Scorrere la storia di Civitanova Danza, festival nato nel 1994, dapprima solo estivo poi, secondo il progetto dell’attuale e sagace direttore artistico, Gilberto Santini, spalmato su quasi tutti i mesi dell’anno (Civitanova Danza tutto l’anno), significa rileggere parte della nostra vicenda di spettatori di danza. Ciò che è passato dai bei teatri messi a disposizione dalla Città alta (il prezioso Annibal Caro) dal suo centro (l’ampio “Rossini”) o dal suo lungomare (il più piccolo Enrico Cecchetti), ma anche dalle varie Arene en plein air, utilizzate soprattutto nei primi anni della rassegna e nei mesi caldi, è la sintesi - o tanto spesso la spremitura migliore e anticipata - di tendenze artistiche dominanti, con i nomi di punta nel paesaggio internazionale e nazionale che il tempo ha confermato, ridimensionato o addirittura fatto sparire.
È certo che la lunga storia d’amore tra l’accogliente cittadina marchigiana e l’arte di Tersicore sia scaturita dall’iniziale, entusiastica, scoperta del legame con Enrico Cecchetti. Ballerino soprannominato “ciclone”, soprattutto illustre maître de ballet, didatta e teorico, Cecchetti aveva origini marchigiane. Per quanto nato per caso in un camerino del Teatro Apollo di Roma, il 21 giugno 1850, e in teatro destinato anche a morire - fu colto da malore durante una lezione di ballo al Teatro alla Scala e spirò durante il trasporto a casa, il 21 novembre 1928 - faceva spesso ritorno a Civitanova Marche, nella casa dei suoi genitori, fratelli e parenti: tutti ballerini. Specialmente durante la stagione estiva, lasciava San Pietroburgo, Parigi o, Milano, e le svariate sedi o tappe del suo magistero didattico per ritrovare un po’ di pace. Il suo metodo d’insegnamento, tutto brillantezza, vigore, salti e pirouettes vorticose, tanto riconosciuto e adottato nel mondo - in specie dalle varie società coreutiche che portano tuttora il suo nome -, fu elargito, all’epoca, con rigore e genialità a svariate ballerine italiane che fecero fortuna in Russia, ma anche a star come Anna Pavlova e Vaslav Nijinskij dei Teatri Imperiali di San Pietroburgo, dove rimase dal 1887 al 1910, cioè sino a quando Sergej Djagilev lo volle con sé nei suoi Ballets Russes parigini. Di ritorno al Teatro alla Scala, la sua ultima protégée fu Cia Fornaroli, futura moglie di Walter Toscanini, il figlio di Arturo, famoso direttore d’orchestra. Va anche ricordato che, nel 1872, a ventidue anni, Cecchetti-ballerino danzò con il padre e la sorella Pia all’inaugurazione del Teatro Annibal Caro di Civitanova Alta.
Proprio qui, per l’ultimo regalo della maratona inaugurale (tre spettacoli) del Festival 2019, abbiamo assistito a una pièce di Riccardo Buscarini in qualche modo, e a sorpresa, legata anche a Cecchetti. Il titolo, Suite Escape, lascia immaginare, l’idea di “una fuga”, ma da chi e verso cosa lo capiremo solo seguendo l’itinerario di famosi pas de deux, tratti dal repertorio accademico dal piacentino Buscarini (classe 1985) e chirurgicamente analizzati, non che trasfigurati, in un linguaggio originale da quest’artista nomade. Formatosi dapprima nella sua città emiliana, poi nella capitale del Regno Unito (si è diplomato nel 2009 alla London Contemporary Dance School), il trentaquatrenne coreografo è molto amato a Londra per i suoi svariati e premiati progetti di ricerca anche tra Inghilterra, Cina e Taiwan, ma pure in Austria, Croazia, Belgio, Spagna, Svezia e Russia. Qui Buscarini ha di recente ottenuto, grazie a Silk, creato per il russo Chelyabinsk Contemporary Dance Theatre di Olga Pona, una doppia nomination come “Best Production” e “Best Choreographer” del “Golden Mask ”, un premio, equivalente al nostro David di Donatello. Non sono molte le occasioni di vederlo in Italia, anche se ha vinto un premio a Padova, ha creato una pièce per il Balletto di Toscana Junior ed è passato dal Teatro Pim Off di Milano. Nella fascinosa bomboniera dell'Annibal Caro, dopo una preview a Bari, sede della pugliese Equilibrio Dinamico Dance Company con cui ha lavorato proprio per Suite Escape, Buscarini ha offerto un debutto nazionale, frutto anche di una residenza in Civitanova Casa della Danza, altra struttura messa a disposizione di artisti ospiti per ultimare o allestire le loro creazioni.
Sul racchiuso palco, decorato solo da un tappeto a forma di rombo bianco che poi diventa quadrato, quattro danzatori - due donne e due uomini - seguono la trasformazioni pianistiche del più famoso passo a due dello Schiaccianoci, del celebre adagio dal secondo atto e del seducente pas de deux del Cigno nero dal Lago dei cigni, cui viene accostato il passo a due degli Uccelli Blu della Bella addormentata nel bosco, con l’ipotetica Aurora che, nell’Adagio della Rosa, fugge dai suoi quattro pretendenti. Tutta la musica, qui, è di Pëtr I’Ilič Čajkovskij ma rivisitata da Benedetto Boccuzzi collocato, con il suo pianoforte, a ridosso della platea. L’accurato remake musicale del pianista ci fa capire come Buscarini non cerchi solo l’essenza dei celeberrimi duetti tardo-romantici prescelti, ma persegua un suo proprio disegno coreografico. Incastra i quattro corpi gli uni dentro gli altri; lascia che vengano portati in alto e poi cadano a terra; vuole che le loro mani si intreccino cercando impossibili “amori”. Eppure, gli incontri avvengono, magari in piena luce, mentre sul fondo gli altri si dibattono, nella penombra, in cerca di sostegno reciproco. Equilibrio, non equilibrio, velocità, manège femminili e quel rotolarsi a terra delle due danzatrici, che ad un tratto ci pare la fusione di cigno bianco e nero, in un unico corpo straziato, certo non più in tutù o scarpette da punta. I costumi sono casual, oppure vagamente ricercati per le danzatrici: una tuta bordeaux, un abito cremisi e due turbanti per entrambe, più un completo nero maschile senza camicia. Sono costumi odierni o quasi, ma adatti a larghe spaccate a terra e a piccole o vistose acrobazie volanti.
Ogni movimento, del resto, è lontano dal balletto classico o solo a tratti vicino, ma intenso, curato, come un ricamo fisico senza tregua, spesso aggrovigliato e in cui rigetto e attrazione giocano una parte importante nell’insieme. Molto indovinate le due digressioni. Giselle, balletto romantico (musica di Adolphe Adam, sempre rimaneggiata), passa quasi in un attimo entro una luce spettrale ed é danzato da un uomo, raggiunto dal compagno in nero e da una lei che se ne va attraversando lo spazio a grandi balzi. Don Chisciotte (musica di Ludwig Minkus) è restituito in un’ebbrezza jazzy, come si conviene alla sua natura di commedia danzata brillante, e avvampa in corse e rincorse. Nel lento camminare sulla Bella addormentata di ritorno, un passo a quattro in diagonale, uno stacco veloce ancora lungo tutto il perimetro del palco, prelude ad un inquisitorio finale. Con un assolo maschile e una luce fortissima sbattuta in faccia agli spettatori, il coreografo Buscarini sembra dire, adesso tocca a voi: pensare o ripensare a questa Suite Escape, che potrebbe essere anche tanto dolce, ma che solo a tratti è “sweet”(pronuncia onomatopeica di Suite), visto che per il resto ci parla di un’umanità faticosamente intenta a stare insieme, figuriamoci in coppia … e la fuga non è poi strategia così vincente … Coreograficamente acuto e bellissimo.
Nella precedente tappa, ancora un vago omaggio cecchettiano e molto curioso: in scena, al Teatro Rossini, c’ è la prima italiana di Voyager della Compagnia Nazionale di Danza di Malta. Il suo coreografo e direttore, l’italiano Paolo Mangiola, si è ispirato all’impresa del famosissimo astronomo e astrofisico Carl Sagan. Costui nel 1977, ebbe l’idea di inviare una capsula del tempo nello spazio per fornire dati sulla diversità di suoni, sentimenti, pensieri della Terra indirizzata ad altre forme di vita possibili. Il Voyager Golden Record, questo il nome della capsula, è un disco per grammofono registrato, placcato in oro inserito nelle due sonde spaziali del “Programma Voyager”. Lo stesso Sagan selezionò i contenuti delle registrazioni che la sonda portò con sé: una varietà di 115 immagini e un gran numero di suoni naturali: onde, vento, tuoni e suoni prodotti da animali, come il canto degli uccelli e quello delle balene. Con questi venne inserita una selezione musicale proveniente da diverse culture ed epoche: dall'accadico, parlato dagli Assiri circa 5.000 anni fa, sino al dialetto Wu attualmente adottata in Cina.
L’esito nella missione Voyager è tuttora ignota, e chissà mai se entrerà in contatto con nostri possibili e alieni coabitanti nell’universo. Tuttavia il coreografo Mangiola, bambino all’epoca dell’esplorazione nello spazio, ha continuato a coltivare il sogno di comunicare la storia del nostro mondo ad altre forme di vita extra-terrestri. Così ha creato un balletto astratto, non lontano a tratti dalla danse d’école, in cui i nove, bravi interpreti maltesi ma non solo, s’immergono in un habitat molto raffinato: subito arancione come gli slip dei danzatori, in continua dinamica contro un fondale solcato da strisce di colore cangianti. Insiemi si alternano ad assoli; le braccia di tutti sono spesso gettate in aria, e in alto volano anche le ballerine; la danza è avvolta da suoni vari, di natura e non, come i rumori di strada, ma c’è anche vento, e quelle lingue tanto diverse introdotte nel suo Voyager Golden Record da Sagan. La bontà della coreografia, non del tutto stupefacente come la sua fonte ispiratrice, si deve al curriculum di tutto rispetto del suo autore. Nei primi anni Duemila, Mangiola danzò per alcune delle maggiori compagnie nazionali e internazionali (Aterballetto, Tanztheater Nürnberg e WM|Random Dance), fu molto influenzato dalla danza molleggiata ma con vette virtuosistiche di Wayne McGregor e l’influenza è palpabile ancora in Voyager. Non stupisce che abbia avuto fortuna a Londra (Royal Ballet e The Place) ma anche in Germania e Norvegia e, tra l’altro, all’Università di Malta, buon lasciapassare per divenire, nel 2017, a soli 38 anni, il direttore della ŻfinMalta Dance Ensemble, appunto la Compagnia nazionale Maltese di danza contemporanea. Bella dunque l’idea di questo Voyager, e la sua elegante impaginazione, che ad un certo punto lascia calare dall’alto un enorme microfono dorato - il Voyager Golden Record trasfigurato - e poi lo fa sparire, mentre, nel finale i danzatori in slip rossi sono trascinati via dal vento, tra fumi e nebbia.
Last, but not least, la pièce Ball di Guilherme Miotto, brasiliano di base in Olanda, e già vincitore di diversi premi nonostante abbia debuttato come coreografo solo nel 2010, qui delega il suo lavoro, o meglio lo spartisce con l’ammiccante performer più che danzatore Nasser El Jackson. Amante del calcio sino a farne una forma di acrobatica dipendenza, Nasser stupì Miotto, come “mago del calcio su strada” e per lui creò questo pezzo solistico, molto elaborato. In effetti Ball non somiglia a un vero assolo bensì a un terzetto, con Nasser, molto sexy, ma anche la sua palla e lo spazio che usa con disinvoltura e senza banalità, quasi su silenzio, rotto dal suono spesso volutamente impercettibile di Joel Ryal. Per quanto strano possa sembrare anche con questo “aperitivo” sportivo (allestito all'Enrico Cecchetti) non siamo del tutto lontani dal focus di un festival che quest’anno, con decisone controcorrente quanto opportuna, ha puntato proprio sul pensiero coreografico, anche in lavori performativi. Così tra gli altri eventi del festival, giunto alla sua XXVI edizione, troviamo Io, Don Chisciotte di Fabrizio Monteverde, noto coreografo free lance che ha creato per il Balletto di Roma la sua versione sintetizzata del capolavoro di Cervantes, ma anche Sergei Polunin. Con Sacré, composto da Fraudulent Smile di Ross Freddy Ray e da una Sagra della primavera, su musica di Igor’Stravinskij, danzata dal solo Polunin per la coreografia di Yuka Oishi, il divo già ospite di Civitanova Danza nel 2008, vorrebbe narrare la tragica figura del leggendario ballerino Vaslav Nijinskij. Ma forse non è così: il tutto è confuso e di una debolezza patente, ma invisibile ai fan. Potere dei media.
Certo l’ucraino Polunin, ottima tecnica accademica, già Principal Dancer al Royal Ballet a 19 anni, e una vita travagliata, raccontata in Dancer, film-documentario, è soprattutto un fenomeno sociale. Muove le masse sin da quando ebbe il guizzo di interpretare nel 2015, quasi nudo, anzi tatuato, la canzone Take Me to The Church, di Hozier per un video realizzato dall’artista visivo Davide Lachapelle con la coreografia di Jade Hale-Christofi. Ventisette milioni di visualizzazioni! Un record a cui preferiamo la complessità meno vistosa di Metamorphosis di Virgilio Sieni e della sua compagnia, di cui scriveremo da Tanz Bozen.
Intanto Civitanova Danza 2019 prosegue sino al 10 agosto con un campus didattico guidato da illustri insegnati provenienti dal Balletto del Teatro alla Scala, dal Balletto dell’Opéra di Parigi, dal Ballet Preljocaj e con Fabrizio Monteverde. Le classi sono da anni frequentatissime per il progetto denominato Civitanova Danza per Domani, e sono fucina di nuove leve dell’arte di Tersicore accademica ma anche moderno-contemporanea. Lunga vita, dunque, a questo festival tornato in qualche modo “cecchettiano”… e alle sue molteplici attività, rette da Amat, un circuito spettacolare per tutte le stagioni.