Da laureata in Scienze Agrarie e giornalista botanica, mi indispettisco ogni volta che leggo, su giornali cartacei e online, ma peggio ancora nei libri, notizie scorrette sulle piante, le loro caratteristiche, esigenze e nomenclatura. Una disinformazione dannosa, che allarga a macchia d’olio la dilagante mancanza di cultura in fatto di botanica, progettazione e cura degli spazi verdi e induce all’errore gli appassionati, ma spesso anche i professionisti del settore, e a varie disavventure in giardino, con conseguente rinuncia a coltivare alcune piante. Ciò purtroppo accade anche con alcuni dei libri pubblicati, che come tali dovrebbero invece avere un maggiore controllo da parte dell’editore o comunque dei responsabili editoriali.
Attenzione inoltre ai testi di valore, quando scritti da autori stranieri (perlopiù anglosassoni): nel riportare dimensioni delle piante, velocità di crescita, epoche di fioritura, limiti di rusticità, esigenze pedoclimatiche ecc. si riferiscono infatti alle caratteristiche dei loro climi e terreni. Ciò che scrivono è di per sé corretto, ma andrebbe interpretato e adattato all’Italia, che tra l’altro è caratterizzata da una moltitudine di microclimi e terreni molto più complessa e variata di quella relativamente semplice di altri Paesi, come la Gran Bretagna.
Cominciamo con una certezza: tutte le piante autoctone (cioè originarie) di un luogo o di luoghi dalle caratteristiche simili (pensiamo ai cipressi della specie Cupressus sempervirens, caratteristico di tanti paesaggi italiani, ma in realtà arrivato dall’Iran e dall’area orientale del Mediterraneo) nelle proprie zone crescono senza problemi, mentre, per coltivare con successo, e senza troppe complicazione le specie esotiche, occorre dare loro situazioni simili a quelle delle terre di loro provenienza.
Iniziamo con alcuni esempi inerenti alla rusticità, ovvero la resistenza al freddo. La più semplice tabella di riferimento è quella inglese: una pianta è delicata se richiede almeno +5 °C, semi-rustica se tollera fino a 0 °C, rustica che sopporta gelate fino a -5 °C, completamente rustica se arriva a -15 °C ultra rustica da -15 °C fino e oltre. Più complessa la classificazione dell’USDA, il Dipartimento di Agricoltura degli Stati Uniti, secondo la quale l’Italia si suddivide in sette zone e tredici sottozone climatiche, identificate ciascuna con un numero da 5 a 11, corrispondenti a temperature minime comprese fra -28,8 °C e +4,5 °C.
Tuttavia, oltre alle temperature minime invernali, bisogna tenere conto sia di quanto durano e sono frequenti le gelate, sia come sono state le estati precedenti. Consultando la mitica l’Enciclopedia delle Piante dell’inglese Royal Horticultural Society, anche tradotta in italiano, si scopre che oleandri, mimose (scientificamente acacie, tutte esotiche), abutilon (ottimi arbusti a fioritura estiva-invernale in base al clima) e il profumato Osmanthus fragrans (già Olea fragrans) vengono considerati semi-rustici, anzi gli oleandri addirittura delicati, e quindi ritirati in serra in inverno o lasciati all’aperto solo in zone particolarmente miti grazie alla Corrente del Golfo, come la Cornovaglia e le isole meridionali.
Eppure, da noi le medesime specie sono decisamente rustiche e tollerano brevi gelate anche fino a -10/12 °C. Allo stesso modo, in Gran Bretagna le gardenie sono considerate delicate, mentre nel nostro Paese, purché siano di coltivazione italiana, sono semi-rustiche. Il motivo è questo: le estati italiane, lunghe, asciutte e molto calde, ne favoriscono la lignificazione dei tessuti e di conseguenza la rusticità (a patto che non le si innaffi e concimi con troppo azoto), mentre le estati inglesi, piovose e fresche, le rendono più tenere e, quindi, più sensibili al freddo.
Al contrario, camelie, rododendri e ciliegi da fiori, originari di climi anche freddi ma mai troppo caldi, in Inghilterra, Belgio, Francia continentale e settentrionale stanno ancora d’incanto, mentre nelle nostre pianure e città settentrionali, salvo condizioni particolarmente fresche (cortili ombrosi e terrazzi a Nord) oggi soffrono, stentano e si ammalano (i ciliegi in particolare, nonostante le amministrazioni comunali si ostinano a utilizzarli).
Anche il terreno ha la sua parte: le piante mediterranee come lavande, cisti, rosmarini, Convolvolus cneorum, corbezzoli e filliree, ma anche quelle provenienti da terre dal clima analogo (Australia sud-occidentale, Maghreb e regione del Capo in Sudafrica, Cile centrale e California costiera), possono tollerare piuttosto bene il gelo invernale, ma solo se il terreno è ben drenato, ovvero ghiaioso o sabbioso, in altre parole se non vi si verificano ristagni idrici, come sanno bene gli Inglesi, che, infatti, le coltivano praticamente nella ghiaia.
Sempre a proposito di terreno: attenzione a seguire i consigli dei libri inglesi sulle specie adatte ai suoli argillosi, perché si riferiscono all’Inghilterra, dove la presenza di argilla è assai minore che nei nostri. Pensate ai nostri calanchi e altri nostri terreni fortemente argillosi, durissimi, calcarei… solo poche piante possono crescervi senza problemi: alcune ginestre, la rosa canina, lo scotano (Cotinus coggygria) e poche altre, che poi sono quelle che vi si trovano in natura.
Anche la crescita delle piante è influenzata dal clima e dal terreno: nelle condizioni a loro ideali crescono di più e più in fretta. Un esempio: sulle colline e intorno ai laghi, freschi e miti, i cornioli a corteccia colorata si allungano anche di un metro all’anno, mentre nelle accaldate pianure, così come se coltivati in vaso, si sviluppano solo di pochi centimetri e, dunque, la potatura necessaria per conservare la corteccia colorata, tipica dei rami giovani, sarà minore.
Altri esempi: il magnifico albero dei tulipani (Liriodendron tulipifera) e le querce rosse americane (Quercus rubra e Quercus coccinea), che nella loro terra di origine, il Nord America orientale, raggiungono rispettivamente i 30, i 25 e i 20 metri di altezza, da noi, pur raggiungendo buone altezze, rimangono più bassi. Al contrario, molte varietà nordeuropee di rose, come le Rose Inglesi (create a partire dalla metà degli anni Sessanta dall’ibridatore David Austin), nella patria di origine si comportano da cespugli ordinati e compatti, alti in genere 90-110 centimetri, mentre da noi, a causa delle nostre maggiori temperature e intensità luminosa, diventano anche il doppio, con lunghi rami indisciplinati: da evitare, quindi, sui terrazzi.
Lo stesso accade con le epoche di fioritura indicate dai testi inglesi: per esempio, le rose definite “rifiorenti”, se selezionate nei climi freschi, effettivamente fioriscono in continuazione da maggio in poi in Inghilterra, ma anche Francia settentrionale, Belgio, Germania, Paesi Scandinavi e altre zone simili, ma in quelli caratterizzati da estati calde e luminose, come il nostro, in genere si interrompono nei mesi più torridi e poi ricominciano all’arrivo del fresco.
Molte altre piante anticipano la fioritura di uno-due mesi, altre ancora vanno avanti a sbocciare per tutto l’autunno fino ai primi geli, o addirittura, nel nostro Meridione, non smettono praticamente mai. Tuttavia, non per spaventatevi o scoraggiatevi: abbiate cura, però, di cercare le informazioni che vi occorrono solo su siti e in libri accreditati, quindi, esaminate con senso critico e spirito di osservazione, chiedendo lumi ai nostri vivaisti e giardinieri più bravi.
A ciascuna il suo nome corretto
E torniamo allora all’importanza, anche per i semplici appassionati, di conoscere e utilizzare il nome scientifico corretto: non è per pedanteria o vezzo, bensì perché indispensabile per evitare confusioni e sapere di cosa si stia parlando esattamente. Fresca di laurea, nel lavorare per un istituto di ricerca di Milano, dove svolgevo analisi organolettiche sulla frutta e sui pomodori (il che voleva dire schiacciarne a tonnellate per estrarne il succo da esaminare), ho incontrato una giovane collega del Madagascar: lei parlava francese, io inglese, nessuna delle due conosceva i nomi comuni delle piante nell’altra lingua, ma ci siamo intese benissimo indicandole con il nome scientifico in latino, un binomio corrispondente al nostro cognome e nome. Da quest’ultimo, inoltre, si può dedurre molto a proposito delle caratteristiche, origini, esigenze climatiche e culturali di una pianta.
Fino a tutto il Settecento, il latino è stata la lingua della cultura internazionale e i botanici e naturalistici lo utilizzavano per indicare le diverse specie botaniche e animali, poiché i nomi comuni variavano da paese e paese. Tuttavia, utilizzavano una lunga serie di termini, descrittivi, con molte sovrapposizioni fra le diverse specie e conseguente confusione. A portare chiarezza una volta per tutte fu il medico e naturalista svedese Carl von Linné, per noi Carlo Linneo, che fondò la moderna sistematica e riformò la nomenclatura scientifica, ideando il metodo di classificazione che appunto assegna agli organismi viventi due nomi (nomenclatura binomia): uno per il genere e uno per la specie. La nuova nomenclatura linneana divenne la "lingua comune” delle scienze naturali.
Secoli dopo, nel 1952, venne pubblicato il Codice Internazionale di Nomenclatura Botanica, in seguito rivisto più volte, che stabilisce i principi per dare il nome alle piante. Da qualche tempo, dopo l’arrivo delle analisi del DNA, i botanici si stanno impegnando a riclassificare molti generi e specie, con relativi cambiamenti dei nomi botanici e anche tassonomici, cosa che sta disorientando un po’ tutti, ma che porterà alla fine a una definitiva chiarezza.
Come si scrivono i nomi scientifici delle piante
I due termini che indicano il cognome e nome di una pianta, ovvero il genere e la specie di appartenenza, vanno scritti in corsivo, il primo con l’iniziale in maiuscolo, il secondo tutto minuscolo (Quercus ruber, Malus sylvestris, ecc.). Si utilizza il corsivo anche per le sottospecie, eventualmente premettendo la scritta “subsp.”, e le varietà nate spontaneamente, come in Rosa banksiae banksiae e Rosa banksiae alba.
Le varietà ottenute dall’uomo, mediante ibridazione e successiva selezione, e che più propriamente si chiamano cultivar (da cultivated variety), vanno invece scritte in tondo (cioè non in corsivo), con la prima lettera maiuscola e una virgoletta all’inizio e alla fine, come in Rosa banksiae ‘Lutea’ e in Nerium oleander ‘Album’.
Gli ibridi, derivati da incroci fra due specie allo stesso genere, si scrivono in corsivo (iniziale del genere in maiuscolo), con una “x” in tondo in mezzo, come in Hamamelis x intermedia. Se invece l’ibrido deriva dall’incrocio fra specie di generi diversi allora la lettera “x” precede il nome genere, come in x Cuprocyparis leylandii, o cipresso di Leyland, ibrido fra Cupressus macrocarpa e Callitrpis nootkaensis.
Cosa racconta il nome di una pianta
Dalla nomenclatura binomia si possono ricavare informazioni utili per quanto riguarda caratteristiche morfologiche, epoca di fioritura, origini territoriali, tipo di clima e ambiente di origine. Altre volte, il termine generico o specifico deriva da qualche eminente botanico, studioso, personaggio dell’epoca in cui una specie venne scoperta o introdotta in Europa, ma anche in questo caso si possono spesso dedurre notizie utili, come la zona di origine, sapendo che il “cacciatore di piante” al quale la pianta è dedicata ha lavorato in particolare in determinati territori.
Ecco alcuni esempi:
acutifolia, acutifolius, acutifolium: con foglie che terminano a punta, come in Begonia acutifolia.
africanus, africana, africanum: proveniente dall’Africa, come in Agapanthus africanus.
agrestis: che cresce nei campi, come in Fritillaria agrestis.
alpinus, alpina, alpinum: proveniente dalla regione delle Alpi, come in Pulsatilla alpina.
altaicus, alcaica, altaicum: proveniente dalle montagne dell’Altai, in Asia centrale, come in Tulipa altaica.
chiloensis, chiloensis, chiloense: proveniente dal Cile, come in Fragraria chiloense.
chinensis, chinensis, chinense: proveniente dalla Cina, come in Stachiurus chinensis.
douglasianum, douglasiana, douglasianu, douglasii: dal nome di David Douglas (1799-1834), prolifico cacciatore di piante scozzese, che ha introdotto in Europa molte piante dall’America settentrionale, come in Limnanthes douglasii.
majalis: che fiorisce in maggio, come in Convallaria majalis, il mughetto.
patanicus, patagonica, patagonicum: originario della Patagonia, come in Sisyrinchium patagonicum.
pauciflorus, pauciflora, pauciflorum: con poco fiore, come in Corylopsis pauciflora.
sargentianus, sargentiana, sargentianum, sargentii: da Charles Sargent (1841-1927), dendrologo e direttore dell’Arnold Arboretum, a Harvard, Usa, come in Prunus sargentii.
thunbergii: dal Carl Peter Thunberg (1743-1828), botanico svedese, come in Spiraea thunbergii.
Se volete saperne di più sulla nomenclatura botanica, le origini dei nomi delle piante e molto altro ancora, leggete il libro Latino per giardinieri, di Lorraine Harrison, tradotto in italiano dall’architetto paesaggista e storico di giardini Filippo Pizzoni per Tommasi Editore.
Per concludere, laddove il contesto lo richieda o permetta, utilizziamo pure il nome comune delle piante (quanto esiste, in italiano ve ne sono pochi e poco differenziati), ma al plurale e non al singolare: “i tulipani“ e non “il tulipano“, “le querce“ e non “la quercia“, perché vi sono innumerevoli tulipani e querce, con caratteristiche ed esigenze anche molto diverse.