In cosa consiste il “servizio” della moda? La moda è “maniera”. Le maniere sono figlie del loro tempo e di un patrimonio culturale legato all’essere sociale dell’uomo. Noi mastichiamo di moda, di modo: di maniera. Noi capiamo che atteggiarsi e vestirsi crea il ponte dell’accettabilità con il sociale del nostro quotidiano. È quanto di più concreto del processo immaginativo di accettazione del sé.
La moda è mediazione dell’immagine attraverso il sentimento e l’atmosfera del proprio tempo. Ma noi siamo anche ego, anzi sommamente ego e perché mai, allora, dovremmo sottostare all’occhio altrui? Semplicemente perché l’ego necessita di comparazione e distanza. Non una distanza, ma la distanza come metro: qualunque esso sia, tra noi e l’altro.
Sappiamo però di essere unici, ma anche questo non ci allontana dallo schema del giudizio, in quanto costantemente interconnessi alla coscienza nelle sue multiformi esperienze di crescita, positiva o negativa, che si processano a contatto con l’altro e ci “sottopongono” all’osservazione sociale. Se siamo unici perché abdicare all’unicità? La domanda è mal posta in quanto l’unicità permane a prescindere, ma noi ci immergiamo nell’illusione di essere piatti, privi di deformità rispetto al sentore comune che di fatto attende solo di essere disatteso dal “formidabile”.
La “permeabilità collettiva” deriva da un’immagine accreditabile nel nostro contesto di vita e magari addirittura desiderabile, ma prima che questo accada ci giunge sempre da una rivelazione e da una funzione escatologica: la risoluzione funzionale di un “Principio”. La moda ci regala costantemente una promessa di unicità che rapida si dissolve all’atto del suo essere emulata. Questo è la base della sua esistenza: il suo “Principio”.
Se la moda fosse davvero solo quella dei nomi che in essa operano: stilisti, direttori creativi, buyer, fotografi, giornalisti ecc. sarebbe legata al mero consumo, o ad un esercizio elitario, ma noi sappiamo che è molto di più di un’azione consumistica ed esclusiva, perché nei modi c’è la mimica, il respiro, il pensiero, l’impaginato dell’uomo con l’altro e dell’uomo attraverso l’altro, il rapporto con la natura e con il suo artificio, il fatto che la contempla in qualità di accadimento. Non è un settore ma, come detto in apertura, è maniera.
La moda ha a che fare con l’architettura ed il divino, contempla il ruolo e la sua demistificazione, accede al patrimonio culturale e lo plasma, lo arricchisce, deforma ed informa: è una grande abrasione rispetto al noto e la sua grande mammella a cui attribuire responsabilità e nutrimento perché parte integrante del costume. Chi di moda ferisce di moda perisce?
Se la questione è l’atteggiamento, la postura rappresentativa nella corte umana, probabile che nel giudizio subito per l’accettazione, ci sia l’uncino fustigatore, di ritorno, sul giustiziere e che da giustiziere divenga, a sua volta, giustiziato perché anch’esso giudicato. Ma da chi? Dal “comitato” che stila i migliori? Esiste? E chi sono? Chi determina che a determinare i migliori siano determinati soggetti? Quale carisma possiedono? Quando si può stabilire un fermo alla scala gerarchica dei giudicanti e dei giudicati?
Dai tempi di Eleonor Lambert, che nel 1940 lanciava l’International Best Dressed List, ad oggi, i meglio vestiti del globo o, meglio ancora, chi lo stile lo fa e lo rappresenta, sono mutati geneticamente. Costoro appartengono più all’emblema di un atteggiamento che all’insieme originale degli atteggiamenti. La comunicazione al riguardo si è centuplicata e tale elenco non ha più ragione d’essere.
La diffusione della creatività su larga scala, come espediente comunicativo di soggetti da investire di una qualità apparente e di per sé alla moda, ha ridotto il termine alla sola fonetica perché divenuto spendibile al di là del vero del suo contenuto.
Creatività è tutto: dagli espedienti per sbarcare il lunario, all’evitare un litigio, al cercare una relazione o la sua stabilità ecc. La natura del termine definisce infinite traiettorie, ma noi le applichiamo solo al visibile dello stile. Creatività è la soluzione continua dei quesiti quotidiani. L’atto creativo è dopato e le professioni emerse dal doping sono cresciute esponenzialmente. Il concetto di influenza creativa si lega alla preminenza sociale per qualità che sembrano coincidere con l’influente.
Il taglio “alla paggio” della Garbo era una sua caratteristica che permaneva oltre il ruolo che essa interpretava. Il suo essere attrice e, come tale, medium delle emozioni dei personaggi del grande schermo e del suo pubblico, aveva un riscontro immediato a livello psichico/emotivo ed entrava nella narrativa formale del quotidiano attraverso l’esperienza sensoriale della Settima Arte per immedesimazione con una narrazione: dunque, anche i suoi capelli e la loro maniera di essere acconciati.
Agnelli era un imprenditore ed i suoi marcati fuorigioco dalle regole del ben vestire sono divenuti archetipi di un “modo” che è entrato nella top ten dell’eleganza come corrispondenza armonica tra ciò che appare e ciò che ne pondera i contenuti.
Oggi si è giunti ad una deriva comportamentale che fa di ogni ruolo, preminente, un soggetto da contratto per uno stile da vendere, al di là della coerenza Etica ed Estetica e del contenuto specifico. Forse la maturazione personale delle proprie forme e dei propri sentimenti non può più bastare.
Lo Zeitgeist di matrice filosofica-romantica, tedesca, ha subito una mutazione di ritmo in questo nostro scorcio di secolo che non ha eguali nella storia. Le forze agenti dell’oggi spingono verso la superficie ogni valore: il segno è più del fatto, l’immagine vince sulla narrazione e quest’ultima appare come fondale da giustificatore semiotico.
L’essere sempre nuovi, all’apparenza, è divenuto un lavoro nel lavoro e si gravita nell’ambito del consumo, per fare di sé il primo bene da spendere a livello retinico. Ora l’essere nuovi è un click sul telefono che si moltiplica all’infinito ed è un’educazione mentale all’ostensione pubblica del proprio corpo a prescindere dalle qualità intrinseche di quanto si rappresenta. Se guardiamo, ad esempio, gli operatori del settore moda sono sempre con una loro divisa che poco muta: ancorati ad una pagina formale. Cosa li rende impermeabili alle influenze del settore?
“Lo stile… - quello citato da Chanel, che “rimane” mentre - “…la moda passa”.
Guardando agli attori del Fashion System e al loro modo di rappresentarsi rispetto ai proclami, sembra di assistere a quelle narrazioni storiche, legate all’ipotesi di una superiorità estetica (propria dei sistemi dittatoriali), configurata da determinati tratti e comportamenti da perseguire e raggiungere dove i teorizzatori sono i primi a contravvenire al canone proposto/imposto. Strano a dirsi ma è spesso così.
La moda non è dittatoriale ma suggeritrice psicotica dell’accettazione sociale: il vettore tecnologico (cellulare ed affini) la impone, “ologrammata", al nostro fianco ogni istante per alimentare il senso di alienazione per tutto ciò che ci appare da più di un giorno: neo-Eva che ci porge il frutto del pionierismo formale più inespugnabile in nome dell’eterna giovinezza nel nuovo.
La moda è divenuta pressione simultanea e costante, dell’universo comunicazione e nella sua ossessiva azione d’impressione sulla mente si divora ad una velocità supersonica e di essa non lascia sentenze ma solo pochi simboli e qualche lettera, monogrammi da usare, modi bicarbonato, dopo un’indigestione. La maniera del tempo sembra divenuta quella di un suo sottomultiplo: l’istante. Ecco quanto dura un direttore creativo alla guida di un marchio, oggi. Neppure le competenze sono necessarie, servono visibilità e vivibilità ecumenica: il piacere a tutti per sopprimere il rischio.
Il tempo passa e le mode cambiano ma di fatto a passare siamo noi che diventiamo sempre verbo di nomi che portiamo e non conosciamo, esseri monocorde, connessi allo stile globale che non ti contempla se non come segno da normalizzare per riemetterlo ogni volta sulla strada dello straordinario che non c’è, o c’è sempre meno.
Il tempo non esiste e dobbiamo per questo guardare alle nostre responsabilità. Cercare lo stile oltre i modi imposti, attraversando l’altro come conoscenza e territorio del rispetto e forma ideale di armonia del genuino bisogno di esprimersi.
L’alterità è il primo valore da coltivare e con essa il ragionevole dubbio che sta alla base del “Ragionamento”: ecco come dall’interno si giunge alla visione di una forma d’arte che chiamiamo “Stile”. L’asceta non percepisce il tempo e vive la sua dimensione interiore.
La superficie va ponderata per il raggiungimento del “Proprio Universo Estetico” dove nel “Proprio” si rintraccia il bene, e da questa apparente traccia egoistica si giunge alla trascendenza dal giudizio e alla pienezza della propria cosciente visione.