Non ho mai amato i laghi.

La maggior parte delle volte in cui mi sono ritrovato sulle rive di un lago pioveva e questo non faceva altro che rinforzare la mia convinzione, che è la convinzione di molti: il lago è un luogo freddo, umido e triste.

Sì, ok, ci sono state anche le grigliatine con schitarrate tra amici, le traversate in battello o i bagni con brivido all’inizio dell’estate, tutte cose piacevoli, non posso negarlo. Non abbastanza però da farmi cambiare idea: il lago è un luogo addomesticato, poco affascinante, neppure lontanamente paragonabile al mare, mia vera, grande passione.

Per questo motivo, quando il mio amico Dominique mi ha invitato a trascorrere qualche giorno nella sua nuova casa sul lago Maggiore, ho risposto timidamente, senza grande entusiasmo. Solo alla fine della telefonata, forse temendo un mio rifiuto, Dominique ha giocato il tutto e per tutto e pronunciato la fatidica frase “guarda che qui c’è trippa per gatti” che nel gergo della nostra amicizia ultra ventennale significa qualcosa di molto preciso: ho trovato qualcosa di bello e importante che sicuramente ti interessa, guai se te lo perdi.

Così ho accettato e dopo aver buttato nella borsa due o tre libri, qualche vestito e una giacca a vento (“potrebbe piovere, mi ha detto”) ho googolato velocemente il nome del posto: Runo, frazione di Dumenza, nome curioso, assolutamente sconosciuto per me, valle di smeraldo, a ridosso del lago, luogo natale di Bernardino Luini, allievo di Leonardo. Aah! 1911, dopo il furto a opera del dumentino Peruggia, la Gioconda rimase per due anni a Dumenza.

Cominciavo a capire.

Conoscevo molto bene Dominique, soprattutto condividevo la passione per Leonardo da Vinci, anche se per lui era diverso, lui era un ricercatore, un grande studioso del genio toscano, conosciuto e molto apprezzato: proprio l’anno scorso aveva presentato a Milano l’ultima delle sue opere, uno studio su Leonardo e la simbologia dell’acqua, insomma, roba corposa, di sostanza. Per quanto riguarda me, invece, avrei definito il mio un tributo dovuto, avendo studiato pittura e tentato innumerevoli volti di riprodurre i suoi dipinti. Mi affascinava moltissimo la sua tecnica sfumata, assolutamente irraggiungibile, che creava quei volti così vivi e vibranti. E ho amato e ammirato da sempre i suoi studi sulla natura e i luminosi paesaggi che spesso hanno fatto da sfondo nelle sue opere più conosciute. In più, vivendo a Milano - cosa che Dominique mi invidiava perché lui stava a Parigi - non perdevo l’occasione per tornare al Castello Sforzesco o al Cenacolo oppure al Palazzo degli Atellani dove un tempo c'erano gli orti in cui il maestro faceva coltivare le piante e i fiori da cui traeva i pigmenti vegetali. Un luogo sacro per me.

Nel caso tutto ciò non bastasse avevo chiamato il mio gatto Leo in onore del nostro Maestro.

Mi ero, quindi, messo in macchina curioso. Contavo di essere a destinazione in un paio d'ore al massimo.

Giunto in zona ero stato colto dall'oscurità. Era la fine dell’estate, i boschi fitti rilasciavano già una frescura che pareva preannunciare il cambio di stagione. Superato l'ultimo tornante stretto ho visto Dumenza, illuminata come un presepe. Seguendo le indicazioni ho attraversato il paese, superato il ponte e proseguito sulla salita fino a trovarmi all'improvviso in mezzo a una frazione composta da quattro case. Lì, di fronte a me, ben visibile, ho trovato l’insegna del ristorante “Lo Smeraldo”.

Era il luogo convenuto per l’incontro.

Il mio amico era lì in mezzo alla strada e mi sorrideva felice facendo gran segni con le braccia. Accostai l'auto e scesi. La prima cosa che mi disse fu: “Vieni che mangiamo qualcosa qui che a casa la dispensa è vuota.

Ci sedemmo così a un tavolo in mezzo a un enorme salone. Il ristorante era un po' demodé, l’ora tarda. Eravamo gli unici due clienti. E l'unico cameriere tradiva con il suo dinamismo esagerato il desiderio di concludere la sua giornata.

Ordinammo, quindi, due cose semplici; Dominique non si trattenne dal definire il posto “pretenzioso”, ma aggiunse anche “la crème caramel è ottima” e così la nostra conversazione iniziale deviò sul cibo, altra nostra grande passione.

“Tu sapevi che Dumenza ha dato i natali al cuoco di un Papa?” mi disse Dominique sempre molto ferrato storicamente. “Si chiamava Bartolomeo Scappi, un vero innovatore, modernissimo. Ha scritto un trattato di cucina che è unico al mondo anche perché è stato il primo a descrivere l’uso dei nuovi alimenti provenienti dalle Americhe appena scoperte. Un tempo tutta la zona era un fiorire di locande e posticini dove si mangiava bene. Qui oltre la strada, per esempio, c’era un’osteria che faceva cento coperti a giorno. Non c’erano ancora le auto e la strada era sterrata. Pensa che anche qui allo Smeraldo, cinquant’anni fa, ordinavi una trota al burro e il proprietario scendeva personalmente giù al torrente e te la catturava con le mani. Tutto finito. Oggi è una specie di deserto. Aveva ragione Aldo Buzzi quando diceva che da queste parti, invece di fare menu con scelte e proposte assurde, i ristoranti dovrebbero ricominciare dalle basi: un buon pane fragrante e un vero salame. E quando si parla di pane si intende pane vero, fatto in casa, non quello del supermercato. Mi capisci?" "Sì, certo, ma chi è sto Buzzi?” chiesi incuriosito. “Ah, guarda, una vera scoperta, un personaggio eclettico e curioso che non conoscevo. Il suo libro più famoso, “L’uovo alla Kok” è ancora un best seller di Adelphi. Un testo di riferimento colto della cultura del mangiare” rispose Dominique. “Un esperto di cucina quindi?” aggiunsi. “Lo definirei un grande appassionato!” disse Dominique versandomi del vino da una piccola caraffa di vetro “anche se nella vita ha fatto altro, l’architetto e l’aiuto regista con nomi importanti. Quando era a Runo, dove ha scritto il libro che ti ho detto, faceva l’orto e sperimentava in cucina. Diceva spesso che Runo era un posto magico, a detta sua non esisteva un luogo più ispiratore di questo. Non c’è Capri che tenga, ripeteva. E questa è una affermazione curiosa perché qui, apparentemente, non c’è nulla di interessante, non si vede neppure il lago. Evidentemente c'è dell’altro, penso a una forza geo-magnetica sotterranea o forse è lo spirito del luogo. La stessa energia che ha generato lo Scappi e...”.

In quel momento arrivarono le due crème caramel che avevamo ordinato e Dominique si ammutolì concentrandosi sul suo piatto. “Ma tu il Buzzi l’hai conosciuto?” chiesi senza aspettare. “Ma certo, è lui che mi ha venduto la casa. Quando la vedrai rimarrai di stucco. Pensa che mi ha lasciato tutti i suoi libri e le sue carte, copioni originali di film storici di Lattuada e Fellini mescolati a ricettari all’avanguardia, foto, appunti. Puoi immaginare che goduria per me che amo immergermi tra le vecchie carte! La casa, nella sua ultima versione è di inizio secolo, ma l'impianto originario è quello di un antico convento. E c'è anche un bellissimo giardino, di quelli che piacciono a te, romantici, con camelie secolari, palme esotiche e roseti struggenti... vedrai, vedrai” mi rispose il mio amico ripulendo a fondo il piatto con un dito con grande disinvoltura. “Ti rifarai gli occhi.”

“Ma che belle cose che mi racconti. Ora capisco le tue insistenze per farmi venire fin quassù” dissi. “Oh, amico mio, c'è ben altro! dai, andiamo a casa perché domani sarà una giornata impegnativa. Domani capirai perché ti ho fatto venire qui” replicò Dominique con un sorriso enigmatico. Uscimmo dal ristorante che era tardi, in giro non c’era anima viva. Percorremmo a piedi un vicolo stretto tra case di pietra apparentemente disabitate, poche finestre accese qua e là. Si percepiva la presenza di cortili e giardini.

Passata una piazza risalimmo nella parte centrale del paese e all'improvviso Dominique si fermò davanti a un piccolo portone di legno, lo aprì ed entrò per primo facendomi strada. Lo vidi armeggiare nell’oscurità fino a che si accese una candela. “Ma non hai la luce?” “Non ancora, avevo fretta di trasferirmi e non hanno ancora fatto l'allacciamento”. Attraversammo così un loggiato con quella luce senza tempo. Le nostre figure proiettarono ombre lunghe e tremule sulle pareti. Giungemmo, infine, a un ultimo portone. Si percepiva un intenso profumo di fiori e un gran silenzio. Dominique, prima di proseguire, mi mostrò le chiavi: erano gigantesche e forgiate a mano, come le chiavi di un castello delle fiabe. Ridemmo. Udii un rumore di chiavistelli pesanti rimbombare sotto gli archi del chiostro e finalmente la porta si aprì. “Benvenuto a casa!” mi disse Dominique.

Il ritocco delicato di una vecchia campana lontana entrò nell’ultimo sogno del mattino. Feci in tempo a contare i colpi e capii che erano le undici.

Mi ritrovai in una minuscola stanza con un soffitto a botte finemente affrescato. Oltre al letto c’erano solo uno scrittoio e una sedia. La luce del giorno penetrava con un fascio netto attraverso l’unica finestra della stanza. Quando mi alzai notai qualcosa che la sera prima non avevo visto: sopra al letto c´era un dipinto su tavola con la raffigurazione di un angelo musicante intento a suonare il liuto. La veste dell’angelo era rosso porpora. Mentre ero intento ad ammirare l’opera udii alle mie spalle la voce di Dominique, che nel frattempo era entrato nella stanza in punta di piedi e stava accanto a me con in mano un vassoio e due tazze di caffè: “Bello eh?!” “Sì, risposi, lo stavo proprio guardando, molto bello veramente. Sembra la riproduzione di uno dei due Angeli dipinti dai fratelli De Petris, quelli che abbiamo ammirato insieme l’anno scorso a Londra, alla National Gallery. ricordi?” aggiunsi dando il primo sorso al caffè.

“Amico mio, non si tratta di una riproduzione. Questo è un De Petris originale!” mi disse solennemente Dominique pronto a cogliere tutta l'espressione della mia sorpresa.

“Ma che stai dicendo? Dai, come è possibile?” risposi istintivamente pur sapendo che il mio amico non avrebbe mai fatto una simile affermazione per scherzo o senza averne le prove.

“Ma scusa, allora il dipinto che c’è a Londra? Non mi dire che si tratta di un falso, no, non può essere...”.

“È una copia dell'epoca, probabilmente opera del Melzi.” rispose Dominique tutto serio. “Te lo ricordi il pupillo di Leonardo? Lui ne sarebbe stato capace. L’originale è qui davanti al tuo letto." “Non riesco a seguirti” risposi, mentre con la mano sfioravo la tavola dipinta. “A quale scopo? E poi tu, dove l’hai trovato questo capolavoro?”

“Non mi crederai, ma proviene da questa casa. È saltato fuori rimuovendo un contro soffitto al piano terra” aggiunse. “Qui? Ma dai, è pazzesco! Ma come può essere? Come è finita qui un’opera così importante?” aggiunsi sempre più agitato.

“Sento che ti stai emozionando. Lo sono anch'io e non poco. Forse ora comincerai a capire perché sono qui e perché mi interessa tanto questo posto.

“Beh, indubbiamente si tratta di un ritrovamento clamoroso. Hai già avvertito i tuoi amici della Sovraintendenza? No? Come mai? Cosa hai intenzione di fare?” chiesi rapito dalla curiosità.

“Io credo che qui...” mi rispose Dominique abbassando la voce... Fummo interrotti da rumori provenienti dall'esterno. Una voce di donna con forte accento francese chiamava dal chiostro, ripetendo: “Dominique! Dominique! Il picnic è pronto! Vi stiamo aspettando”. Dominique a quel punto mi guardò con una espressione tra il sorpreso e il divertito. E mi fece cenno di seguirlo.

“Te ne voglio parlare con calma. Ora però vieni con me che ti voglio far conoscere alcune persone. Dopo fammi sapere che impressione ti hanno fatto però vieni dai!”.

A pochi passi dalla nuova casa di Dominique, che alla luce del sole si mostrava in tutta la sua estensione e bellezza, giungemmo in un vecchio giardino. In realtà si trattava di un ampio terreno coltivato a frutteto al quale si aveva accesso attraversando un cancello arrugginito. Là, ad attenderci, c'era un folto gruppo di persone, di tutte le età e, apparentemente da tutte le parti del mondo anche se fu subito chiaro che la lingua maggiormente usata era il francese.

Pareva una festa di famiglia, con bambini schiamazzanti, cani, persone sedute sull'erba, tavoli riccamente imbanditi con vino e cibarie di ogni tipo. Dal volume delle voci si capiva che anche il tasso alcolico era già elevato.

Dominique, che pareva amatissimo da tutti e da tutte, non perdette tempo e mi portò in giro per le presentazioni. Conobbi così alcune persone curiose, tra le quali Madame Janine d’Amboise, una arzilla vecchietta di Parigi vestita in modo estroso e colorato. C'era poi un certo Jean Boreau e la moglie vietnamita Kim Thien. Poi a seguire un certo Tommaso Romorantin con la moglie algerina, una donna fascinosa di nome Farida e le loro figlie Zora e Naima. E ancora Madame Alphonsine de Vilanis e la frizzante nipote Alienor impegnate insieme al dott. Franco Melzi, soprannominato da tutti “le docteur”, a servire ai presenti le pietanze in bella mostra sui tavoli. “Francis Chaumont, molto piacere, si serva pure, abbiamo dell’ottimo champagne” mi fece un signore corpulento dal viso visibilmente arrossato e prendendomi sottobraccio mi introdusse immediatamente alla conoscenza di un gruppetto di persone sedute all’ombra di un grosso ciliegio. “Monsieur De Pedris, monsieur Gianni Pacioli, Luca Migliorotti e consorte e la nostra Annette. La chiami Mathurine, sarà pronta a darle qualunque cosa...” e si abbandonò in una sonora risata.

Cominciarono i brindisi, dopo i primi tre, non si contarono più. Prima di venire completamente annebbiato dal vino riuscii a gustare dell’ottimo fois gras servito su pane imburrato e caldo, un melone tagliato a metà, scavato e riempito di vino Sauterne, due succulente fette di arrosto di agnello con patate alle erbe provenzali e poi un assortimento di dolci fatti in casa dalle esperte mani di Mathurine, gateau di albicocche, pain aux chocolat, tarte au citron, e se ciò non fosse bastato un vassoio di petite pâtisserie così fragrante che pareva essere giunta da Parigi in giornata. Cominciai a parlare francese o almeno così mi parve visto che fui bene accolto e partecipai a numerose conversazioni passando da un gruppetto all’altro. Tutti mi sorridevano.

Dominique, che avevo perso di vista, apparve di colpo e sorridendomi mi disse: “Allora ti piace l’allegra compagnia di Runo?” "Molto!" risposi. “Solo non capisco tutta questa bella gente, qui, in questo buco di paese con tutti i posti dove può andare in vacanza. Tu lo sai?” dissi con espressione interrogativa.

“Questo è il grande enigma” mi rispose Dominique, sorridendo. “Tu però ora mi sembri un po’ troppo alticcio per capire. Dopo a casa, quando ti sarai ripreso, ti farò vedere il risultato delle mie ricerche: ti dico solo questo, dai cognomi dei presenti risulta che tutti siano legati a doppio filo alle vicende di Leonardo Da Vinci. È come se i discendenti degli amici e dei conoscenti di Leonardo si siano dati appuntamento qui ma non capisco perché. Sembrano aspettare qualcosa o alla ricerca di qualcosa, non so...” aggiunse Dominique con la faccia seria. “È strano, non trovi?”.

“Oh, ma che storia è questa!” esclamai io ad alta voce, senza trattenermi. La mia esclamazione fu udita da Madame Janine che si avvicinò come insospettita; in realtà deviò immediatamente il discorso. “Mi riparli di lei e della sua attività di pittore, la prego” insistette aggrappandosi al mio braccio con gesto affettuoso. “Mi diceva di essere nato a Milano o sbaglio?” “Ah, non sbaglia. Milano è la mia città” risposi con decisione pur facendo fatica a reggermi in piedi. “E in che zona di Milano è nato?” “Sono nato proprio dietro a Santa Maria delle Grazie, all’epoca c’era un piccolo ospedale privato.” "Ma che bello!” rispose cogliendomi di sorpresa." Non credo ci sia un luogo più bello per venire al mondo” aggiunse. E volgendosi ai presenti tradusse velocemente in francese la nostra breve conversazione e tutti applaudirono. Io sorrisi facendo finta di capire e mi voltai per vedere l’espressione del viso di Dominique ma non lo trovai. Sulla sedia, accanto alla mia giacca trovai un biglietto con scritto:

Vado in aeroporto a prendere un’amica che arriva dall’America, ci vediamo stasera.
Preparati perché le emozioni forti sono appena iniziate. Le chiavi di casa le ho lasciate ad Annette.
Buona pennica.
Dominique

Annebbiato dal troppo cibo e dal troppo vino rimasi per gran parte del pomeriggio nel “giardino dei francesi”, assopito su un dondolo...