Il paesaggio innevato, bianco latte, s’apre al di là di una parete immaginaria, sorprendendo lo spettatore, che si ferma, allunga la mano, s’addentra con gli occhi in quel bianco, barcollando, perdendo l’orientamento, con la vista che gli s’acceca, trovando quindi conforto in tre scritte al neon – Amherst/Ether/Fields – titolo della personale di Matthias Bitzer da Francesca Minini, a Milano.

Amherst, nel Massachusetts, città natale della poetessa americana Emily Dickinson. Ether, l’etere, la divinità greca del cielo superiore e più puro e della luminosità del giorno, la vastità del cielo senza nuvole, la quintessenza. Fields, il paesaggio che s’estende fino all’orizzonte e che Emily amava osservare dalla finestra della sua stanza della Homestead, la grande casa in stile federale fatta costruire dal nonno paterno Samuel Fowler Dickinson ai primi dell’Ottocento e dove di ritorno nel 1855 con la sorella Lavinia da Washington, dove il padre Edward era deputato al Congresso, si sarebbe rinchiusa a vita scrivendo lettere e poesie raccolte in fascicoletti fatti di tanti foglietti ripiegati cuciti con ago e filo e scoperti dopo la sua morte, nel 1886, dalla sorella.

La stanza di Emily, con i fiori e i ritratti di famiglia, suo rifugio dal mondo popolato dalla fantasia. Un corpo costretto in uno spazio con la mente libera di volare e vagare, “my mind is moving but my body lies still”, la mia mente si muove, ma il mio corpo sta fermo. Dalla sua stanza della bella casa di Amherst Emily osservò i paesaggi per anni e ogni volta le apparivano diversi. Una stanza ricreata da Bitzer in una stanza buia della galleria con una parete immaginaria e che invece si spalanca richiamando i paesaggi innevati, la magia del whiteout con i confini che scompaiono, i contorni del cielo e della terra che vibrano, lo spazio che s’allarga distendendosi davanti agli occhi. Uno spazio apparentemente sempre uguale ma che ogni volta sembra mutare.

“Matthias, che mi dice della sua passione per le donne del passato?”. Glielo chiediamo dopo aver visto anche il ritratto di Cleopatra: “Emily Dickinson era l’idea di lei che non lascia mai la casa osservando i paesaggi dalla finestra. Non lasciò mai la sua casa, scrivendo migliaia di poesie e continuando a guardare i paesaggi. Ero affascinato dall’idea che si possa guardare qualcosa che si conosce e vederla ogni volta come nuova, come se la si vedesse per la prima volta”. Uno stratagemma realizzato grazie al paesaggio bianco e innevato della stanza buia: “È su un paesaggio senza una soluzione di spazio, il ritratto dello spazio che scompare. È il whiteout, un paesaggio che popoli come nuovo. Tu immagini uno spazio, popolandolo come nuovo”.

La stanza buia è una finestra sui paesaggi di Emily, sui paesaggi innevati del Massachusetts dove l’orizzonte si confonde con il grigio del cielo. Come il paesaggio di uno dei quadri di Phosphor Notes (Hypomnema) nella saletta della galleria e del grande collage nella piccola stanza con il ritratto di Cleopatra: “Ho viaggiato fino ad Amherst, dove ha vissuto Emily Dickinson, scattando un migliaio di fotografie. Tutte le fotografie che si vedono in questo collage sono state ritagliate e riordinate realizzando attraverso l’idea del paesaggio un ritratto della memoria”. Sul vetro c’è un anagramma, “ma non dico di cosa”, dice Bitzer sorridendo.

L’anagramma ritorna spesso nelle sue opere, in particolare nei collage, senza che l’artista ti dica mai cosa c’è scritto, per lo spettatore un invito alla riflessione. Come l’anagramma del collage di Leimakides (my mind is moving but my body lies still), collocato nella sala centrale come installazione di cinque elementi realizzati con tecniche diverse, acrilico e inchiostro su tela, vetro, legno, acrilico su vetro, tubi al neon, carta. È l’opera con Emily ritratta di profilo nel suo tradizionale abito bianco mentre osserva il mondo dalla finestra. È l’opera del collage caleidoscopico con l’anagramma e del pannello con anelli di fumo bianco su sfondo nero, ectoplasmi realizzati con fili verniciati passati su vetro e che rimandano al senso dell’astratto, dell’etereo, dell’effimero. È l’opera della tela con spettro in scala di grigi e del neon di macchie colorate, il lightbox riproposto a grandi dimensioni sul muro esterno dello spazio che ospita la galleria.

Il senso dell’astratto, dell’etereo, dell’effimero si ritrova anche in un quadro di Phosphor Notes (Hypomnema) con la pagina di un libro coperta da pennellate bianche e con le sole parole which arises from the vague abstract mental suspicion, quindi nelle scritte al neon nothingness, Echo, Reflection, palimpsest dei tubi neri di Time itself comes in drops.

È il viaggio interiore di Emily Dickinson ad affascinare questo giovane artista tedesco, Kunstpreis der Stadt Nordhorn 2007 e Otto Dix Preis 2010, nato nel 1975 a Stoccarda, studi alla Staatliche Akademie der Bildenden Künste di Karlsruhe, che oggi vive e lavora a Berlino e che ha già al suo attivo personali a Parigi, Milano, Bruxelles, Karlsruhe, Hannover, Nordhorn, Francoforte sul Meno, Colonia, Pforzheim, Berlino, Düsseldorf e collettive a Maiorca, Berlino, Parigi, Düsseldorf, Mülheim an der Ruhr, Gera, Verona, New York, Herford, Chicago, Bruxelles, Vienna, Krems, Londra, Charmande, Pforzheim, Karlsruhe.

A Milano da Francesca Minini è ora per la terza volta, dopo Between two oceans del 2008 sull’incontro immaginario fra Emmy Ball-Hennings, poetessa, attrice, musa, co-fondatrice del Cabaret Voltaire, culla del dada zurighese, e lo scrittore e uomo di mare Joseph Conrad con la sua esperienza in mare come “metafora esistenziale” dell’uomo di fronte all’ignoto, e La Maison Automatique del 2010 dedicata a Fernando Pessoa, l’originale poeta portoghese degli eteronimi – Alberto Cairo, Álvaro de Campos, Ricardo Reis – tre personalità ognuna con un suo stile e un suo vissuto.

Mondi frammentari, poliedrici, di possibili sguardi, di identità modellantesi con uno “slittamento continuo tra realtà e finzione”, cui Bitzer, nella personale del 2008, ha dato “traduzione visiva” intervenendo nello spazio espositivo con quadri, sculture, walldrawing “strettamente correlati” e concepiti come un “corpus autonomo” in cui “tradurre simbolicamente la realtà cercando di rendere visibile ciò che non lo è” attraverso la commistione di materiali eterogenei come fil di ferro, stoffa, plastica, vetro, con una “riflessione sull’uomo” concepita come una riflessione sull’arte “luogo di fusione” e di “eterogeneità” tale da suscitare “meraviglia”: un inno all’estetica della contaminazione.

Amherst/Ether/Fields è anche il titolo di un’opera in tre blocchi, come tre sono le parole del titolo e che “idealmente potrebbero contenerle”, con cui Bitzer riflette sul concetto di spazio con la “parola che diventa oggetto e che viene definita attraverso lo spazio fisico che occupa”. C’è nell’opera una “tensione ideale tra lo spazio che racchiude le parole”, ma che in realtà “evocano paesaggi infiniti, orizzonti e luoghi della mente che non hanno confini”.

La riflessione sullo spazio si ritrova anche in alcuni versi su un grande pannello all’ingresso della galleria con un reticolato che ricorda quello dei portolani medievali, omaggio alla geometria. Versi sullo spazio e la visione che l’artista immagina come una sfera, chiedendo di aumentarne gli orizzonti, diminuirne esattezza, spostarne poli e confini, evocarne i fantasmi, immaginandone la pelle, l’involucro, come nuovo, quasi si trattasse di noi: “dwell into vision. inhabit a space. imagine it as a sphere. augument its horizons. diminish its truth. shift its boundaries. shift its poles. conjure its ghosts. imagine its skin. imagine it new. imagine it being you”.

“Ami la scienza del Rinascimento, Matthias?”, gli chiediamo indicando la grande sfera colorata di Immost Iconoclasm in legno e metallo e pittura a spray che s’apre, nella sala centrale, liberandosi tutt’intorno: “Sì, certo”, ci dice sorridendo, colto di sorpresa. C’è la grande sfera e, poco più in là, la scultura ad anello con lacca su metallo di Nymph/Noir/Nothingness.

La geometria ritorna nei ritratti femminili, in quello di Cleopatra, di Phosphor Notes (Hypomnema), di Emily, ricordo del dagherrotipo del 1847. E in uno, così come i due su Emily collocato nella sala centrale, frammentato da geometrie che “restituiscono l’idea di personalità complesse, multiple e sfaccettate”, con un disegno che “gioca con la terza dimensione attraverso il vetro nero che riflette il volto e lo spazio circostante”.

Nelle tele di Bitzer il sovrapporsi di griglie geometriche ai ritratti crea un contrasto fra l’emotività dei volti e la “fredda razionalità del pattern geometrico” concepito come strumento di frammentazione dell’elemento figurativo. Le griglie sul volto di Emily, di Cleopatra, di donne misteriose. “Chi è quella donna, Matthias?”, gli chiediamo facendo segno verso un grande ritratto nella saletta della galleria: “È un’invenzione, un ritratto immaginario, non ci sono sue fotografie, ho tentato di descriverla. Era una grande amica di Emily, una che avrebbe raccolto tutte le sue poesie in un libro”.

E c’è sotto il volto immaginario di geometrie sovrapposte della donna di Collector of leaves, e di cui Bitzer non fa il nome, Susan Huntington Gilbert, figlia minore di Thomas, un proprietario di locande ad Amherst, Deerfield, Greenfield, e Harriet Arms. Orfana di madre, cresciuta da una zia a Geneva, New York, studi alla Utica Female Academy, per poi trasferirsi ad Amherst con la sorella maggiore Harriet, che aveva sposato William Cutler, e dove incontrerà Emily, di cui diventerà amica intima. Insegnante di matematica alla Robert Archer’s Female School di Baltimora, sposerà Austin, fratello di Emily, con cui vivrà ad Amherst a The Evergreens, una casa che il padre di Emily aveva fatto costruire accanto alla Homestead, la grande casa di famiglia.

Quando Emily morì, la sorella Lavinia trovò i manoscritti con i suoi versi, rivolgendosi, perché venissero pubblicati, a Susan, quindi, definitivamente, a Mabel Loomis Odd, figlia di Eben Jenks e Mary Wilder Loomis, nonché amante di Austin, fratello delle sorelle Dickinson. Il libro uscì nel 1890, mentre tutte le altre poesie furono ritrovate dalla nipote Martha, figlia di Susan, dopo la morte della madre, cui Emily le aveva affidate in custodia.

La donna del ritratto immaginario è pertanto Susan Huntington Gilbert, di cui eppure esiste un ritratto – oggi alla Houghton Library di Harvard - e che curiosamente somiglia al ritratto di Emily giovane della sala centrale più che alla donna misteriosa raffigurata da Bitzer. La storia di Susan intrecciata alla storia di Mabel sotto un volto immaginario. L’arte tutta di Bitzer di giocare con la fantasia. Con delizia.

Galleria Francesca Minini
Via Massimiano, 25
Milano 20134 Italia
Tel. +39 02 26924671
info@francescaminini.it
www.francescaminini.it

Orari di apertura
Martedì - Sabato
Dalle 11.00 alle 19.30

Immagini di Stefania Elena Carnemolla:

  1. Matthias Bitzer, Immost Iconoclasm, 2013. Metal, wood, spray paint. Courtesy Francesca Minini
  2. Matthias Bitzer, Untitled, 2013. Pencil and pencil on paper, wood, glass
  3. Matthias Bitzer, Collector of leaves, 2013. Acrylic and ink on canvas
  4. Matthias Bitzer, Leimakides (my mind is moving but my body lies still), ritratto di Emily Dickinson, 2013. Acrylic and ink on canvas
  5. Matthias Bitzer, EMILY, 2013. Acrylic and ink on canvas
  6. Matthias Bitzer, Phosphor Notes Hypomnema, particolare, 2013