L’appuntamento è fissato per le due e mezza.
Di norma starei giocando una belote al bar, oppure sarei con Denise nel dehor di Giuseppe, alla Marina San Giuseppe.
Seduto sugli scalini del portone fisso il telefono. Sono solo le due e un quarto e l’ansia è al culmine.
Non sento Carlo da più di sei mesi e pare che finalmente qualcosa si stia muovendo.
L’ispirazione si degna e scrivo sul blocco note dello smartphone i primi due versi di Qui sono i figli miei e non moriranno. Approfitto dei minuti che mi separano da Carlo per rileggere altri due componimenti ma, dal momento che mi so alterato, evito di limare.
Sono ancora seduto sugli scalini di marmo con la testa china sul telefono, come un’adolescente immersa in una sessione di pettegolezzi con le amiche, quando finalmente squilla.
La voce di Carlo è una liberazione.
Insegna linguistica all’Università di Utrecht, dove è in procinto di concludere il dottorato. Siamo amici dai tempi del ginnasio, eravamo membri dello stesso folto numero di teppisti che trascorreva le serate su un’altalena in corsa fra il confronto intellettuale e gli atti vandalici.
Entrambi abbiamo proseguito gli studi a Genova e non ci siamo mai persi di vista del tutto. Carlo è un bell’uomo, a Genova i nuovi amici lo avevano soprannominato il Principe. Capace d’una comicità surreale e grottesca espansa oltre il limite dell’ilarità. Come un grande trasformista mutava se stesso, svariate volte in pochi minuti, da raffinato intellettuale e casanova, in macchietta.
Dopo essersi laureato in lettere e aver proseguito la carriera in veste di ricercatore alla cattolica di Milano, è infine approdato alla prestigiosa accademia olandese.
La sua attività letteraria è avvolta nel mistero. Ai tempi di Genova soleva pensare alle proprie vicissitudini in terza persona, l’attività cerebrale costantemente immersa nella narrazione di ciò che accadeva. Era interessato esclusivamente alla letteratura e sognava di vivere di narrazioni. Oggi non ho la minima idea di cosa abbia prodotto. La sua riservatezza sull’argomento è monolitica. Sempre ben disposto nell’accogliere i miei lavori per una valutazione, non ricordo mi abbia mai parlato dei suoi progetti artistici.
Approfittiamo del momento per spendere mezz’ora nei reciproci aggiornamenti sugli ultimi mesi, ritroviamo subito il piacere di ridere insieme e gonfiare aneddoti e fatti trascinandoli al limitare della verosimiglianza, dove li lasciamo sospesi in bilico. Carlo ha ottime notizie, esattamente quelle che speravo di sentire. Il suo contatto appartenente al comitato redazionale di Bollettino 900, Monica Jansen, gli ha confermato la volontà di pubblicare un articolo sul mio lavoro poetico. Alcuni cambiamenti nel direttivo e la malattia di uno dei redattori, uniti alle difficoltà dovute alla natura internazionale del comitato, porteranno un ritardo, ma si spera che in breve tempo vengano pubblicati il nuovo sito della rivista e con esso il nuovo numero.
Carlo risponde a una domanda che giace sopita in qualche anfratto dell’inconscio: questa pubblicazione ti consacrerà poeta. Mentre lo dice è felice e sento quanto definitivo sia in me il bisogno di ottenere il riconoscimento del mio lavoro. Aggiunge che il quattro aprile discuterà la tesi di dottorato e dopodiché avrà molto più tempo a disposizione. È intenzionato a dedicarne parte in cerca d’un editore olandese interessato alla silloge.
Mi dice che solleciterà l’inizio del lavoro di traduzione dell’opera già concordato con la docente di letteratura italiana di Utrecht.
Continuiamo a discutere di critica e narrativa, ci trasmettiamo informazioni e spunti. Torniamo sulla poesia e gli parlo del conflitto che mi vede odiare profondamente Gabriele D’Annunzio e al tempo stesso desiderare d’aver scritto La pioggia nel pineto.
Si lascia andare a una sbracata citazione della parodia di Renato Pozzetto, idrante in mano, in È arrivato mio fratello.
Mi racconta di come spesso immagini di annaffiare i suoi colleghi di ricerca mercatari declamando:
Piove. Piove sui vostri cervelli da somari.
Piove su voi scolari impudenti. Piove su voi deficienti,
sulle vostre teste da mulo, sulle vostre facce da culo, piove sui mascalzoni.
Quando finalmente riusciamo a smettere di ridere accade l’epifania: non è una questione di fama, non potrà mai rappresentare un’ambizione al benessere materiale, non si tratta d’autocompiacimento.
Non si è mai trattato d’altro che di celebrazione religiosa.
Scrivere è il rito dell’attimo attraverso il quale l’uomo, stretto nell’abbraccio dell’universo, congiunge le proprie radici alla gratitudine della posterità.