Amiamo passeggiare e dialogare; quasi ogni mattina e dopo un buon cappuccino! Abbiamo raccolto in dieci brevi articoli alcune delle nostre riflessioni sulla relazione tra i concetti di Etica e di Complessità immaginandoci A e B. Il tema è impegnativo, ne siamo consapevoli; le riflessioni contenute nei 10 articoli hanno tutte a che fare con i nostri comportamenti quotidiani, quelli che impattano con immediatezza sulla dinamica delle situazioni reali. Abbiamo provato allora a riferire della nostra discussione in modo leggero senza però mai perdere di vista l’altezza valoriale dei contenuti. Il nostro desiderio è quello di offrire con umiltà ai lettori spunti e inneschi che possano stimolare ulteriori e proficui approfondimenti in famiglia, tra gli amici e al lavoro. Grati, Vi auguriamo Buon viaggio!
Da dove incominceresti per inquadrare la questione dell’etica dei comportamenti?
Direi che la prima cosa da fare è domandarci cosa intendiamo per “etica”; al riguardo, mi piacerebbe iniziare dalla distinzione fatta dal biologo cileno Francisco Varela tra etica intesa come know-how ed etica intesa come know-what. Egli afferma che:
Si può dire che una persona saggia (o virtuosa) è quella che conosce ciò che è bene e lo mette spontaneamente in pratica. È questa immediatezza di percezione-azione che vogliamo esaminare.
Questo approccio si pone in un’ottica differente rispetto alla più comune definizione di etica intesa come analisi della componente riflessiva su ciò che debba intendersi “etico” e che ha lo scopo di valutare la razionalità dei principi morali adottati dall’individuo nel giudicare i propri comportamenti. Secondo Francisco Varela, nonostante sia evidente che è la spontaneità del comportamento virtuoso la modalità più comune di manifestazione dell’etica la stessa non viene sufficientemente analizzata proprio perché mancante della componente riflessiva:
Non dovremmo tralasciare la più diffusa modalità di comportamento etico solamente per il fatto che non è riflessiva. Perché non iniziare con ciò che è più comune e vedere dove questo ci conduce? Così stiamo sottolineando qui la differenza tra know-how e know-what, la differenza tra abilità o capacità di confronto immediato e conoscenza intenzionale o giudizio razionale.
L’approccio di Varela ci permette di dare valore all’immediatezza della conoscenza del come faccio rispetto alla conoscenza riflessiva del cosa fare. Si tratta di due “momenti” e di due “modi” assai diversi attraverso i quali si analizza l’azione personale e la sua qualità etica.
Potresti fare un esempio concreto di etica intesa come know-how?
Certo; il classico esempio di know-how dell’etica è quando mentre camminiamo immersi nei nostri pensieri per strada vediamo improvvisamente una persona che inciampa e cade a terra. Il nostro comportamento immediato è quello di soccorrerla, senza fermarci a riflettere su quale possa essere il comportamento eticamente più appropriato… e di questi esempi te ne potrei fare tanti. A chi non capita quasi tutti i giorni di trovarsi in situazioni del genere e di sentirsi partecipe “apparentemente involontario” in relazioni di aiuto o soccorso dell’altro? L’etica riguarda la qualità dei nostri comportamenti quando non vengono filtrati dal momento riflessivo che ne dilata il tempo di reazione-attuazione.
Ed un esempio di etica intesa come know-what?
L’etica come know-what rappresenta invece il momento riflessivo, quando ci chiediamo ad esempio se sia o meno corretto dire qualcosa a qualcuno o fare una cosa piuttosto che un’altra. “Faccio bene o male a dire così? È giusto o sbagliato fare così?”
Riepilogando: l’etica intesa come know-how riguarda il sapere come essere etico, mentre l’etica intesa come know-what riguarda il sapere cosa fare per essere etici. Nel primo caso il comportamento istintivo è l’azione di ciò che siamo, mentre nel secondo caso il comportamento è l’idea di ciò che dovremmo o potremmo essere. La conoscenza del come si è si incarna nella spontaneità dei comportamenti; l’attenta e ripetuta osservazione del come si è genera la consapevolezza dell’essere etico: la conoscenza del come si è diviene “coscienza consapevole” del sé etico. La conoscenza razionale del cosa fare per essere etici si matura attraverso una elaborazione riflessiva sulle possibilità di scelta tra diversi comportamenti da assumere, valutando per ognuno di essi costi e benefici, vincoli e opportunità.
In altri termini, tu affermi che l’etica come know-how riguarda il sapere come essere etico, l’aver già maturato una vera e propria identità etica che consente alla persona di porre in essere comportamenti etici, in modo inintenzionale, come dire … senza pensarci sopra due volte! Mentre l’etica intesa come know-what riguarda il sapere cosa fare per assumere un comportamento ritenuto socialmente etico, maturando - attraverso la riflessione prima e gli atteggiamenti poi - un modo di fare etico.
Esattamente. L’etica come know-how conduce alla manifestazione di una specifica identità etica. Ecco perché, attraverso un’attenta osservazione e descrizione dei propri comportamenti, la persona può diventare consapevole di sé e del proprio modo di essere etico. Viene prima l’azione immediata e poi la riflessione che ne esplicita le qualità e gli effetti. Diversamente, l’etica come know-what può identificarsi in una posizione piuttosto che in un’altra, a seconda della valutazione effettuata tempo per tempo delle opportunità da cogliere, senza perciò divenire una identità etica. Viene prima la riflessione sugli effetti e poi - mediata e filtrata - viene l’azione. Risulta palese la differenza tra l’essere consapevole della propria identità e l’assumere possibili identificazioni in un processo di modellamento del proprio carattere e delle proprie convinzioni sul mondo.
Ecco … potremmo dire che nell’etica intesa come know-how c’è l’Io Etico che con prontezza e naturalezza diviene azione, mentre nel know-what l’Io Etico non si manifesta rimanendo separato dalla propria scelta che sarà solo una tra le possibili modalità di comportamento. In questo ultimo caso l’agire diviene la conseguenza di un’attenta riflessione sul da farsi: c’è una scelta intenzionale che rallenta e ritarda il tempo dell’azione. Non si può parlare di Io Etico come “prontezza all’azione”. In un caso l’azione emerge spontanea nel movimento del corpo mentre nell’altro si genera più o meno velocemente attraverso il filtro riflessivo della mente.
La cosa interessante è che parlando di Io Etico inintenzionale e pronto all’azione non si esprime un giudizio sul bene o sul male, sul giusto o sullo sbagliato; ma si prende atto dell’immediatezza dell’azione che emerge dall’esperienza incarnata della persona. Perciò, se parliamo di know-how per l’etica, stiamo parlando di “identità”: stiamo parlando del riconoscimento consapevole dell’identità, che sia quella personale o che sia quella delle diverse organizzazioni sociali di cui si è partecipi, come la coppia, la famiglia, l’azienda, e così via. In ognuno di questi casi, è necessario che sia generata, incorporata e manifestata con consapevolezza perché altrimenti parlare di how - dove non esiste ancora una identità in cui riconoscersi - avrebbe poco senso: il know-how dell’etica presuppone la consapevolezza dell’esistenza e delle caratteristiche qualitative dell’identità alle quali si partecipa.
Ma allora mi chiedo: cosa accade nella persona o nei vari livelli delle organizzazioni sociali quando invece opera solo l’etica intesa come know-what? Ed ancora: in questo caso, come bisognerà comportarsi in ogni specifica circostanza se volessimo essere etici?
Certo, è assolutamente necessario chiarire questi aspetti. Il know-what non presuppone la formazione e la consapevolezza di una identità; per agire identificandosi con uno schema di azione scelto tra più possibilità è sufficiente un aggregato teorico e non sistemico di conoscenze. Questo perché il know-what dicendoci cosa fare e cosa non fare diviene un codice etico, un insieme di norme cui attenersi in uno specifico contesto. Il padre che dice al figlio: “mi raccomando se i genitori del tuo amico ti invitano a mangiare al ristorante comportati così: uno, ..., due … e soprattutto mi raccomando quando hai finito di mangiare una pietanza non lasciare le posate fuori dal piatto!”. Il padre non si rivolge all’identità della figlio che agisce, ma alle cose più o meno convenienti o efficaci da fare o da dire nella specifica condizione in cui il figlio si verrà a trovare.
Il know-what risponde alla domanda: quando avviene questo, cosa bisogna fare? Cambiando livello di analisi e spostandoci dal livello personale a quello di una qualsiasi organizzazione sociale le cose non mutano: il know what si materializza attraverso delle norme generali di comportamento e/o attraverso un sistema di principi a cui attenersi che saranno validi allo stesso modo per tutti, indipendentemente dalla singola persona che è chiamata a rispettarli. Nel caso del Know What si determina una separazione tra la persona e l’agito, tra la persona e la condizione che detta le caratteristiche dell’azione da compiere. La persona adatta la sua azione al contesto e ne subisce le regole che la rendono giusta nel contesto secondo determinati punti di vista dominanti e condivisi dalla comunità. La coerenza che si richiede, in questo caso, non attiene alla persona che rispetta le regole, ma all’universalità dell’applicazione del comportamento richiesto per la situazione. Nel know-how, invece, è la specifica persona e, salendo di livello di aggregazione, la specifica organizzazione di cui è parte a cui è implicitamente richiesto di essere coerente: è il suo saper essere, il suo sapere di ciò che è bene che coerentemente entra in azione, indipendentemente dalle regole dominanti nel contesto in cui è chiamata ad operare.