... Trascorremmo la sera a guardare le riproduzioni degli antichi documenti relativi al convento. Rebeccah mi mostrò le immagini dei codici di Leonardo: non c'erano dubbi, gli appunti del maestro si riferivano proprio al nostro posto e il nome di Runo era riportato in calce più volte.
E i disegni, spesso abbozzati com'era nel suo stile, erano ancora più sorprendenti: uno riproduceva una scala elicoidale, altri riguardavano pozzi e condutture idrauliche. Tutto questo lasciava supporre che Runo fosse conosciuto da tempo come luogo di acque e nello specifico di acque particolari, probabilmente curative od energetiche.
Non sarebbe stata una novità scoprire che il monastero fosse stato costruito lì essenzialmente per questo motivo. Rapiti da mille congetture e inebriati dal vino di Dominique (che nel frattempo aveva stappato uno straordinario Château Cheval Blanc del 2010) ci eravamo abbandonati a un piacevole stato di ebbrezza, vagando qua e là per i locali del monastero, certi di poter trovare il passaggio nascosto e giungere alle cantine. Verso le tre del mattino però Dominique era crollato e dopo averci salutati, barcollante, si era congedato lasciandoci soli. Rebeccah allora aveva tirato fuori dalla sua sacca un curioso attrezzo di legno, un ramo biforcuto. In silenzio, era ritornata in alcune zone del convento già esplorate mentre io, incuriosito, l'avevo seguita.
La sentivo mentre ogni tanto si lasciava sfuggire un “Very interesting” oppure “Good” o “Here we are!”. A un certo punto le chiesi cosa stesse facendo e lei mi rispose “Cerco la presenza di sorgenti sotterranee ma voglio anche capire se ci sono spazi vuoti sotto il pavimento. Uso la bacchetta di salice da rabdomante, un attrezzo di uso comune tra le genti Comanche e Apache. Ho imparato a usarla dai nativi del Texas”. “Ma... hai trovato qualcosa?” chiesi affascinato. “Qui sotto c’è tantissima acqua e… anche le cantine che hai sognato!” rispose. “Hai avuto una grande intuizione, sai? Ti capita spesso di avere queste premonizioni? Non è da tutti! Dovresti approfondire queste tue facoltà” aggiunse. E subito dopo fece dei segni con un gessetto sul pavimento”. Quello che ancora non riesco a trovare è il punto di accesso. Ma ci arriverò. Al limite chiederemo a Dominique di fare uno scavo esplorativo... Che dici? Ci beviamo un the?"
Tornammo in cucina. Era l’ora blu, il momento che precede l’alba. Aprii la finestra e udii il frastuono degli uccelli proveniente dal bosco. Mi voltai e vidi Rebeccah che stava mettendo l’acqua sul fuoco. Adocchiato un invitante divanetto con cuscini colorati, sentii la necessità di sedermi. Prima che mi rendessi conto mi appoggiai allo schienale e in un attimo crollai addormentato.
Quando mi svegliai, ma quanto avevo dormito? Vidi accanto a me Rebeccah che indossava un paio di occhiali dalla montatura leggera ed era tutta intenta a leggere.
Si voltò e mi disse sorridendo: “Buongiorno! Hai riposato bene? Ti sei proprio rilassato, dormivi così profondamente, proprio come un bambino. Ora sono circa le otto. Ho fatto dell'altro the, ne vuoi? E poi... vuoi venire con me a fare un tuffetto nel lago?” Colpito da tanta spontaneità mi avvicinai al viso di Rebeccah e senza ritegno le sfiorai la bocca con un bacio sussurrandole: "Great idea!"
La vita è cosi, pensavo dentro di me mentre percorrevamo in auto la strada tortuosa che porta giù al lago: ieri non avrei osato immaginare di poter stare solo con Rebeccah e ora eccomi qui. E tra poco saremo un uomo e una donna, soli, che nuotano nel lago. Io testardo, conosciuto da sempre per le mie ostinate resistenze di fronte agli specchi d'acqua dolce, eccomi, docile e collaborativo in ammirazione non solo del lago ma soprattutto di lei, la bella ricercatrice americana, per la cronaca anche provetta nuotatrice. Sopra le nostre teste il cielo terso di una meravigliosa giornata estiva e intorno rilievi boscosi a perdita d'occhio e alpeggi lontani a far da cornice.
“La cosa bella di nuotare nel lago non è il lago ma la vista, tutto quello che si vede intorno. Absolutely amazing!” disse Rebeccah rompendo il silenzio.
Macché, pensai, la cosa bella di essere al lago è di essere qui con te, altro che storie! Rimanemmo spiaggiati al sole così, dimenticando tutto il resto. Ogni tanto ci alzavamo e ci rinfrescavamo in acqua. Tornati a riva ci raccontavamo un po'. "Mi piace la tua tonsura sai? mi ricorda la testa di Fra’ Bartolomeo Scorione, il mio francescano preferito” mi disse Rebeccah.
“Ah, sì? E chi era costui?” chiesi divertito.
“Fu priore di una confraternita a Milano. La prima persona che diede fiducia e una commessa artistica al giovane Leonardo appena giunto in città” aggiunse appoggiando la testa sul mio petto. Ci appisolammo al suono leggero della risacca. Capitava che aprissi gli occhi e la trovassi accanto tutta seria, impegnata a leggere un libro. "Hai fame? Ho dei sandwiches con bacon e uova..." mi diceva. Dio mio, pensavo dentro di me, che gioia dei sensi mi procura questa donna! Che il Signore la benedica!
Giunse Dominique a rovinare tutto. Non vedendoci più a Runo aveva pensato bene di mettersi sulle nostre tracce e da buon segugio francese in poco tempo ci aveva raggiunti.
“Ecco il mio team di ricercatori al lavoro!” aveva esordito tradendo la sua gelosia.
“Hi, man! guarda abbiamo lavorato tutta la notte e con profitto” aveva risposto prontamente Rebeccah, aggiungendo “il nostro amico è stato determinante con le sue intuizioni oniriche” e volgendosi dalla mia parte mi aveva sorriso.
“Ah, sì? “Beh, allora sono curioso, molto curioso!” aveva aggiunto Dominique con una punta di ironia. “Quando torniamo su vi voglio far conoscere un personaggio interessante che sono sicuro potrà aiutarci: si chiama Luigi, uno degli ultimi indigeni runesi. Lui sa molte cose, è stato muratore e giardiniere e ha visitato almeno una volta tutte le case del paese. Ci aspetta per un caffè, anche oggi se vogliamo... Che dite, andiamo?”
L'estasi del mio mattino con Rebeccah finì in quell'istante. Lei stessa in un attimo aveva cambiato espressione e pareva aver indossato di colpo i panni della ricercatrice responsabile e puntigliosa. Un'ora dopo eravamo tutti e tre davanti alla casa di Luigi.
La sua abitazione era l’ultima in cima al paese. Una casa modesta, in pietra, disposta su due piani. Era appartenuta prima ai nonni, poi ai genitori e ora ci viveva lui, da solo.
Dopo aver bussato energicamente alla porta varie volte, iniziammo a chiamarlo a gran voce ma lui, un po' sordo o forse addormentato, non parve rendersi conto della nostra presenza.
Ci volle un sasso sulla persiana per smuoverlo. Alla fine apparve sul ballatoio tutto spettinato e ci disse di entrare. Poi sembrò cambiare idea, ripresentandosi sull'uscio di casa e insistendo nel volerci mostrare il ninfeo, una suggestiva cavità con sorgente posta dietro la casa. Lì aveva piazzato una statua della Madonna e alcune gabbiette piene di uccelli multicolori. Il canto di tutti quei volatili insieme alla presenza dell'acqua e alla vegetazione lussureggiante creavano un'atmosfera tropicale di grande suggestione.
“Qui vengo a riposare quando fa molto caldo. “Venite...venite” aveva poi aggiunto spostandosi a piedi fino al limite del bosco. Lì volle mostrarci un’immensa radura completamente ricoperta di tulipani coloratissimi. “Quest’anno ho esagerato, ho speso un mese di pensione tutta in bulbi. Ma ne valeva la pena” aveva aggiunto sorridendo. Ecco, questo era il Luigi.
Tornammo verso la casa. Salita una scala molto ripida ci ritrovammo in un salottino caoticamente arredato, con bottiglie di vino sparse sui ripiani e un camino mezzo spento che fumava affumicando l’aria. Luigi ci fece sedere intorno a un piccolo tavolo di castagno e siccome il caffè era finito, tirò fuori una bottiglia dicendo che un goccino di rosso male non avrebbe fatto a nessuno.
“Allora Luigi, come andiamo?” aveva esordito Dominique con tono amichevole.
“Bene! C'è sempre da fare, le galline, il bosco, l’orto. Da quando ho smesso di " fare danni" nei giardini degli altri, lavoro il doppio” disse ridendo, e fece un primo giro di vino riempiendo con cura tutti i bicchieri.
“Luigi, ma tu che sei nato qui a Runo sai dirmi se nel convento dei francescani c'erano le cantine?” aveva chiesto Dominique, rompendo gli indugi. “Mah, non so... ho curato il giardino del convento per tanti anni, le piante le conosco quasi per nome. Ma son passati tanti anni. Mi è sempre piaciuto quel posto, mio padre dopo la guerra ci lavorò a lungo. Lui è stato un grande decoratore. Io invece al massimo sapevo tirar su qualche muro. E poi far ho imparato a potare le piante, ahi quanti danni ho fatto nei giardini ... ah, ah, ah!!”
“Quindi non ti ricordi se ci fosse un passaggio, una porta per andare giù ... insomma 'sti frati dove lo tenevano il vino?” insistette Dominique.
Luigi pareva distratto. In realtà teneva d’occhio i nostri bicchieri. Appena si svuotavano li riempiva.
“Il vino sicuramente c’era” disse. “Fuori dal convento, un tempo era tutta una vigna. Però le cantine ... mah, non saprei! Forse dalla Chiesetta di San Michele, quella che sta dietro il convento si poteva andare giù... ecco, sì ... la signora Janine, quella che ha la casa attaccata alla sagrestia, ora ricordo, mi diceva che dalla sua cucina poteva arrivare al convento senza essere vista... però il passaggio a un certo punto era franato. Quante volte mi aveva chiesto di aiutarla a ripristinarlo ... mah...! potrebbe essere stata una sua fantasia, io quel passaggio nascosto non l'ho mai visto, sai che a volte le donne si inventano le cose...".
Dominique a quel punto si era girato verso di me e Rebeccah e aveva detto con un filo di voce: “Ci siamo”.
“Beviamo un altro goccetto?” aveva aggiunto puntuale Luigi. Dopo aver fatto un terzo giro con la bottiglia, si era alzato e con andatura malferma si era diretto in cucina da dove era tornato con un piatto di salamelle legate.
“Non si può bere a stomaco vuoto” aveva detto con decisione. E subito, attizzato il fuoco nel camino che pareva spento, si era messo ad armeggiare con una lastra di pietra ollare e, dopo averla appoggiata in equilibrio tra due ciocchi di legno semi bruciato, vi aveva posizionato le salamelle.
“Mio padre fu l’unico che aiutò il povero Peruggia1 quando arrivò a Dumenza con il quadro” disse improvvisamente, come attraversato da una forza misteriosa. “Per anni mi raccontò come insieme riuscirono a fregare i carabinieri che lo cercavano. Ma andavano a guardare sempre negli stessi posti, a casa del Peruggia...” e detto questo si alzò e andò a controllare le salamelle sul fuoco.
“E invece...dov'era la Gioconda?” chiese a quel punto Rebeccah, come tutti noi a conoscenza solo della versione ufficiale della storia. “Semplice! Sotto il tavolo! Ben salda con quattro chiodi!” rispose ridendo Luigi.
A quel punto, alterato dai numerosi bicchieri di vino non esitai e chiesi spudoratamente: “Sì, ma quale tavolo? Questo forse?”
“Esatto!” rispose Luigi.
“Brindiamo alla Gioconda!” propose Dominique e tutti alzarono i bicchieri ripetendo in coro “Alla Gioconda! Alla Gioconda!”
Fu allora che feci un gesto maldestro e feci cadere una forchetta per terra. C’era una tale baldoria che nessuno se ne accorse. Io d’istinto mi chinai a cercarla e dopo averla localizzata l’afferrai. Nel risalire con il busto mi volsi per caso dalla parte del tavolo e gettai come per scrupolo un’occhiata sotto il piano. Fu la visione di un secondo ... forse fu complice il troppo vino, però ricordo bene, vidi un volto di donna sorridermi allusivamente, ma non volli crederci e istintivamente volsi lo sguardo altrove. No, non poteva essere vero. Non ebbi il coraggio di guardare una seconda volta.
Dopo diversi bicchieri di vino e delle ottime salamelle, lasciammo Luigi accasciato sul divano, non senza esserci accertati prima che il camino fosse spento.
Quella visita ci aveva lasciati euforici e con nuovi indizi su cui lavorare. Tornati a casa, su un mappale settecentesco riuscimmo a individuare la forma del convento prima del suo abbandono. In effetti risultava una cappella attigua alla parete absidale della Chiesa e questa, rimaneggiata, nei secoli era stata trasformata in abitazione: la casa di Madame Janine appunto.
Stabilimmo insieme di andare a farle visita il giorno successivo.
La mattina trovai Rebeccah in cucina addormentata sulla poltrona con tre libri aperti appoggiati sui braccioli e di fronte a lei, il computer portatile acceso e un piattino con i resti di un toast imburrato. Non avevo mai visto così da vicino una vera studiosa: la sua tenacia, la sua dedizione erano incredibili.
Appena si svegliò disse: "Ho fame, ho bisogno assolutamente di una tazza di the e di altri toasts, altrimenti non connetto". Mezz'ora dopo lasciammo il convento tutti e tre e ci dirigemmo dalla signora francese.
Madame Janine non rispose subito. Dall'interno si udiva solo il miagolio di un gatto e il suono di una radio che trasmetteva canzoni francesi. Poi, all’improvviso, la porta si aprì e ci trovammo di fronte alla sua figura minuta ed elegante. Notai che le sue mani erano molto curate e così i suoi vestiti. Portava delle scarpe curiose dal tacco quadrato, rivestite di velluto rosso. Ci salutò cordialmente e ci fece subito accomodare in un salottino pieno di libri. Un pianoforte a mezza coda riempiva metà dello spazio. Nonostante fosse giorno c’erano alcune abat-jour accese. Il soffitto, a crociera, era riccamente affrescato anche se molto danneggiato. “Che cosa posso fare per voi, gentili amici?” chiese con fare gioviale col suo forte accento francese.
Risposi io: “Stiamo indagando la struttura del vecchio convento e da alcuni disegni si desume l’esistenza di cantine che però, a quanto pare, risultano inaccessibili. Lei ne ha mai sentito parlare?”
“Ah, lasciate perdere!” replicò con fare deciso Madame Janine, cogliendo tutti di sorpresa. “Il convento è stato depredato e distrutto varie volte nel corso della storia, in queste valli il concetto di pace è cosa di questo ultimo secolo. State perdendo il vostro tempo, credetemi” disse rivolgendoci un’occhiata ombrosa.
“Ma il nostro buon Luigi ci ha detto che il passaggio c’era, ed era accessibile fino a poco tempo fa” dissi io, deciso di metterla alle strette.
“Monsieur Luigi ha sempre avuto molta fantasia. Certo che il vino fa poi il resto. Ultimamente poi è diventato un lazzareno, lazzerano ... lazzarone ... ah, sì...ecco!”.
“Ma esiste o no un passaggio sotterraneo ?” intervenne Rebeccah, decisa a darmi man forte.
“Ma quale passaggio! ... non c’è nessun passaggio” rispose Madame Janine caparbiamente.
“Certo che c'è! E si accede proprio...da qui!” E detto ciò Rebeccah si alzò e cercò di aprire un piccolo portoncino seminascosto da una tenda posto proprio di fronte a noi.
“Piccola infingarda, non ti azzardare mai più a toccare quella porta!” aveva risposto Madame Janine tradendo un forte nervosismo.
“Ah! Ma allora c’è qualcosa che ci nasconde eh!?” affondò Rebeccah particolarmente sicura di sé.
“Non c’è più niente, lasciatemi stare. È crollato tutto. Anche le ultime carte sono state rubate. Maledetti!” si lasciò sfuggire l’anziana donna.
“Carte? Che tipo di carte?” chiesi io sorpreso e curioso.
“Lasciatemi stare, sono molto stanca, lasciatemi stare. Andate via!” ripeté. Sembrava che avesse perso di colpo tutta la sua cordialità iniziale.
Ci congedammo con un saluto freddo e Madame Janine, non appena usciti, non esitò a chiuderci bruscamente la porta alle spalle. Quando fummo un po' distanti dalla casa chiesi a Rebeccah: “Ma che ti è preso? Come ti è venuto in mente di sospettare di quella porta?”
“Il fiore della vita! Il fiore della vita! Non hai visto che la vecchia porta aveva una cornice in pietra scolpita e sulla trave orizzontale c’ero lo stesso simbolo che abbiamo trovato anche giù da noi? Anche sul pavimento, proprio in direzione della porta c’era una piastrella con lo stesso simbolo. È quello il segno che dobbiamo seguire. Sento che ora troveremo il passaggio. E a sentire Madame Janine, là sotto ci devono essere parecchie cose interessanti. Hai visto come era sulla difensiva? Tu che ne pensi Dominique?”
“Mah...! Non so se gioire o preoccuparmi. La reazione di Madame Janine è stata veramente significativa, oltre che inappropriata. Nessuno che io sappia sa del ritrovamento della tavola dell’Angelo, mi sono trattenuto dal divulgare la notizia anche tra colleghi, e sapete perché? Volevo evitare troppa curiosità e poter lavorare in pace. Mi sembra però di capire che qui sono in molti a conoscere cose che non sappiamo ancora, i componenti del gruppo dei picnic in primis. Ma come vi ho detto altre volte, non riesco a capire cosa” rispose Dominique.
“Questa mattina ho conosciuto il vecchio postino di Runo, ora in pensione. Volete sapere come si chiama? Leonardo. Va beh, ho pensato, pura coincidenza, non è mica vietato chiamarsi così, ci mancherebbe. Ma quel postino mi ha tenuto lì al cancello a parlare per un'ora delle sue macchine, miniature dettagliatissime delle macchine di Leonardo da Vinci che lui costruisce per hobby nel suo laboratorio. Una sua passione da sempre. Strano, no? Lo ascoltavo e non ci potevo credere. E poi c'è la panettiera, quella piccola e robusta, come si chiama ... uhm ... la Carletta ecco, sì. Beh, lei vende dei biscottini alle mandorle che chiama "i Leonardini", praticamente dei cantucci toscani. A sentire lei qui a Runo sono sempre esistiti, li facevano i frati mi ha detto una volta. Non so ragazzi, è come essere dentro un incantesimo. O qui stiamo veramente impazzendo tutti”.
“Vieni con me”. Udii una voce di donna che mi sussurrava all'orecchio e mi ci volle un attimo per capire che si trattava di Rebeccah. Era notte. Lei era lì, accanto al mio letto in piedi, tutta seria. Aveva i capelli raccolti a coda e teneva in mano una torcia elettrica che proiettava le nostre ombre ingrandite sui muri. Appoggiando l'indice sulla bocca mi fece cenno di non parlare. Ubbidii. Presi un maglione al volo e la seguii. Scendemmo in cucina e poi proseguimmo attraverso la biblioteca fino al refettorio.
Il locale, molto ampio, al buio, era spettrale. Rebeccah si fermò davanti al grande camino e proiettò un fascio di luce sul pavimento come se stesse cercando qualcosa. Poi fece un cenno con la mano e mi indicò una piastrella e fu allora che notai il simbolo del Fiore della vita inciso su di essa. Rebeccah a quel punto ci appoggiò un piede e fece pressione e con mia grande sorpresa vidi la piastrella abbassarsi di alcuni centimetri e udii uno scricchiolio sinistro. Vidi il lastrone all'interno del camino che ruotava completamente su se stesso creando una fessura sufficiente per il passaggio di una persona.
Rebeccah non attese un minuto di più e scivolò dentro invitandomi a seguirla.
Ci trovammo inizialmente in una minuscola stanza vuota con un soffitto di mattoni e una piccola porta che aprimmo senza difficoltà. Si presentò a quel punto ai nostri occhi una galleria di dimensioni così ridotte che dovemmo procedere chini. Rebeccah teneva la torcia e illuminava il cammino davanti a sé, io la seguivo a pochi centimetri di distanza. Contammo circa trenta passi e giungemmo in una sala circolare da dove era ben visibile un'apertura con una scala in pietra che si perdeva nell’oscurità. C’era un gran silenzio. Decidemmo di proseguire ma a ogni gradino lei esitava guardinga e illuminava il soffitto.
“Pipistrelli!” esclamò all'improvviso e mi mise istintivamente le mani sulla testa.
"Stiamo scendendo nelle cantine?” chiesi io. Rebeccah non mi rispose e per un attimo quasi mi mancò il respiro dalla paura. Cercai di farmi forza, non volevo assolutamente che si accorgesse dei miei tentennamenti.
“Andiamo a chiamare Dominique” dissi, pensando così, ingenuamente, di convincerla a tornare sui suoi passi.
“No, no, ormai non possiamo tornare indietro...”.
Fece appena in tempo a finire la frase che emise un urlo soffocato e la vidi scivolare in basso. La torcia sfuggita di mano rotolò giù per i gradini e dopo aver più volte lampeggiato le pareti del cunicolo, si spense lasciandoci al buio.
"Rebeccah! Rebeccah!" chiamai disperatamente nell'oscurità.
"Sono qui, tutto ok" mi rispose cercando di rassicurarmi.
Ritrovammo immediatamente la torcia e fortunatamente riuscimmo a riaccenderla. Dopo esserci confortati a vicenda ricominciammo la discesa. La scala iniziò a curvare fino a diventare spiraliforme, il cunicolo pareva sempre più stretto e scosceso. Da quel punto in avanti non contammo più i gradini, eravamo solo smaniosi di sapere dove ci avrebbe portati. Scendemmo ancora e ancora, poi i gradini, dopo l'ennesima curva, terminarono.
Ci ritrovammo in un ampio locale scavato nella roccia. L'ambiente era molto umido, il pavimento era in terra battuta. Scoprimmo ben presto che tutte le pareti intorno erano scavate, c'erano delle nicchie profonde a distanze regolari e dentro queste nicchie...” Oh, Gesù!” esclamai alla vista del primo scheletro. Rebeccah era immobile accanto a me e teneva la torcia fissa davanti a sé senza parlare. Cominciammo a intravvedere altri scheletri tutt'intorno: erano posizionati verticalmente, apparentemente appesi. Molti portavano delle vesti sbrindellate, lunghe fino alle caviglie, alcuni avevano ai piedi dei sandali.
"È il cimitero del convento” disse “che lugubre spettacolo” aggiunse, mentre continuava a spostarsi da una nicchia all’altra facendo luce con la torcia.
“Si riconoscono due ordini diversi, guarda! Vedi che solo alcuni hanno il crocefisso al collo?”
“Sei riuscito a contarli? Sono tantissimi!!” e detto questo si allontanò dirigendosi verso un’altra stanza dove c’erano decine e decine di altre nicchie piene di ossa e teschi. “Guarda! Ce ne sono anche in alto! Questo cimitero deve essere stato usato per secoli e secoli. Incredibile! Wow! Vieni a vedere, su questa parete ci sono anche delle suore...”.
“Rebeccah, ti prego, fermati! Stai andando troppo avanti, non riesco a starti dietro...” le intimai a un certo punto nel timore di perderla.
“Sembra un labirinto, tutte le camere con gli scheletri sono uguali, non saprei riconoscere la strada per tornare indietro. Siamo perduti!”.
Fu allora che accadde qualcosa di incredibile. Quando raggiunsi Rebeccah la trovai intenta a illuminare con la torcia l'orlo del saio di uno scheletro. Le fui accanto e lei, prima ancora che potessi parlare, mi si avvicinò e mi abbracciò baciandomi con inusitata passione. Fu un bacio indimenticabile, tenero e terribile al tempo stesso. Non sapevamo realmente cosa sarebbe stato di noi e della nostra vita la sotto e poi ogni volta che socchiudevo gli occhi mi ritrovavo il ghigno di un teschio che pareva volesse ammonirmi.
La chiamai per nome, accarezzandole i capelli. Lei mi guardò e mi sorrise. Ci abbracciammo ancora. Subito dopo notammo che il buio non era più così buio perché dal fondo di una delle gallerie filtrava della luce. Dovevamo trovare una via d'uscita per cui imboccammo istintivamente il breve tratto di tunnel verso la fonte luminosa.
Fu così che scoprimmo che la luce giungeva da un’ampia spelonca, un luogo singolare, a metà strada tra l'interno di una cattedrale e un’oasi boschiva. Una parete di roccia monumentale saliva per decine di metri verso l’alto e su, su, nell’ultimo tratto si vedeva una breccia e una piccola porzione di cielo. Dalla parte opposta c’erano invece dei resti architettonici, un muro basso e delle colonne. Una breve scalinata digradava nella penombra scomparendo in un piccolo corso d’acqua cristallina. Tutta la riva del fiume era coperta di cose, un ammasso di macchinari e ingranaggi in legno e pietra.
Riconobbi delle macine, una pala di mulino, uno strano veicolo simile a un sommergibile in miniatura, delle catapulte. Il luogo, assolutamente surreale, era bellissimo. Si udiva solo il suono dell’acqua che scorreva veloce, producendo piccole rapide e gorghi tra le rocce. Guardinghi superammo una catasta elmi e di alabarde arrugginite e alcuni grossi bauli borchiati.
Vidi rotoli di carta sparsi ovunque, libri di ogni formato, attrezzi da lavoro abbandonati sopra tavoli polverosi. All’improvviso, da dietro un paravento, udimmo delle voci. Riconobbi immediatamente la lingua francese, udii una voce di donna e ... vidi un uomo di spalle che di tanto in tanto annuiva e le rispondeva. L’uomo, dal fisico possente, era seduto di fronte a un grosso cavalletto sul quale era visibile un ritratto dipinto. Dalla mia posizione purtroppo non riuscivo a distinguere i dettagli e facevo una gran fatica a capire cosa stesse succedendo. Guardai Rebeccah con fare interrogativo. A un certo punto, evidentemente accortosi della nostra presenza, l’uomo si volse e si alzò e la luce illuminò la sua testa. Indossava uno strano copricapo quadrangolare di velluto scuro e portava una barba lunga e scintillante, che pareva d’argento. Ci guardò sorridendo.
“Vi stavo aspettando” disse rivolgendosi a noi. Per quanto folle potesse apparire ci rendemmo conto in quel momento di essere al cospetto di Leonardo da Vinci, tant’è che io mi inginocchiai immediatamente in segno di reverenza mentre Rebeccah no, lei rimase immobile e rispettosa, sull’attenti.
“Ancora voi? Maledetti impiccioni!” esclamò la voce di donna.
Dietro al cavalletto, vestita con un corpetto ricamato e con la testa coperta da un velo scoprimmo Madame Janine evidentemente in posa per un ritratto.
“Ssst ... Janine, state calma.” esclamò Leonardo. “Piuttosto guardi quanto sono belli questi giovani di oggi!” E ci fece venire avanti in modo che fossimo illuminati. Eravamo increduli di fronte a Leonardo da Vinci ma la cosa straordinaria era che tutto era al contempo assolutamente naturale. “Maestro!” dissi “Ma come è possibile tutto questo?” formulai con difficoltà l’unica domanda che ritenevo degna in quel momento.
Poi mi voltai verso Rebeccah e trovai l’eccitazione anche nei suoi occhi. Guardai in cagnesco Madame Janine in versione Gioconda ma mi venne anche un po’ da ridere. Dietro di lei erano accatastati numerosi dipinti e grosse cornici. Vidi altri ritratti, molti ritratti, tutti incredibilmente belli e vibranti. Non erano i ritratti conosciuti, le opere conosciute di Leonardo presenti nei musei del mondo, ma lo stile era indubbiamente lo stesso. C’era il ritratto di un giovane uomo con un giubbotto trapuntato che era pari pari al dott. Melzi conosciuto al picnic pochi giorni prima, e da dietro spuntava il volto virile di Gianni Pacioli e poi... ma pensa un po'! vidi un ritratto di profilo del nostro Luigi.
Cominciai a capire, a mettere insieme in tasselli del mosaico runese, anche se razionalmente tutto quello che avevo davanti risultava incredibile, assolutamente impossibile da accettare. Ero lì davanti al genio del Rinascimento. Io con la mia felpa e lui in calzamaglia viola, il mantello, e quel suo caratteristico cappello. Mi guardava benevolo e sorridente.
Che esperienza straordinaria! Chissà cosa avrebbe detto Dominique! Ma... sarei stato mai in grado di raccontarlo? Mi avrebbe mai creduto?
“Maestro, Maestro...” continuai io tutto frastornato, in preda alla soggezione più profonda.
“Sembrate Adamo ed Eva nel giorno primo, siete una vera meraviglia” mi anticipò pacatamente Leonardo e afferrò un librone rilegato in pelle e con un pennino a piuma pescò in una boccetta e cominciò a disegnare.
“Vi prego di restare, voglio dipingere una nuova tavola e dedicarla a voi. Spostatevi da lì, tu ragazzo vieni avanti, ecco, cosi. Ora la composizione è perfetta.”
“Ma in che epoca siamo Sommo Maestro? Sono così confuso e disorientato!”.
“Tranquillo ragazzo, è tutto a posto” cercò ancora una volta di rassicurarmi senza però smettere di disegnare.
“Questo è il cerchio ermetico. Il tempo, come lo intendono comunemente gli uomini, qui non esiste. E sai cosa ti dico? Non c’è invenzione o progetto o dipinto che mi abbia reso così felice quanto la scoperta delle leggi segrete che in natura governano il tempo. Guardami. Passato, presente e futuro non esistono per me, sono libero. E tutti potranno esserlo un giorno, non è solo mia questa facoltà ma una possibilità insita in ogni uomo. Questo il vero significato dell'immortalità. Spalancare le porte all'infinito. Questo è il senso della vita! ".
"Ehi, finalmente! Pensavamo fossi morto!” mi disse Dominique avvicinando la sua faccia a pochi centimetri dal mio volto ancora semi-addormentato. “Eravamo tutti molto preoccupati. L’altro giorno al picnic ti sei strafogato come un maiale e poi sei crollato in un sonno che pareva senza fine...Ma lo sai quanto hai dormito?”
“E Rebeccah? Dov'è Rebeccah? chiesi come prima cosa.
“È partita questa mattina, il padre purtroppo è stato ricoverato d'urgenza in ospedale, così ha deciso di anticipare il ritorno negli States. Peccato che tu non l'abbia conosciuta”. Con l'aiuto di Dominique mi misi seduto sul letto. Ero annebbiato, frastornato e deluso.
Ciò non mi impedì di notare un piccolo dipinto a olio appeso sopra al comodino, un'opera di pregevole fattura, avrei detto un fiammingo.
“E questo da dove salta fuori?” chiesi a Dominique.
“Perché me lo chiedi? È sempre stato lì” mi rispose subito.
“Non ci credo. Sono certo che ieri non ci fosse...” replicai.
“Ci mancherebbe altro! È un altro dei miei preziosi ritrovamenti di questa casa. Si intitola “Adamo ed Eva” ed è stato attribuito a Leonardo anche se non è firmato. Un vero capolavoro, non trovi?”
1 L'autore del furto della Gioconda.