Da quando ero giovanissima, per anni mi sono sentita ripetere che “viaggiare non produce alcun cambiamento, puoi esplorare un intero continente, vedere cose mai viste prima, ma alla fin fine ti ritroverai sempre davanti il vecchio te stesso”.
Ora, con il senno di poi e migliaia di chilometri alle spalle, posso affermare senza alcun dubbio che ci sono due soli modi per spiegare l’assoluta infondatezza di questa tesi: o chi l’ha sostenuta mentiva spudoratamente, o non aveva mai viaggiato.
Viaggiare mi ha permesso di scoprire una me stessa mutevole e cangiante, mi ha insegnato a essere un camaleonte: la mia pelle ha iniziato ad adattarsi e interagire con l’esterno, non più una barriera tra me e ciò che mi circondava ma un prezioso sensore. Ho scoperto la differenza tra ciò che è necessario e ciò che è superfluo, ho imparato ad affrontare gli imprevisti, a sbagliare senza farne un dramma, a dividere il mio spazio con altri esseri umani, a fermarmi e osservare. Ho scoperto la diversità e la fratellanza, la sensazione che si prova a sentirsi stranieri in un luogo sconosciuto, la non appartenenza mi ha fatto capire la dimensione più profonda dell’inclusione.
Viaggiare è una porta su intere galassie di trasformazioni e cambiamenti possibili.
Ovviamente non sto parlando dello spostarsi in gruppo da un posto a un altro collezionando impressioni banalizzate e brutte foto, tipico del turismo di massa, ma neppure del viaggio individuale in cui ogni tappa è già stata decisa e programmata da casa e in cui chi parte lo fa già zavorrato da prenotazioni che tolgono le forze a ogni tentativo di improvvisazione.
Sto parlando del viaggio che vive di vita propria e si forma giorno dopo giorno strada facendo, in cui i buoni progetti vengono smontati e abbandonati lungo la via per dar spazio a una realtà inimmaginabile e imprevedibile. Il viaggio di cui la direzione non si decide ma in cui si viene trascinati, le cui tappe vengono stabilite al momento e sono frutto di suggerimenti trovati per caso, consigli di altri viaggiatori e di una sorta di intuizione che ti spinge in una direzione piuttosto che un’altra.
Viaggiare dà la possibilità di lasciarsi alle spalle le proprie certezze e scoprire quanto queste siano influenzate da pregiudizi, regala l’occasione di rimettersi in gioco e riscoprire l’emozione dell’avventura, percepire l’esistenza come un vento che porta un profumo sconosciuto: basta essere disposti ad aprire le narici dell’anima.
Ogni persona che viaggia è alla ricerca di qualcosa di nuovo, nuovi panorami, nuovi odori, nuovi amici, nuovi sapori. Della sensazione di essere diversi da prima perché circondati da cose diverse da prima, quella sensazione che ci fa percepire l’esistenza di un “adesso” meno consueto, e meno consunto.
Ma la vera essenza del viaggio non è cercare ma abbandonarsi, lasciandosi alle spalle la propria routine e entrando in mondi in cui la sicurezza di una familiare ripetitività viene sostituita dall’insicurezza dello sconosciuto, ingrediente essenziale per raggiungere le più alte vette di quello stato che rappresenta una delle maggiori gioie nell’esperienza del viaggio: lo stupore.
Io viaggio quasi sempre da sola, e la domanda più frequente che mi viene rivolta a tale proposito è “ma non hai paura?” a cui segue immediatamente l’asserzione: “Io non avrei mai il coraggio di farlo”.
Come se l’essere coraggiosi fosse una caratteristica inscritta nel proprio patrimonio genetico, una qualità innata, mentre è una disciplina che si apprende e si perfeziona con costanza ed esercizio. Il viaggio allora diventa un Dojo dove apprendere e sviluppare l’arte del coraggio.
Ma c’è un altro aspetto ancora più importante: il viaggio può essere il Monastero in cui si impara a comprendere la paura.
Perché abbiamo così paura della paura?
Perché è una emozione forte che sfugge al nostro controllo e che quindi cataloghiamo come ingestibile.
E allora fuggiamo.
La fuga non fa che amplificare l’iniziale senso di panico e ci impedisce di cogliere l’essenza di quello che proviamo, costringendoci ad arroccare in spazi limitati dove troveremo una apparente sicurezza assai fragile, che andrà quindi difesa costantemente e a qualunque costo: la nostra incolumità apparente allora non è altro che una gabbia, che tende a rimpicciolire.
Viaggiare ci consente di superare molti dei tanti limiti che ci siamo imposti, e mentre i nostri orizzonti si allargano, i confini della nostra anima si aprono includendo nuovi territori emotivi.
Forse questo è di per sé un motivo sufficiente per decidere di aprire la porta e partire per un viaggio in cui misurare le proprie forze e le proprie paure, scoprendo che le prime sono infinitamente maggiori delle seconde.
Il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma.
(Bruce Chatwin)