Se, come abbiamo affermato nel precedente dialogo, più consumo vuol dire paradossalmente più malessere e più disagio, allora occorre che nella nostra cultura dominante muti il significato di progresso superando la relazione causale tra ricchezza economica e benessere e, meglio ancora, tra miglioramento e crescita.
Direi proprio di sì; il concetto di progresso inteso unicamente come crescita economica poteva ancora essere adeguato fino allo sviluppo degli anni successivi alle due guerre mondiali, in cui potevano realmente esserci ancora tra la popolazione bisogni essenziali da soddisfare, come le abitazioni da ricostruire, l’acqua e l’energia elettrica da fornire, i servizi igienici da impiantare nelle case, una maggiore varietà di cibi da mangiare.
Tuttavia, la soddisfazione dei bisogni essenziali ha imposto col tempo la necessità di generare nuovi bisogni, meno essenziali, per mantenere in funzione il circuito economico, attraverso l’induzione di nuove insoddisfazioni cui porre rimedio con nuovi beni e nuovi servizi.
Il progresso, dall’essere considerato un indicatore del processo di miglioramento sociale attraverso il soddisfacimento delle necessità umane, è divenuto esso stesso una necessità umana, in nome del quale sacrificare la socialità. E il concetto di progresso si è via via staccato dal contesto sociale ed economico, per divenire un’idea in sé, un’idealizzazione, quasi un mito della nostra cultura.
Cosa intendi dire?
Che l’idea di progresso è divenuta un concetto astratto, generale; il progresso, da processo quale dovrebbe essere, è divenuto un'astrazione avulsa dalla realtà da cui era emersa e nel cui contesto poteva avere un senso. Quando le idee assurgono a questo livello di astrattezza, spesso diventano resistenti perfino di fronte all’evidenza dei fatti. Diventano convinzioni collettive, impermeabili a ogni critica anche fattuale. Ecco perché diventano dei miti culturali.
Ora il progresso è finalizzato a se stesso, è il 'progresso per il progresso', e non è legittimo chiedersi se è veramente questo che vogliamo e se i danni che procura, anche a livello ambientale oltre che sociale, siano da considerarsi comunque mali necessari…
Il ridurre il concetto di progresso a un banale 'sempre di più' è il risultato della generalizzazione a tutti i costi di un processo che, a mio avviso, sarebbe bene ri-contestualizzare, riportandolo al suo reale significato nella vita sociale quotidiana, piuttosto che lasciarlo a un livello quasi metafisico, o 'religioso', come direbbe Serge Latouche, uno dei maggiori critici contemporanei del modello di sviluppo occidentale.
Per tornare alla domanda da cui eravamo partiti, il progresso è un concetto lineare, che non tiene conto della complessità delle inter-relazioni umane. Esso presuppone che il benessere dell’uomo sia raggiungibile attraverso la soddisfazione dei suoi bisogni, e che tali bisogni siano soddisfabili attraverso beni e servizi acquisibili sul mercato; il mercato, pertanto, nel continuare incessantemente a offrire beni e servizi per il soddisfacimento dei bisogni umani, assolve al compito sociale di assicurare il benessere umano.
Ecco il mito del progresso, ciò che lo rende così intoccabile per noi uomini, tanto da sentirci piccoli e insignificanti rispetto ad esso…
Tutto questo presuppone un concetto di benessere sia individuale che sociale molto limitato!
Certo, e direi anche un concetto di uomo molto limitato! Se i bisogni di una persona si possono soddisfare attraverso il consumo di beni e servizi acquistabili sul mercato, ciò equivale a dire che essi presentano una utilità per la persona stessa, misurabile nei termini del sacrificio che essa è disposto a compiere per acquisirli. Il benessere si riduce quindi a un calcolo da definirsi tra l’utilità ottenibile nel soddisfare i propri bisogni e i sacrifici da sopportare per raggiungere questo scopo.
L’uomo è quindi ridotto a un 'calcolatore' di costi e benefici, chiuso tra interessi da soddisfare e sacrifici da sopportare!
Esatto, è l’uomo razionale per eccellenza, l’homo oeconomicus, che massimizza i propri interessi e minimizza i propri sacrifici. È una visione dell’uomo estremamente separativa, sotto tutti i punti di vista: è separato persino da se stesso, con la razionalità calcolatrice separata dalla propria sfera emozionale e affettiva, la quale non può trovare espressione e soddisfazione in tale contesto.
Ciò che trova espressione in questo ambito sono piuttosto le emozioni negative di ansia, di stress, di insoddisfazione per l’appartenenza a un meccanismo che si sente sovraordinato e da cui sembra impossibile potersi staccare, quello del mercato.
Più che di persona, è opportuno, come spesso avviene, parlare in questo contesto di individuo: egli è, ovviamente e drammaticamente, separato dagli altri individui, anch’essi trasformati in esseri economici, piuttosto che umani, che a loro volta massimizzano il proprio interesse e minimizzano il proprio sacrificio.
Detto in altri termini, ognuno di loro vuole prendere il massimo dando il minimo quando effettua uno scambio sul mercato, ossia quando entra in relazione con un altro individuo, sapendo a sua volta che l'altro soggetto utilizza gli stessi presupposti, ossia che gli concede il minimo possibile cercando di ottenere il massimo possibile. Non mi sembra proprio una base ottimale di fiducia reciproca per poter stabilire delle relazioni che, oltre che economiche, sono anche e soprattutto sociali e, non dimentichiamolo, umane!
Le relazioni, in questo contesto, anziché essere basate sulla fiducia reciproca, diventano facilmente conflittuali, anzi, sono già fondate su presupposti conflittuali. Da qui la necessità, spesso invocata, di porre leggi e regolamenti a tutela 'dell’etica degli affari'.
Mi pare fin troppo evidente come tutto ciò sia estremamente lontano da una visione dell’uomo complessa, quella che avevamo definito come identità relazionale…
Sì, ecco perché l’idea di progresso appartiene al paradigma separativo: tutti i presupposti su cui è fondata sono presupposti separativi e non relazionali. Un altro di questi è, per esempio, che l’uomo è non solo razionale, ma 'naturalmente' egoista, e in tale contesto lo scambio si riduce a una relazione in cui si scambiano i propri egoismi e tornaconti personali.
Più che una teoria del benessere, sembrerebbe una teoria del malessere...
Proprio così! Eppure, continua a dominare, insieme a tutto quel sistema di credenze su cui fondiamo la nostra esistenza; sono credenze che, proprio per la loro pretesa universalità, paiono ineluttabili…
Siamo veramente in un’ottica di sopravvivenza, anziché di vita!
Sì, sono d'accordo con te. E proprio qui sta il punto a mio avviso più importante di tutto il pensiero umano contemporaneo: che stiamo sopravvivendo, e non vivendo.
C'è un'accettazione supina e generalizzata del concetto di sopravvivenza, che si applica ormai a tutti i settori della nostra vita: persino tra i piccoli boy-scouts si parla di sopravvivenza e di lotta per la vita! Così vengono educati anche i nostri figli: a lottare per la vita - che non verrà mai raggiunta! Per il momento l'importante è sopravvivere...
Assomiglia molto al concetto di benessere sociale: anche questo mi pare di aver capito che non verrà mai raggiunto!
Proprio così. È un continuo posporre la felicità umana a tempi indefiniti; prima, nella visione religiosa tradizionale, la felicità coincideva con la 'vita eterna', raggiungibile solo dopo la morte.
Con il passaggio al paradigma scientifico tradizionale, quello meccanicista e separativo, il benessere sociale viene inteso unicamente come benessere economico, e il mercato si è sostituito alla religione nel procurare la felicità agli uomini: la felicità è acquisibile nella vita terrena, ma a caro prezzo...