Ad alcuni osservatori superficiali potrebbe sembrare che io abbia la Sindrome di Peter Pan, mentre in realtà, anche se a malincuore, ho superato la fase infantile e adolescenziale da diversi anni e sono affetta da una sindrome meno conosciuta, quella di Superman.
Sapete quanti anni ha Superman? Venticinque, ufficialmente, e sempre.
Ecco, come me: sono anni che ho venticinque anni, mi ci trovo benissimo e non ho intenzione di cambiare.
Se la cosa in qualche modo fino a qualche tempo fa a volte mi creava qualche preoccupazione, ora ritengo che non sia nulla di fronte alla aperta regressione emotiva in cui vedo precipitare un intero mondo costituito da individui che dovrebbero essere adulti e che si ostinano a considerarsi tali.
Ricevo messaggi che sembrano inviati da bambini in età pre-scolare e scopro che sono di colleghi ultracinquantenni, vedo genitori che comunicano con i figli a colpi di GIF, mentre le nonne si appropriano delle espressioni adolescenziali dei nipoti e inviano emoticon sottotitolati HAHA.
Mentre il vocabolario si atrofizza, le emoticon si moltiplicano: attualmente in WhatsApp ce ne sono 1791. In pochissimo tempo il numero delle faccine supererà quello dei vocaboli fondamentali della lingua italiana, che sono 2000.
Mentre il linguaggio si trasforma in un fumetto e le frasi si trasformano in acronimi, le vocali tendono a scomparire: dicono sia per risparmiare tempo.
Ora io non credo che la qualità della mia vita sia gravemente compromessa dal fatto che io continui a sprecare anche 4 minuti al giorno per scrivere le vocali, mi sembra invece grave che il mondo della comunicazione stia naufragando in un mare di sigle e faccine. Guardo con preoccupazione i componenti extra-verbali della comunicazione usati nei social media e via SMS soppiantare la parola e ridurre i contenuti a concetti talmente semplici da essere demenziali.
Le battute o le frasi ironiche vengono accompagnate da smiley o dalla didascalia LOL: volendo verbalizzare, è come aggiungere il commento “era una battuta” ammazzando sul nascere anche il più minuscolo tentativo di risata. Specificare che una battuta è tale non è solo come dare al proprio interlocutore dell’idiota, è accoltellare a morte il senso dell’umorismo.
Questo nuovo linguaggio creato e promosso soprattutto attraverso i social media si diffonde per imitazione, un gigantesco processo di copia-incolla in cui assieme a nuove tendenze linguistiche si creano reazioni di massa omologate. Di entrambe, quella che più detesto e che continua a farmi venire la pelle d’oca, è l’uso dell’acronimo R.I.P. (che non è Rest In Peace e neppure Riposa In Pace ma Requiescat In Pace*, latino, raga.)
Formula sconosciuta e fino a pochissimo tempo fa mai usata se non su qualche iscrizione tombale, oggi ha invaso le pagine dei social come le cavallette, come un riflesso condizionato di massa: “In caso di morte, scrivere RIP”.
Non riesco a concepire che una persona possa scrivere la stessa frase, provare lo stesso dolore, reagire con lo stesso identico commento alla morte del vicino di casa come a quella del chitarrista rock, dello scrittore famoso, del collega, alle vittime dell’ennesimo naufragio, della nonna.
L’acronimo rende perversamente piatta la reazione emotiva, e ciò che è peggio sembra eliminare ogni tentativo di espressione della sofferenza e dell’empatia soffocando l’elaborazione del lutto, che passa attraverso la capacità di esprimere la sofferenza in forma individuale e reale.
Ma quello che mi atterrisce realmente è il pensiero che alla mia morte sulla mia pagina Facebook - su cui non avrò più alcun controllo - e sulle bacheche di amici e conoscenti possa comparire la odiata sigla.
Quindi, nel caso io morissi (e credetemi un giorno lo farò) vorrei cercare di evitare che la mia morte, che per me sarà un evento importante e assolutamente unico, si trasformi nell’ennesima occasione per scrivere una serie di banalità su Facebook e che qualcuno mi auguri di Riposare In Pace.
Non riposerò, sarò morta, ok? Non starò facendo una bella dormita, né schiacciando un pisolino sarò morta, e per sempre.
Quindi cari amici, se quel giorno per caso sentiste l’irrefrenabile bisogno di mandare un messaggio alla mia deceduta persona attraverso Facebook, per favore cercate di essere creativi e osate scrivere qualcosa di personale.
Dire qualcosa di significativo potrebbe essere un bel modo di dire addio, e trovare le parole per esprimere ciò che si sente fa parte di un processo di identificazione e liberazione.
Le parole sono importanti…
Cul8r.
:-)