Scendono in campo, cioè in politica, direttamente, i colossi della Rete. In realtà c’erano da tempo, Google e Facebook, ma stavano acquattati nel gran mare dei “Mercati”. Adesso, a quanto pare, i giocatori veri vengono spinti sulla scena della politica. Cioè devono scoprirsi. Cosa li costringe? Probabilmente la crisi che ormai tutti avvertono avvicinarsi, anche se nessuno, per ora, riesce a vederne tutti i contorni. Ma c’è un fattore che s’impone: la micidiale rapidità degli sviluppi delle tecnologie. Che promette sfracelli ai più avventurosi tra i moderni e ruggenti capitani della finanza tecnologica, l’unica che “tira”, mentre tutto il resto frana.
La tentazione di guadagni smisurati è turbinante e irrefrenabile. Ma per raccoglierli occorre sfondare tutto. La globalizzazione tecnologica può ormai abbattere interi stati, cancellare comunità di uomini e storie. Ci vuole un nuovo potere per stabilire un nuovo ordine. E un nuovo potere implica la liquidazione delle vecchie élites politiche.
Questo incipit è indispensabile per tentare di spiegare molti fatti nuovi, già in atto. Che si intravvedono, ma solo a tratti nella nebbia di manovre non raccontabili al grande pubblico che avvengono su molti scenari simultaneamente.
Cominciamo dall’ultimo, che sarà presto, prestissimo, un penultimo e poi un terzultimo. A fine agosto si viene a sapere che il Dipartimento della Giustizia americano sta bloccando una richiesta formale di Google e di Facebook di autorizzazione alla posa di un cavo sottomarino di 13.000 chilometri che dovrebbe collegare la costa californiana (Silicon Valley, non per caso) con Hong Kong (neanche qui c’entra il caso). Prima di capire perché il Governo di Donald Trump oppone il diniego a un tale progetto — cosa che farò tra poco — bisogna descrivere in cosa consiste.
Si chiama “Faster”, che in inglese vuol dire, significativamente, “Più veloce”. Comporta investimenti iniziali enormi, con l’asticella iniziale a 300 milioni di dollari. Dentro quel cavo ci sarà una inedita quantità di fibre ottiche di nuovo tipo, ad altissima capacità. Potrà mettere in contatto tra loro più di un miliardo di “devices” del tipo Android facendo viaggiare l’informazione a 60 terabytes al secondo. Che è all’incirca dieci milioni di volte più veloce dell’esistente cavo, che vale probabilmente milioni di dollari al centimetro.
Il responsabile per le infrastrutture di Google, Urs Holzle, ricorda a quelli che non lo sanno, che siamo già entrati nell’era degli “zettabyte”, un multiplo che — a tutti noi, appendici mobili dei cellulari — suona come “un miliardo di megabytes al secondo”. “Faster” sarà il condotto ad alta pressione in cui far volare questo mare di informazioni. Così funziona la nuova corsa all’oro del XXI secolo. L’informazione è immateriale per definizione, ma la gestione di queste infrastrutture, la loro proprietà comporterà una filiera di conseguenze planetarie. E porterà con sé il controllo, la vendita, la distribuzione di dati che, in pratica, riguarderanno ogni “oggetto” dell’agire umano, individuale e collettivo. Anzi ogni essere umano, che diventerà a sua volta, un insieme di bytes. Inclusi i suoi pensieri e desideri. Infatti c’è una sola parola che funge da denominatore comune di tutto ciò: controllo.
Adesso possiamo cominciare a vedere perché il governo americano non concederà l’autorizzazione. Ovvero la concederà solo se sarà costretto a farlo. E sto parlando dell’America. Figuratevi il Montenegro, o anche l’Italia! Il fatto è che, ora come ora, tutto quello che c’è è di proprietà e sotto il controllo del governo degli Stati Uniti d’America. Ma — qualcuno potrebbe pensare — qual è il problema? Sempre America è; sempre mercato è. E sbaglierebbe di grosso se lo facesse. Perché Google e Facebook non sono soltanto delle imprese private. In primo luogo sono così giganteschi che possono ormai competere con quasi tutti gli Stati del mondo e batterli, ricattarli, sottometterli. No, c’è molto di più. Google a Facebook sono tra gli attori principali e, come tali, prendono decisioni politiche. Anzi dirigono l’orchestra, quando possono. E cominciano a poterlo fare. E, quando a loro serve, si organizzano per costituire delle coalizioni, dei partners, in modo tale da mettere con le spalle al muro — eventualmente davanti al plotone di esecuzione — chiunque cerchi di fermarli.
Ecco perché Trump si oppone. Un Internet concorrente di queste dimensioni, che “ragiona” non come America, ma come entità sovranazionale, cioè che fa anche una propria politica estera, diventa molto pericoloso. Tanto più, come vedremo subito, quando sceglie come alleati i nemici di Trump, e quando mette tra i suoi obiettivi quello di sostituire la politica estera degli Stati Uniti con un’altra, i cui contorni si decideranno magari a Londra, se non a Hong Kong o addirittura a Pechino.
Infatti Google e Facebook hanno impegnato nell’impresa, fin dal 2017, cinque o sei alleati asiatici, in maggioranza giapponesi, ma anche cinesi. C’è per esempio la Telecom&Media Group Co, del signor Peng. La quale ultima collabora molto attivamente con i colossi di Silicon Valley, da un lato, e dall’altro con la cinese Huawei, bersaglio principale di Trump, con il suo dinamismo verso il 5G. Il progetto “Faster” era già stato bloccato nel 2017, all’inizio della presidenza Trump. Dopo allora le cose si sono complicate a dismisura. Trump ha scatenato la guerra delle tariffe con Pechino, che è in corso e si sta aggravando, con pesanti ripercussioni planetarie. Lo scontro con Huawei, partito in contrappeso all’iniziativa cinese sul 5G e al gigantesco progetto di Pechino “One Belt One Road”, altrimenti detto la “Nuova Via della Seta”; la vera e propria sommossa di massa che ha investito Hong Kong (dove l’odore di rivoluzione colorata è sempre più percepibile): sono tutti fattori di perturbazione lontani da ogni soluzione.
C’è un nesso tra tutti questi fattori? Basta alzare un pochino il tappeto per vederne alcuni in mezzo alla polvere. Google e Facebook mostrano di voler usare la loro forza per bypassare lo Stato, dotandosi di mezzi tecnologici propri, cioè privati, e puntando a creare un’alternativa all’Internet di cui siamo tutti consumatori. Il che significa una modificazione cruciale dei rapporti di forza all’interno degli stessi Stati Uniti. Non è un mistero che l’attuale Internet nacque da un patto segreto tra le corporation dell’epoca, come la telefonica AT&T, la Hewlett Packard, la Microsoft, che composero la Rete come un Lego, fatto di sistemi di sicurezza che ne garantirono il pieno controllo da parte dello Stato americano.
Né è più un segreto — specie dopo avere visto il film Snowden di Oliver Stone — che il Deep Web e il Dark Web sono anch’essi sotto il pieno controllo. E che, in generale, a nessuno degli utilizzatori della Rete sono garantiti né identità, né anonimato, né sicurezza. Al momento attuale la Rete è fondata su una miriade di codici proprietari, di interfacce mutevoli, di artifici di ogni tipo fatti apposta per impedire ai concorrenti di “entrare” là dove non devono e, nello stesso tempo, costringendo tutti a pagare ogni tipo di servizi. Detto in altri termini significa potere di controllo politico e potere di accumulazione finanziaria, entrambi praticamente sconfinati.
I milioni di zettabyte sono armi di ricatto, il controllo sulle vie di trasmissione sarà decisivo. Tutti i movimenti finanziari (cosa per altro già in atto) saranno monitorati al millesimo di secondo. Ma, con l’avvento del 5G e il passaggio generalizzato all’”Internet delle cose”, si aprirà la rivoluzione di tutti i tradizionali sistemi d’arma, terrestri, navali, spaziali. Tre campi, quello militare, quello dei meta-data, quello delle nuove infrastrutture necessarie per i miliardi di antenne da piazzare in ogni dove, in ciascuno dei quali si accumuleranno decine di trilioni di dollari d’investimenti.
Siamo di fronte a un rimescolamento delle élite mondiali, di quelli che Paul Krugman chiamò, qualche anno fa, i “padroni universali”. Anche qui, sollevando il tappeto, si può vedere qualche cosa. Silicon Valley, i grandi media americani e occidentali, Google, Facebook, Yahoo, erano e sono alleati del Partito Democratico. Come non notare che il governatore della Banca Centrale d’Inghilterra, Mark Carney, in prossima uscita dall’incarico, è andato a fine agosto al Symposium del banchieri centrali, a Jackson Hole, nel Wyoming, a proporre — molto applaudito — la creazione di una “moneta sintetica egemonica” (Synthetic Hegemonic Currency, SHC), destinata a ridurre il peso del dollaro, ormai “non più in grado” di favorire il mercato globale e, anzi, causa della sua “paralisi”?
Una nuova moneta mondiale — ha precisato Carney — in cui il Renminbi di Pechino dovrà giocare un ruolo centrale. È una proposta alla Cina, palesemente. E Carney non è solo il governatore della banca d’Inghilterra. È anche una pedina, vicinissima ai Rothschild, essendo uno degli sponsor della “Coalizione per un capitalismo inclusivo”, di cui è presidente e co-fondatrice, Lady Lynn Forester de Rothschild, amica e sodale tanto di Bill e Hillary Clinton quanto del suicidato Jeffrey Epstein, insieme alla sovrana (in senso letterale) compagnia del principe Carlo d’Inghilterra, del Duca di York, Andrew e all’altrettanto augusta compagnia dei più importanti CEO delle big corporations mondiali (in compagnia di Christine Lagarde: Unilever, Dow Chemical, McKinsey, UBS, GlaxoSmithKline, Alcatel-Lucent, Google, Gic Global Investment, Honeywell etc).
Da non dimenticare, tra l’altro, che Carney non mancò di fare riferimento alla “Libra”, la nuova moneta virtuale progettata da Facebook per investire — migliore caratterizzazione di questa non si trova — sui due miliardi e mezzo dei suoi utilizzatori. Nome splendido, che ricorda la leggerezza di una farfalla e che accenna alla famosa libertà del Mercato. Certo, disse Carney, sarebbe preferibile che una tale moneta fosse ancorata a tutte le Banche Centrali. Magari, aggiungo io, potrebbe essere questo il nome della SHC?
Da tutto questo emerge con assoluta chiarezza la spiegazione dell’ostilità di Trump. Quello qui indicato è infatti l’esercito dei veri globalizzatori, cioè dei suoi nemici. Quelli che adesso parlano di “capitalismo inclusivo”; quelli che possono fare a meno degli Stati perché non ce ne sarà più bisogno; quelli che pensano di sostituire gli Stati e di usare direttamente i loro eserciti, i loro servizi segreti. Si tratta di vedere quanto contano i trilioni di Rothschild, il peso di Israele, gli amici di Wall Street e della City of London, per far traballare Donald Trump. Cosa pensano di proporre a Xi Jinping e a Putin non è ancora chiaro. La battaglia si annuncia strategica. L’Europa di Aquisgrana ancora non ha deciso da che parte stare. Si vede solo che tifa per loro.