Mentre sei seduto sul pendio di una collina, steso sotto gli alberi di una foresta o accoccolato con le gambe bagnate sulla riva sassosa di un torrente di montagna, si apre la grande porta.
(Stephen Graham)
La serie fotografica *My place, My Roots” di Alessandra Neri1 inquadra con sensibilità contemporanea il complesso rapporto dell’uomo con il territorio natio. Una ricerca nata in diversi momenti, dapprima qualche anno fa come indagine e repertazione dell’ambiente naturale, e in una fase successiva dove la Neri ha avuto l’urgenza di indagare la natura attraverso un genere bel consolidato nella storia delle arti visive come l’autoritratto. La fotografa ha così elevato a metafora il proprio corpo, come strumento di relazione e ricerca.
I luoghi sono quelli dell’Appennino dove la Neri ha vissuto e che, come il titolo indica, sono il suo posto e le sue radici. Un rapporto complesso il suo, fatto di conflitti, difficoltà, necessità, di diffidenza e abbandono, come qualsiasi relazione affettiva porti implicitamente dentro. E questa serie ci racconta delicatamente la storia di questa relazione travagliata con i luoghi, fatta di appartenenze, assorbimenti ma anche di inquisizioni critiche.
Un progetto questo, esposto per la prima volta a Vergato Arte e poi condiviso su Instagram, aprendo così un dibattito molto attuale sull’estetica della fotografia canonicamente intesa e quella proposta e massicciamente diffusa sulla piattaforma social più famosa del web.
Si aprono tanti interrogativi. Quando un’immagine è pura comunicazione e quando porta invece un messaggio più complesso? È così facile distinguerle per la maggior parte delle persone? Quanto è labile questo, oggi, con l’immediatezza della condivisione visiva? È possibile definire un “genere Instagram”?
Se i likes e i cuori indicano apprezzamento e comprensione (se) ciò fa emergere tratti distintivi comuni che vanno a definire i criteri per identificare “una bella immagine”, “un’immagine rassicurante”, “che funziona”. L’autoritratto, la bella composizione, una buona tecnica, una risoluzione importante, sembrano le peculiarità di questo successo.
Oggi più che mai è diventato fondamentale raccontarsi, rapidamente, quotidianamente, sotto forma di blogging visivo. Tutto sembra essere dettato da un’estetica “da influencer”, “cool”, dalla cucina, alla moda, dalla sfera intima a quella professionale: tutto sembra appiattirsi nella rapidità dell’ego bello e idealizzato.
Occorre allora andare a fondo di questi progetti visivi, tanti, troppi, a volte molto simili proprio per i tratti estrapolati sopra. Necessitano una cura e un’indagine, sull’origine e la veridicità del messaggio sottinteso alla “bella immagine”. “La bella foto” così democratica e pericolosa, e alla portata di tutti, soprattutto oggi, con lo smartphone al posto degli occhi e delle menti.
My place, My Roots affronta il genere dell’autoritratto, della foto di paesaggio e il “genere Instagram” rischiando così di perdere preziosità e di autocondannarsi, ma lo fa con una visione personale, poetica, con una coerenza espressiva fedele alla sensibilità dell’autrice - che non si accontenta del “bello scatto acchiappa likes” ma che porta in grembo una storia silenziosa, complicata - che ha bisogno di essere ascoltata immagine dopo immagine. La Neri ci apre “la grande porta” a un mondo privato ma che può essere realmente condiviso da ognuno di noi, e ciò che la rende differente in queste molteplici similitudini offerte dal web è proprio questa micro-macro narrazione. My place, My Roots è un diario aperto nel bel mezzo di un caldo pomeriggio di autunno, tra il rumore delle foglie secche e un vento che porta con sé il ricordo di un’estate passata, e di una vita trascorsa a sfiorare l’erba come un corpo vergine. Tutto come una prima volta indimenticabile.
La fotografia da sempre, si è dibattuta e scontrata, fin dalla sua nascita nell’Ottocento con la madre e antagonista pittura, nel corso dei decenni; questo dialogo, ha saputo trarre spunti prolifici che hanno assicurato al mezzo fotografico la più concreta autonomia artistica. Emerge sia negli ultimi anni che a ondate cicliche, l’urgenza di tornare a un intrinseco pittoricismo e con questo si intenda la scelta compositiva, cromatica i riferimenti iconografici e di non ultima importanza la scelta espositiva (formato, tecnica di stampa, cornice, ecc…).
In My place, My Roots l’artista non compare quasi mai frontalmente e laddove la si scorga in tale maniera, decide di assumere il capo chinato. Il suo sguardo ci è negato, il corpo viene ripreso in differenti posizioni o di spalle: mezzi busti, tre quarti, accovacciato su se stesso, laterale, da molto lontano, e vestito con estrema semplicità, con un abito lungo che lascia intravedere gli arti, di colore ocra, con le tonalità che spaziano dal giallo-oro al marrone chiaro. Una cromia pura, originaria, arcaica, simbolica che richiama il forte legame con la natura, la terra e le radici.
La Neri si autoritrae con una doppia consapevolezza: quella di veicolare il corpo come traccia, come indice e unico valore umano presente, ma allo stesso tempo con la volontà di confondersi, mimetizzarsi con l’ambiente stesso, quasi a perdersi come un dato atmosferico caduco e fragile. Il tempo sembra essere ritratto come un rito di passaggio solitario, personale, intimo, sospeso nell’eterno mutamento e spogliazione tipici di una stagione autunnale.
Impossibile non ricordare il celebre dipinto romantico Viandante sul mare di nebbia del 1818 di Caspar David Friedrich, dove l’infinito, il sublime e l’errabondo si intrecciano inesorabilmente o gli scatti del finno-americano Arno Minkkinen dove il corpo umano sembra fondersi con l’Universo o ancora i lavori della fotografa finlandese e videoartista Elina Brotherus che come ha affermato in una delle sue recenti interviste: «Nelle mie immagini cerco quello che troppo spesso ci manca nella vita di tutti i giorni: calma, spazi ampi, sorpresa, vera solitudine e, come compensazione, un’esperienza condivisa”. L’esperienza condivisa che ci offre la Neri è quella di una solitudine macroscopica, che si espande a macchia d’olio, o infinitamente, come i cerchi nell’acqua dopo un sasso buttato, allargata a ognuno di noi, a chi è nato in queste zone a tratti aspre ma essenziali, apenniniche, di rifletterci nel corpo semi-invisibile dell’artista, che sia sul bordo del lago Brasimone, tra i fitti alberi di un bosco, o ai piedi del monte Vigese.
Uno dei primi “luoghi” dove hai presentato questo progetto è Instagram, come mai questa scelta? E soprattutto cosa pensi un social di questo tipo possa apportare alla fotografia contemporanea?
La serie completa l’ho presentata in realtà prima a Vergato Arte e di seguito su Instagram, in quanto lo utilizzo un po’ come una sorta di mio sito dove pubblico lavori e progetti completi e già esposti e talvolta come quaderno di appunti. Infatti, le prime foto relative a My place, My roots* le ho pubblicate qui nel 2015, quando ancora non erano le immagini definitive ma una sorta di appunti dei luoghi che volevo immortalare, alcuni sono poi diventati gli scatti della serie, altri invece li ho scartati dopo una riflessione attenta sui luoghi e quello che mi trasmettevano.
Instagram lo uso molto, è il social che preferisco in assoluto per la sua immediatezza. Inizialmente lo usavo per come era nato: un’App che dava la possibilità di scattare foto digitali con l’applicazione dei filtri retrò tipo pellicole lomography. Il mio profilo era privato e lo utilizzavo solo come mezzo fotografico. Nel tempo però ho abbandonato questo tipo di utilizzo perché mi interessava meno anche perché l’App stessa si è trasformata in altro, da mezzo fotografico a canale di pubblicazione e promozione. Non tutti lo usano in questo modo, anzi, c’è una netta differenza tra un utilizzo che intendo più “amatoriale” o comunque per scelta ben specifica, nel quale le foto vengono scattate e pubblicate direttamente all’interno dell’App con il classico formato quadrato e filtri, e tra chi come me lo utilizza come canale di pubblicazione e sponsorizzazione personale, dove le foto pubblicate sono immagini create in precedenza con macchina fotografica o telefono, e di cui solitamente mantengo il formato orizzontale, il mio preferito.
Penso che un social come Instagram non sia assolutamente da sottovalutare. Per la fotografia contemporanea è sicuramente un mezzo semplice e di veloce utilizzo, ma allo stesso tempo è un’arma a doppio taglio… c’è il mondo intero all’interno di questo social e perdersi in questo mare infinito di immagini è facile. Bisogna saperlo utilizzare e scremare, un po’ come tutti i social attuali. Però quello che mi affascina è l’immediatezza e il poter seguire artisti tramite le loro pagine e vedere come prendono forma i loro lavori, a volte si possono conoscere anche i “dietro le quinte” di tanti progetti, entrare in contatto con loro seppur in modo virtuale. Penso comunque che sia un fenomeno ancora acerbo per poterlo definire con certezza... vedremo come si evolverà nei prossimi anni.
Consideri questo progetto concluso o in progress? Ci sono ancora luoghi con i quali desideri confrontarti?
Nello specifico lo considero concluso per quanto riguarda questa serie. Ho cercato, individuato i “miei” luoghi in cui sono radicate le mie radici e origini, e questa serie di 9 scatti li racchiude.
Però, in una visione più ampia, lo sto pensando come un work in progress, sicuramente ci sarà una nuova serie, che è in stato embrionale attualmente, sui miei nuovi luoghi, quelli in cui vivo ora e che sto scoprendo da “forestiera” e non da nativa, quindi, con una percezione diversa, quella di mettere le mie nuove radici, il luogo che ho scelto di abitare. La fusione tra me e l’ambiente sarà un po’ differente, in questo caso il contesto è più ur-bano, quindi, il confronto sarà anche con architetture oltre che con il paesaggio naturale.
E poi forse ce ne saranno altri…non lo considero un capitolo chiuso.
Come ti sei avvicinata alla fotografia?
La fotografia è sempre stata presente in casa mia, in modo assolutamente amatoriale e forse un po’ stereotipato, ma ho sempre amato sfogliare gli album di famiglia, i quali considero veri e propri scrigni affettivi dove il quotidiano o gli eventi immortalati, come la foto di compleanno, di Natale, ecc… assumono una vera e propria redenzione, in quanto momenti decisi ad essere impressi per sempre nel tempo. Inizialmente, la fotografia per me era fotografia di viaggio, di cene con gli amici, diciamo documentativa del mio vissuto, poi è diventata uno strumento con cui esprimermi, dunque, non più il fine ma il mezzo. Da lì ho iniziato a seguire corsi e ho affrontato un percorso universitario volto a documentarmi il più possibile in materia, e da quel momento si sono susseguite macchine fotografiche di tutti i tipi con le quali ho iniziato a giocare e sperimentare.
Quali sono gli artisti/fotografi che ami, e perché?
Il fotografo che amo più in assoluto è Luigi Ghirri. Trovo la sua poetica qualcosa di molto toccante; la sua è stata una vita completamente dedicata all’osservazione del territorio italiano e soprattutto dei suoi luoghi, l’Emilia e la Romagna, il Po. Nelle sue fotografie, spesso con nessun elemento a effetto “wow” rispetto ad altri fotografi più “patinati”, è proprio la scelta del quotidiano qualunque, delle piccole cose che fanno diventare queste immagini vere e proprie epifanie. Una sorta di redenzione per luoghi a volte dimenticati ma con un carico di storia impressionante. Mi sono spesso ritrovata in lui, e ammetto che tanti miei lavori risentono della sua influenza.
Un altro che ammiro molto è Nino Migliori, anche lui, con una gran semplicità comunicativa ha fatto e continua a fare lavori straordinari. Franco Vaccari è un altro artista a cui tengo molto, le sue esposizioni in tempo reale rimangono per me qualcosa di geniale. L’atto performativo scaturito davanti l’obiettivo fino ad essere l’opera stessa dell’esposizione è per me affascinate, infatti, ho svolto la mia tesi di laurea proprio su questa tematica.
Un’artista che mi sta molto a cuore è Silvia Camporesi, che ho potuto conoscere e assistere in una tappa del suo Atlas Italiae; da lei ho imparato molto, mi ha dato gli input giusti per mettermi in gioco. La creazione dei suoi ultimi due lavori Atlas Italiae e Mirabilia sono qualcosa di straordinario e nulla è lasciato al caso; anche in questo caso si tratta di un’artista che usa la fotografia come mezzo d’espressione per farci vedere con i suoi occhi una mappatura di luoghi stupendi e abbandonati ma anche fantastici e poco conosciuti.
L’altra fotografa che amo è Anna Di Prospero, con lei mi sono avvicinata all’autoritratto, e amo qualsiasi sua serie: hanno un qualcosa di magico, fuori dal tempo, dove figura umana e luoghi si fondono in un tutt’uno.
Poi ce ne sono molti altri ma direi che questi cinque sono quelli del cuore.
Una delle ultime mostre che hai visto e che ricordi piacevolmente?
L’ultima in tempo cronologico è stata Anthropocene al MAST: si distacca dal mio modo di fotografare, ma la tematica per come è stata affrontata e la qualità delle immagini mi sono piaciute molto e mi hanno fatto riflettere. Precedentemente, l’esposizione al CUBO di Anna Di Prospero con l’esposizione Luoghi familiari: dal vivo è stato particolarmente toccante.
Il tuo legame con il territorio è molto forte e questi scatti lo dimostrano, quindi, perché secondo te un giovane dovrebbe investire, non lasciare il proprio paese a favore di una città?
Domanda molto difficile… in realtà se mi fosse stata fatta pochi anni fa avrei risposto che è meglio spostarsi in città per poter realizzarsi e trovare la propria strada. Ma a seguito della pace fatta con il mio territorio, ti posso dire che a volte non solo i centri urbani possono offrire possibilità, sicuramente il nostro territorio appenninico spesso ci mette a dura prova, ma se si ha la forza di non abbandonarlo, ci riserva delle grandi opportunità: come dico sempre, il nostro territorio sembra che dorma, ma guardando attentamente c’è un continuo fermento e un brulicare di gente che ha voglia di mettersi in gioco. Ho trovato molte persone con la mia stessa passione della fotografia o arte in genere, musicisti, realtà associative come la vostra di Officina 15, che ti fanno capire che se si vuole si può fare tutto questo anche in provincia. Sicuramente i risultati non sono come quelli dei grandi centri urbani, ma la risposta arriva e negli ultimi anni c’è questa voglia comune di portare realtà ed eventi “cittadini” anche qui, facendo mostre, creando associazioni culturali per la promozione dell’arte e della cultura, un riavvicinamento alla natura e a quello che può offrire, il senso della comunità, che a volte nelle città si perde, ma che nei nostri piccoli paesi di montagna è ancora forte, ed è proprio il suo punto di forza. Un giovane deve sicuramente fare le esperienze di cui sente il bisogno, ma se ha un obbiettivo, un progetto può realizzarlo anche senza lasciare il proprio paese, trovando persone e una comunità che sarà sempre pronta a sostenerlo e ad appoggiarlo.
1 Alessandra Neri nasce nel 1981 nella provincia di Bologna. Si laurea con tesi in Storia della Fotografia (L'autoritratto automatizzato) al DAMS di Bologna; successivamente ha frequentato corsi presso lo Spazio Labò (BO) per apprendere le basi tecniche della fotografia e in seguito ha seguito un percorso formativo con Silvia Camporesi che l’ha avvicinata al campo artistico. Nel 2017, è stata selezionata per la partecipazione al corso sulla fotografia d'autoritratto con Simone Martinetto presso la Cineteca di Bologna. Ha esposto in varie mostre collettive e personali dal 2011 ad oggi. Il suo percorso formativo e artistico si è avvicinato alla tecnica dell’autoritratto, prima a livello teorico e successiamente a livello pratico sviluppando progetti fotografici sull’autoanalisi o come esterna-ione delle proprie emozioni. Tramite il mezzo fotografico, cerca di risolvere i propri pro-lemi interiori. Predilige la fotografia digitale, ma utilizza anche l’analogico, a seconda dalla tematica sviluppata si avvale del mezzo più consono.