Quando era ragazzo, Luigi Limberti guadagnava qualche soldo dal pellettiere Poggesi che lavorava per Gucci. Firenze, anni Cinquanta: Guccio Gucci, fondatore di uno dei marchi più riusciti di sempre, aveva un laboratorio sul Lungarno e i negozi in via della Vigna.
Limberti andava a consegnargli le borse e chiacchieravano, a nessuno dei due importava della differenza di età. “Bisogna lavorare con passione e ricordarci che c’è qualcuno meglio di noi” gli diceva Guccio. Aldo, il figlio di Guccio, un signore che secondo Limberti aveva un cervello fino e vedeva gli scenari futuri con dieci anni di anticipo, osservava questo giovanotto che ciarlava col padre, lo aveva in mente.
Un certo giorno di oltre sessant’anni fa sulla passerella della storia della moda comparve un particolare esteticamente rivoluzionario che sarebbe diventato il sigillo della maison Gucci. Grazie a un ragazzo di nome Luigi, pronipote del vescovo di Firenze Giovacchino Limberti.
Quel giorno Aldo Gucci telefonò da Londra e il Poggesi non c’era. Rispose Limberti, oggi 86 anni e in attività. Non in ruoli onorari, in attività con le mani che accarezzano e plasmano pellami pregiati. “Sono a Londra e giovedì torno a Firenze - fece Aldo - Ho bisogno di una borsa, ma differente dalle altre. Invece della solita maniglia in pelle voglio il bambù. Vai dal Paoli [una bottega tradizionale fiorentina di canestri e paglie, ormai chiusa n.d.r] ne scegli una e la applichi a questa borsa”. Limberti non aveva nemmeno le cinquanta lire che servivano per l’acquisto, le chiese al Guccio che gliene dette cento.
“Sortii dal Paoli - racconta Limberti - e sull’uscio vidi un cesto con tutti pezzettini di bambù. Mi piacquero, pensai di farci dei portachiavi e li presi. Poi di volata a fare il modello della borsa per Aldo, feci mezzanotte. Aveva la pattina un po’ rotonda… presi la colla da falegname e ci attaccai il nottolino di bambù”.
Alla vista dell’inedita chiusura Aldo esclamò: “Che hai combinato?”. Il Limberti, pronto al rimprovero, ma convinto di quella scelta rispose: “Io la vedevo così”. “È un capolavoro” sentenziò Aldo, benedicendo la nascita della Bamboo bag che da allora, durante i decenni, è stata declinata in centinaia di versioni.
Da quel momento di felice inventiva Limberti ha sfornato milioni di borse, inclusi alcuni modelli per la Regina Elisabetta, che negli anni Sessanta non era ancora schiava del Made in Great Britain, per Sofia di Spagna, per Paola di Liegi.
Borse per Gucci, ovviamente, Fendi, Ralph Lauren, Tiffany, Manolo Blahnik, Ballantyne, Loro Piana, Paloma Picasso, Vionnet, Mark Cross, Versace, Bulgari, Céline, Tom Ford, Barry Kieselstein, Lancel, Ferragamo, Versace, Tod’s, Marni, Kate Spade. Per Clemente e Ottino, i due più reputati negozi di pelletteria di lusso a Firenze.
“Una caratteristica del babbo - spiega la figlia Gianna, in azienda dalla maturità linguistica, che ha preso dal padre il gusto secolare degli artigiani fiorentini, al quale aggiunge una personalità indipendente - è che si sono affacciati loro, tutti. Lui non ha mai cercato nessuno”.
Limberti, il Limbe per gli intimi, si mise in proprio nel novembre del ’59, in una casa di contadini nel quartiere di Coverciano dove, fra i polli che razzolavano, preparò il primo campionario. Erano passati sedici anni da quando aveva cominciato a maneggiare gli utensili del pellettiere, da ragazzino, in tempo di guerra, da Redi e Rossi che facevano borse e valigie in via Aretina.
Nell’ottobre del ’44 partecipò alla produzione di diecimila portafogli in coccodrillo per l’ottava armata: un modo per ringraziare i soldati americani. Con i pellami pregiati ha dimestichezza fin dall’infanzia, come potrebbe tollerare quelli mediocri? Fa fuoco e fiamme quando glieli propongono.
Come fu al principio, da solo?
Cominciai con un campionario per il Rossi di Bologna, che sarebbe poi diventato Borbonese. Gli portai dodici modelli, attraversando l’Appennino con la Seicento. Ne scelse otto, ordinando 480 borse! Mi chiesi: e ora come fo? Non avevo nemmeno i soldi per comprare la pelle. Andai da Fosco Tamburini della ditta Meucci e Tamburini e gli dissi che dovevo fare le borse, avevo solo 130 mila lire, mi mancavano i pellami, i metalli, ogni cosa. Rispose: sei venuto sincero, prendi quello che vuoi.
Verrebbe da commentare, storie gloriose di un altro tempo. Ma forse è meglio evitarli, certi commenti… Appaiono polverosi. Poi che avvenne?
Mi mandò un telegramma il Vogini di Venezia, un negozio prestigioso di piazza San Marco. Non avevo il telefono. E mi spiegò che il Rossi di Bologna gli aveva parlato di me, che cominciava il turismo e che per Pasqua avrebbe voluto le mie creazioni. Lavoravo sempre, sabato, domenica, la mamma di mia figlia Gianna, camiciaia, cuciva le borse.
Dopo dieci giorni arrivò un telegramma di Ceresa, simbolo della Dolce Vita di Roma. Piccino così, hai il nome grande, mi dissero da Ceresa. Ordinarono trecento borse per modello. Presi due operai, uno a scarnire, un macchinista.
Inarrestabile. Nel frattempo che ne era del rapporto con Gucci?
Incontrai Paolo, il figlio di Aldo, che mi disse: il babbo è un po’ che ti cerca, ti installo io il telefono. Mi fece Aldo: tu sei una carogna, lavori per la concorrenza. D’ora in poi devi lavorare solo per noi. Non si può lavorare per uno solo, gli risposi. Fu nel ’62 che con Aldo si fecero le borse per la regina d’Inghilterra. Ci mandavano i cappellini per fare le borse in pendant. In quegli anni conobbi la mamma delle Fendi, la Casagrande, che voleva fare concorrenza a Ceresa. Céline insisteva perché smettessi di lavorare per Gucci e lavorassi solo per loro.
Parliamo un po’ degli stilisti con i quali ha collaborato. Anna Fendi?
Molto carina, affettuosa. Con delle figlie affettuose.
Paloma Picasso?
Una donna intelligentissima e simpatica. Arrivava, si levava le scarpe e si sedeva sul tavolo.
Tom Ford?
È uno stilista di abiti. Una volta mi chiese di fare una borsa che secondo me aveva proporzioni sbagliate. Ne feci due: una come aveva detto lui e una a modo mio. Gli mandai prima la mia e lui disse: me l’aveva criticata tanto, ma è perfetta. Quando poi scoprì la verità ammise: mi ha preso per i fondelli, ma aveva ragione.
Sua figlia Gianna mi ha detto che la chiamano maestro
Ho il senso delle proporzioni, questa è la mia fortuna. La borsa è un contenitore, quella da sera ha un senso, quella da giorno ne ha un altro ma, in ogni caso, deve essere proporzionata, ‘movimentata’ e curata nei dettagli. Le cuciture, per esempio, sono importantissime. Mi accorgo subito se una borsa è cucita a mano.
Il suo entusiasmo non sfuma, vero?
Faccio progetti anche a cinque anni [gli vien da ridere n.d.r.]. Ho appena realizzato delle borse gigantesche in occasione del cinquantesimo della Ralph Lauren: per le vetrine di Madison Avenue, di Parigi: sono alte un metro e mezzo e larghe un metro e trenta. E ne sto preparando altre. Saranno una decina in tutto. Guardi la foto della Giannina dentro la borsa!
E mi piacerebbe tanto diventare Cavaliere del Lavoro.
La figlia pensa che sarebbe un giusto coronamento: “Il babbo ha insegnato a tutti, veramente. Dalle concerie vengono a chiedere pareri sui pellami. In Corea c’è una scuola dedicata a lui. Colossali maison francesi lo interpellano quando sono alle prese con problemi insormontabili, per esempio con i modelli in coccodrillo. E, soprattutto, ha insegnato il rispetto per gli altri e l’onestà”.