. Ascoltare il silenzio del mare distante farsi onda indomita e sublime, ricoprire la fottuta Sirenetta. Necessito della consapevolezza d’avere intorno più di mezzo milione di donne, uomini e bambini e poterli ignorare tutti con sorrisi gioviali.
Non desidero altro che svegliarmi all’alba, cercare un caffè espresso e poi piegarmi sulla tastiera e abbruttirmi sulle pagine. Lavorare quattro ore e poi passeggiare in lungo e in largo per il quartiere finché l’ispirazione si posi docile sulla spalla a cinguettare incipit principeschi.
Scriverò nuove poesie e ne curerò mille stesure differenti. Solo un poeta che trascini con sé un pc portatile, proteso verso il buio come lanterna.
Sovrappopolazione, surriscaldamento e meccanizzazione mi nauseano, come non tollero più l’indifferenza o la presunzione ignorante ch’è l’effige dell’economia globale da ormai due secoli.
Non ho bisogno d’introdurre l’argomento con Denise.
Sarà lei stessa a incoraggiarmi a lasciare il lavoro per scrivere, poco più di un anno dopo. Lo farà in un’alba di fine inverno, a casa sua, mentre beviamo da bicchieri di vetro caffè zuccherato e fumiamo le prime sigarette del giorno.
Nel frattempo subisco sveglie demotivate che mi spingono in studio e sfoglio riviste online di letteratura, appunto frasi, scrivo poesie che non ho il tempo materiale di curare. Attendo i fine settimana per immergermi completamente nella composizione narrativa. Quando torna lunedì sono più stanco che mai, il cervello bollito. La distanza che mi separa da sabato è attenuata dalla soddisfazione del lavoro svolto fino al giorno prima.