Immaginate di trovarvi in una stanza, seduti in cerchio, con delle persone intorno a voi pronte a staccarvi la carne di dosso, il cuore dal petto.
Immaginate un'aula chiusa, con un po' di luce che illumina il tavolo che fa da muro tra voi e e belve, tra voi e gli aguzzini. Un muro che separa il male dal bene e poi ammassate sulla destra tante, tantissime inutili carte. Immaginate poi il cuore il gola e tutta la vostra vita davanti, tutti i momenti uguali a quello che state vivendo, in un susseguirsi di flashback e ricordi terribili che s'inseguono. Immaginate di essere fatti a pezzi.
Livia era lì mentre io le reggevo la mano. Lei non cacciava una lacrima ma sentivo le sue mani sudare, scivolare via dalle mie. Stava forse perdendo i sensi, allontanandosi da quella realtà. La stava osservando, anticipando ogni mossa del nemico. Come ha potuto tacere? Come ha potuto permettere che venisse accusata? Chiunque, al posto suo, si sarebbe alzato, avrebbe fatto la voce grossa, inveito contro quello bocche crudeli, quegli sguardi assassini. Chiunque si sarebbe almeno difeso.
Livia però era così. Lei non era chiunque. Non avrebbe mai potuto reagire nel modo in cui tutti si aspettavano. Camminava su binari differenti e quell'incomprensibile carnevale, quella lotta dei buoni contro i cattivi non le piaceva affatto. Le sue occhiaie, profondissime, le scavano il volto paffuto, sembrano tunnel infiniti di dolore non ancora narrato e la bocca un cuore capovolto. Un cuore palpitante e sofferente.
Le avrei voluto chiedere perché non fiatò ma arrivò presto il mio turno. Toccò a me fornire le spiegazioni impeccabili per giustificare l'imbroglio collettivo. Toccò a me esibire le doti da abile incantatrice e salvare Livia dalla punizione per qualcosa che non aveva mai commesso. Mi sentivo Giovanna D'Arco. Nulla mi avrebbe fermato in quell'istante. «Martina, allora? Cosa è successo?» chiese colei che comandava quei cani sciolti.
Cominciai a elencare i motivi che ci avevano spinto a credere nella buona fede di quella gente dal sorriso quasi limpido. «Una volta letti i documenti, sembrava fosse tutto in regola, non ci siamo accorte di nulla; non ci siamo accorti che quei ragazzi lì stavano barando, aggiunsi. Ci hanno incastrato». Quei commedianti ci avevano incastrato davvero e l'avevano fatto anche esibendo un certo orgoglio. Ora abbiamo venduto tutto: la casa, il terreno, forse la dignità. Firmammo quelle carte come ammissione delle nostre responsabilità ma nessuno seppe davvero come andarono le cose e il dubbio s'insinuò per sempre.
Livia smise di dormire, ormai sveglia al pensiero di colpire le prede, tutte quelle che le avevano tolto il sonno. Tutte quelle facce inquietanti che avevano fatto di lei il solo capro espiatorio. Si può restare anche senza voce dopo un trauma del genere. Lei voleva fare l'insegnante non essere costretta ad agire nell'illegalità, non essere tramortita dalla paura.
Immaginate di camminare trascinando continuamente dei pesi, di essere incatenati. Avete una sola speranza e l'avete riposta in quella persona che per voi non ci sarà mai. E non ci sarà perché ha scelto di non esserci. Fabrizio l'aveva lasciata, per sempre, alla fermata del tram, dicendole che aveva preteso troppo e che era stato tutto magnifico, fino a quel momento, ma finito. Livia si era aggrappata a quell'uomo per fuggire dalla sua solitudine. Un copione che si ripete, penserà qualcuno ma, davvero, in quel preciso momento della sua vita, lui era l'unica cosa bella che possedeva, una magra consolazione dopo anni di rinunce. Attorno solo voci assordanti e figure indefinite. Il mondo, a un certo punto, non vi interessa più ma le vostre impronte sono ovunque, non potete cancellarle, non potete dimenticare ciò che siete stati.
Si può sprofondare nella depressione in un secondo, senza accorgersene. Basta un soffio leggero e crolla tutto. Crolli anche tu e ritornano tutti i mostri, a uno a uno. Livia sapeva cosa aveva, eccome, ma era fin troppo brava a dissimulare. Si trovava in uno stato in cui avvertiva sulla sua pelle che tutto sarebbe cambiato per sempre. Qualsiasi evento, nella sua vita, si sarebbe trasformato in una tragedia. Avremmo potuto essere sedute a quel tavolo come da qualsiasi altra parte.
Basta davvero poco a stravolgere un'esistenza. La depressione poi non la spieghi, non la combatti subito ma l'accogli come una nuova compagna. Le dai una possibilità e la confondi con i lunghi periodi di riflessione che ti concedi.
Le stavo sempre accanto, pensando di potermi sostituire a uno dei suoi amori immaginari tanto attesi. Livia mi scrisse una lettera, me ne scriveva sempre, in verità. Le sue erano grida d'aiuto. Mi raccontava dei suoi incubi, di questa sua nuova amica che, anche se non la teneva chiusa in casa, le chiudeva l'anima. Mi raccontava di come tutti le sue giornate si somigliassero, del telefono che non squillava mai, del disordine che la circondava e delle parole vuote. Iridi sognanti e calma apparente. Addosso una coperta e lacrime a seppellire l'angoscia.
«Non tutti i mali sono poi visibili, dovresti saperlo, Martina». Forse sì, avrei dovuto saperlo. Avrei dovuto capire che qualcosa non andava ma il dolore, anche se non ti riguarda direttamente, spaventa sempre, è come se ti contaminasse. Cerchi sempre di stare alla larga dal dolore perché non vuoi che appartenga a te. Ce ne vuole tanto di coraggio per restare accanto a una persona che soffre. La vita sembra non avere mai spazio per i pensieri degli altri. Esisti fin quando qualcuno non ti ruba il posto e smetti di essere tu il protagonista.
Livia è un'anima che difficilmente potrà trovare la sua gemella, quella parte che le manca, quella che tanti chiamano “completamento”. Folle, impaziente, spudorata Livia. Alcune volte, la odio per come riesce a mettermi davanti agli occhi anche la mia di vita. Livia, donna coraggiosa che non lotta contro i suoi fantasmi ma ci convive e li addomestica, ha sempre rischiato, accettato il dolore senza cedergli. E ora che sono da sola con me, mi mancano le sue parole, quei discorsi pieni di cose che mi facevano sentire più libera per qualche frazione di secondo. Mi manca la sua malinconia.
Mia dolce Martina, mi sei stata vicina senza chiedermi troppo e di questo te ne sarò sempre grata. Mi sono guardata indietro. Voglio smettere di essere triste. Voglio smettere di essere così. Ho intenzione di coltivare poco a poco ciò che mi resta. Voglio riprendermi la mia serenità. Terrò duro, la forza non mi manca. C'è sempre stato qualcosa dentro di me che mi ha permesso di resistere. Qualcosa che somiglia a una mano tesa, a una voce dolce e calda. Qualcosa che scorre nel mio sangue e mi tiene in vita. Del resto, mi amo molto e amo la mia vita. Ho solo la colpa di non riuscire a gestire questa mia pericolosa sensibilità ma so ascoltare, so aspettare e, soprattutto, credo ancora negli esseri umani.
Non stare in pensiero per me. Comincerò un percorso che mi salverà da tutto questo. Non voglio scappare da tutto ciò che mi è successo, sia chiaro. Non parto per viltà. Non sto delirando perché mi sento malata. Non lascio questo posto. Voglio solo provare a vivere in un altro modo, in una città diversa, dove possa esistere una nuova versione di me e dove gli occhi degli altri saranno solo gli occhi di perfetti sconosciuti. Voglio svegliarmi, riuscire a scendere da casa senza essere osservata, farmi tagliare la faccia dal vento e dal freddo. Voglio qualcosa in cui credere, un pretesto per fare, costruire, correre. Non resto ferma adesso. Non più.
Con affetto, quella che vorrò diventare.