Lo studio e l’analisi critica dei testi rivenienti dalla documentazione letteraria di epoca classica consentono di evidenziare la presenza - nel pensiero e nella vita sociale dell’antica Grecia - di logiche di calcolo economico e di principi di valutazione razionale delle scelte in materia di credito e finanza.
Un primo esempio interessante è rappresentato dalla decima ode Olimpica di Pindaro (517 – 438 a.C.): si tratta di un “epinicio” ovvero di un “canto per la vittoria” composto dal grande poeta lirico per celebrare la “performance” agonistica di Agesidamo di Locri Epizefiri, trionfatore nella specialità del pugilato ai giochi panellenici svoltisi ad Olimpia nel 476 a.C. Pindaro, che esercitava l’attività poetica sulla base di un formale rapporto contrattuale e dietro compenso, era impegnato in quello stesso anno a consegnare altri carmi richiesti da committenti più importanti, quali il tiranno di Siracusa Ierone e il tiranno di Agrigento Terone, entrambi celebrati per le vittorie nelle gare di corsa equestre.
La priorità accordata dal poeta ai prestigiosi personaggi siciliani, ai quali furono dedicate rispettivamente la prima e la terza ode Olimpica, originò il colpevole ritardo nell’assolvere l’impegno relativo alla composizione dell’epinicio in lode di Agesidamo, figlio di Archèstrato, e il conseguente rimprovero da parte della famiglia del vincitore consacrato nella decima ode Olimpica. Pindaro, infatti, apre il canto dichiarando le sue scuse per il fatto che l’epinicio sia giunto a destinazione molto tempo dopo il termine pattuito, ma si difende evidenziando al contempo come esso si presenti sotto forma di una “piena che travolge il sassolino”: l’onda del canto spazza via il biasimo e la vergogna legati ad un debito finora non onorato.
Affascinante la traduzione dal greco antico della parte iniziale dell’ode X Olimpica (versi 1 – 14):
“Additatemi il figlio d’Archéstrato che vinse in Olimpia,
in quale punto della mia mente è scritto,
perché un canto soave gli devo
ed oblio mi colse.
Su, Musa, e tu, figlia di Zeus, Verità,
con la giusta mano tenete lontana l’accusa
che io sia fraudolento con gli ospiti.
Da lontano giungevano i giorni futuri
e cresceva la vergogna del mio debito grande.
Ma l’interesse può sciogliere il biasimo, pur grave:
guardate ora l’onda che scorre
come travolge il sasso rotolante,
e come un inno partecipe
noi pagheremo in grazia all’amico”.
Nei versi del proemio soprariportato ricorrono diversi termini tipici del linguaggio economico-finanziario, quali “debito”, “interesse”, le espressioni “essere in debito”, “pagare un prezzo” e il particolare riferimento ai “sassolini” che, secondo gli studi più accreditati, alluderebbe all’utilizzo degli stessi nel calcolo monetario e rappresenterebbe, pertanto, la più antica testimonianza letteraria dell’uso dell’abaco nel mondo greco: giunto il momento di rispettare la promessa, l’eccellente qualità del carme assume valore di vero e proprio “frutto” o “interesse” (tòkos) sul “capitale” (l’epinicio) che salda definitivamente il conto (lògos), la posizione debitoria del poeta, riveniente dalla ritardata consegna dell’opera, ed annulla così il conteggio (tenuto con il sassolino dell’abaco), allo stesso modo in cui l’onda dei flutti dell’acqua travolge la ghiaia.
L’uso dell’abaco, già nell’antica Grecia del V secolo a.C., e la sua diffusione come strumento per effettuare i calcoli più frequenti nella vita quotidiana, vengono attestati anche da altre testimonianze letterarie, tra le quali ricordiamo un brano delle Vespe di Aristofane (445 – 385 a. C.), commedia del 422 a. C. nella quale il grande poeta comico porta in scena una parodia del sistema giudiziario ateniese, basato sui giudici delle giurie popolari che, per la loro ferocia, vengono appunto rappresentati come fastidiosi insetti: nel verso 656 dell’opera, Bdelicleone invita il padre Filocleone (giudice popolare) a calcolare le entrate di Atene, nonché il soldo corrisposto ai giudici, in modo approssimativo, con le dita della mano, alludendo ai conteggi di uso corrente che dovevano essere effettuati con l’ausilio di abachi facilmente trasportabili, costruiti in materiale leggero, come il legno oppure la terracotta. Interessante la traduzione del passo dal greco antico:
“Bdelicleone: stammi a sentire, papà, spiana un poco la fronte. Calcoliamo alla buona, senza fare conti precisi, ma sulla punta delle dita, quant’è la somma dei tributi che ci versano le città alleate. Poi, a parte, le tasse, le decime, i depositi, le miniere, i mercati, i porti, le rendite, le confische. Il totale è all’incirca di duemila talenti. Togli ora il salario annuale dei seimila giudici (di più non ce n’è): sono centocinquanta talenti.
Filocleone: come? Il nostro salario non è neanche il dieci per cento delle entrate?...”
In un’altra commedia di Aristofane, rappresentata nel 423 a. C., Le Nuvole, Strepsiade, oberato dai debiti contratti dal figlio Filippide, ossessionato dalla mania dei cavalli, pensa di affidarsi a Socrate e ai discepoli della sua scuola affinché lo aiutino a imparare l’arte di non pagare i debiti; e poiché non riesce a dormire per l’assillo delle scadenze finanziarie di fine mese, ordina a un servo di accendere una lucerna e di prendere il registro dei conti (grammatèion) per verificare l’elenco dei debiti e fare il calcolo degli interessi dovuti ai diversi creditori che vengono suddivisi in base al nominativo, all’importo e alla causale del prestito.
Elementi di una primordiale valutazione economica del tempo si possono rilevare nella contabilità che affligge lo Strepsiade delle Nuvole aristofanee, assillato dal decorso del tempo scandito da una luna maligna, nell’approssimarsi del nefasto giorno della scadenza di pagamento: “cinque, quattro, tre, due, e poi il giorno più temuto, più odioso, più detestato. Si passa da luna vecchia a luna nuova. Tutti i miei creditori dicono che mi rovinano, mi denunciano…”. E quando si parla degli interessi (tòkoi), Strepsiade azzarda nel chiedere ad un creditore: “e che roba è questo interesse?”, ricevendo come risposta: “ogni mese, anzi ogni giorno, col passare del tempo, il denaro aumenta…”.
Un secolo più tardi, Aristotele (384 – 322 a. C.), nel trattare di Economia nella sua Politica, valuterà “contro natura” l’arricchimento senza limiti e l’incremento ad infinitum del denaro e del capitale, caratteristiche della cosiddetta crematistica monetaria (dal greco antico “chremata”, “ricchezza”), e le connesse pratiche dell’anatocismo e del prestito a usura.