Siviglia. Due anni dopo. Potremmo concepire nel bagno di La Otra Orilla a Triana. Sarebbe prematuro. Denise e io oggi abbiamo capito che non vogliamo più fare a meno l’uno dell’altra, è stato un dialogo intessuto di carezze e bisbigli ai piedi della Torre de Oro, in riva al Guadalquivir.
L’estate andalusa è soffocante e durante il giorno conviene non allontanarsi troppo dalla doccia. Stanotte però una fresca brezza oceanica giunge da ovest e porta desiderio d’intimità.
Ci sudiamo addosso per tutto il pomeriggio nonostante l’afa, passiamo dal letto alla doccia e ritorno, ci godiamo una siesta di un paio d’ore. Denise sogna di suo figlio e non appena aperti gli occhi accende una sigaretta e il tablet e digita quelli che credo siano i suoi versi migliori.
Non credo che la Madonna in persona, se avesse scritto poesie sul Nazzareno, avrebbe potuto dipingere un’immagine della maternità più profonda e ironica a un tempo, con spirito altrettanto serioso e sbarazzino.
Attende che mi svegli per sottoporla al mio parere.
Leggo nudo, in piedi nella stanza umile dell’Hostal modesto in cui alloggiamo, in prossimità del centro del Barrio De Santa Cruz.
Una mano al tablet e l’altra a massaggiare i genitali doloranti leggo e rileggo i sedici versi. Una scelta molto femminile: tre strofe, sei versi, quattro, ancora sei.
Mentre osservo la poesia come si trattasse d’un dipinto, in cerca del significante stonato che attiri l’occhio, mi rendo conto dell’ingegnoso acrostico. Il primo verso rima con l’ultimo, il secondo col penultimo e così via fino alla rima baciata fra l’ottavo e il nono verso: figlio/giaciglio.
Rileggo ancora e sono in estasi, la coscienza compie un balzo in dimensioni estetiche altre, dove il canto dei passeri si fa voce dei cantori ormai trapassati.
La guardo negli occhi, le sorrido grato, mi chino su di lei, bacio tenero le sue labbra arse. Genia, le dico ed entro in doccia.
Mentre mi agghindo di tutto punto è il suo turno del refrigerio. Esce bagnata come una Venere rosso fuoco e Botticelli ne è all’oscuro.
Ascoltiamo l’Aria di Bach mentre ultimiamo i preparativi. Lei indossa un tubino nero, scarpe di vernice col tacco alto e un ammiccante laccio che le risale elegante fino ai polpacci.
Paghi e riposati usciamo a cercare del cibo, che ormai si rende quanto mai desiderabile e necessario; sono le undici di sera.
Raggiungiamo Las Columnas e ci accomodiamo a un tavolino del dehor. Gli spagnoli sono avvezzi a ritmi blandi e più umani rispetto a quelli italiani. Il locale è zeppo d’avventori che consumano la propria cena dopo svariati giri d’aperitivo e passeggiate. Il locale offre tapas sempre più ricche ed elaborate con il susseguirsi dei giri di cañas, le birre piccole. Di questa parte della serata ricordo solo che siamo partiti da una piccola bruschetta al pomodoro e abbiamo concluso il pasto con una sontuosa frittura mista di pesce.
Denise e l’ebrezza alcolica m’ispirano e registro sul blocco note del telefono due incipit differenti, quattro versi. Entrambi i distici trattano l’amor fou, appare una falce.
Dopo svariate cervezas e sigarette decidiamo di muoverci abbracciati alla volta di Triana.
La fauna indigena è allegra e caciarona, si respira ovunque aria di festa e anelito alla trasgressione.
L’Andalusia è una regione estremamente religiosa e apparentemente puritana, quasi a compensare la distanza dal Vaticano con la devozione. Si tratta soltanto d’apparenza. Gli uomini sono ossessionati dal sesso e le donne gli sono grate per questo.
Giunti a La Torre de Oro ci fermiamo a riposare in un abbraccio complice ed estremamente esclusivo.
Siamo gli ultimi sopravvissuti a una catastrofe naturale mentre le dico del nostro amore e della mia volontà, al ritorno in Italia, di cercare un rustico in collina dove trasferirci insieme, suo figlio, lei e io.
Mi guarda seria come le volte in cui le dicevo me ne vado o quelle in cui me ne vado lo diceva lei. Quell’espressione neutra e indagatrice, prodotto del tentativo frenetico di smascherare un potenziale bluff.
Quando i suoi occhi si velano d’una lacrima di commozione è ormai chiaro che ho vinto la mano. Non dice nulla, mi bacia, si scioglie dall’abbraccio, mi prende la mano e mi guida verso il ponte di Triana.
La musica commerciale che ci attende dentro La Otra Orilla incoraggia a distendersi e lasciare che per un po’ di tempo si disperda il peso gravoso d’esistere come artisti.
Mentre il nettare evapora fra gli astanti e ci nutriamo d’ambrosia al bancone del locale, mi bisbiglia bagni nell’orecchio. Ora sono io a prenderla per un polso e trascinarla nella toilette della discoteca.
Entriamo recitando una teoria di excusa, come un mantra. La spingo voluttuosamente in uno dei cubicoli fra i risolini e le incitazioni delle signore invitate allo spettacolo, la spingo faccia al muro, le alzo il vestito, le abbasso gli slip, mi apro la cerniera ed entro deciso a venirle dentro.