"È tutto il mondo una ribalta". Ma non siamo nell'Inghilterra anglicana, bensì nella cattolicissima Venezia quando, ancora prima di Shakespeare, un temerario pittore dai modi bruschi scioccò il suo religioso pubblico borghese dando al pennello la libertà di far entrare in scena la gestualità dei mercati e delle osterie, in un grande teatro della vita che raccontava con codici umani il romanzo divino.
Eccolo allora San Marco in un palcoscenico affollato di spettatori vestiti secondo la moda e il gusto dell'epoca davanti a uno schiavo disteso a terra, nudo, mentre i carnefici cercano di infliggergli le pene ordinate dal suo iroso padrone. Gli aveva disobbedito per andare a Venezia in pellegrinaggio e venerare le reliquie del santo. Non riusciranno neanche a toccare quello schiavo: il bastone con cui avrebbero dovuto cavargli occhi si affloscia, la mannaia che avrebbe dovuto targliargli le gambe si spezza. Teatrali i gesti di protagonisti e comparse, sapiente la regia che ci manda dal cielo un San Marco vestito di un rosa cupo, ma del cui corpo umano mostra soltanto i piedi. Fu un certo "depentor alla Madonna dell'Orto", a rovesciare per primo le convenzioni della classica e perfetta pittura di un mostro già sacro come Tiziano. Per dirla col Vasari "costui" dipingeva "fuori dall'uso degli altri pittori". Dopo lo chiameranno Tintoretto perché era alto appena un metro e mezzo e figlio di un tintore di stoffe.
Il suo Miracolo dello Schiavo sarà il primo di una lunga serie di racconti, dalle Nozze di Cana all’Ultima Cena, dalla Crocifissione alla Discesa nel limbo, dall’Annunciazione alla Strage degli Innocenti, che ognuno di noi pensa di conoscere, ma che invece "costui" ci propone con immagini fuori da ogni cliché, reclamando la nostra partecipazione e suggerendo nuove chiavi di lettura. Venezia, che fu la "madre" del Tintoretto, oggi, a distanza di 500 anni dalla nascita, gli dedica due grandi mostre grazie a una coproduzione internazionale che unisce la Fondazione Musei Civici di Venezia e la National Gallery of Art di Washington.
Alle Gallerie dell'Accademia conosciamo l'artista nelle sue "avventure" giovanili, a confronto con gli amici (pochi) e i rivali (molti) del suo tempo, tra cui Tiziano, Pordenone, Salviati, Vasari, Sansovino e Schiavone in una esposizione curata da Roberta Battaglia, Paola Marini e Vittoria Romani (catalogo Marsilio/Electa). Il Palazzo Ducale, in piazza San Marco, comincia invece il suo racconto da quando, con il Miracolo dello Schiavo, l'"apprendistato" del figlio del tintore ha termine. Una grande monografia che lo accompagna fino alle ultime composizioni. È il nano sulle spalle dei giganti che lo hanno preceduto e ha elaborato un linguaggio proprio: ora guarda tutti dall'alto del suo anticonformismo e della sua impudenza. In totale oltre cento tele, molte delle quali arrivate dalle collezioni europee e di oltreoceano ritornando così in quella città dove vennero create. Perché Iacopo Tintoretto mai si allontanò dalla Serenissima, se non di una manciata di chilometri. Al termine delle due mostre, il 6 gennaio, molte di quelle opere partiranno ancora per essere ospitate alla National Gallery of Art di Washington.
Più che "madre" Venezia, di Tintoretto fu però matrigna. Di lui diffidò sempre e mai l'aristocrazia gli aprì le porte, né venne ammesso ai pubblici concorsi. La sua pittura era vista come "stravagante", persino "sconveniente"; il suo carattere impertinente, ispido, ribelle, addirittura arrogante. Era troppo ambizioso, troppo impaziente, troppo risoluto, troppo veloce nell'esecuzione, troppo brutale nella pennellata. I colpi bassi non mancarono mai. Si vide "soffiare" la decorazione della sala Capitolare della Scuola Grande San Marco da Andrea Schiavone e una pala d'altare a San Zulian da Palma il Giovane. Per non parlare dell'ostracismo che gli riservò sempre il grande Tiziano che, tra l'altro, lo escluse clamorosamente dalla selezione per le opere alla Biblioteca Marciana.
D'altronde una grande quantità di pittori erano attratti dalla Serenissima, capitale cosmopolita dai prosperosi commerci. E la Repubblica celebrava i suoi fasti con grandi opere che istigavano la concorrenza tra gli artisti. Comunque Tintoretto restituì tutti i "colpi bassi" ricevuti aggiungendoci gli interessi. Lui vendeva le sue opere a basso prezzo, o addirittura le regalava, pur di impadronirsi di una fetta di mercato. In maniera quasi banditesca riuscì a togliere a Veronese la pala d'altare ai Crosecchieri e a Schiavone quella dei Carmini, mentre per la Madonna dell'Orto si offrì di dipingere al solo prezzo di costo dei colori e pennelli.
Un esempio per tutti delle sue "strategie" da corsaro è il modo in cui eluse il concorso per il dipinto centrale del soffitto della Sala dell'Albergo, alla Scuola Grande San Rocco, che altrimenti sapeva non avrebbe mai ottenuto. In un colpo solo raggirò gli altri tre artisti (Salviati, Zuccaro e Veronese), incaricati, come lui, di presentare un disegno alla commissione. Era il mese di giugno del 1564. Tintoretto aveva 45 anni, da poco sposato con Faustina, 24 anni più giovane di lui, padre di una figlia, Marietta, nata da una relazione precedente al matrimonio, e due degli otto figli avuti dalla moglie, Domenico e Marco.
La vicenda del San Rocco in Gloria alla Scuola Grande fece scandalo. Robert Echols e Frederick Ilchman, curatori della mostra a Palazzo Ducale, ce la raccontano così nel catalogo edito da Marsilio: "Tintoretto presentò un dipinto finito su tela, lo fece installare in gran segreto e lo scoprì pubblicamente il giorno del concorso, mettendo i suoi rivali dinanzi al fatto compiuto". Una mossa teatrale che rivela ancora una volta il suo talento per il palcoscenico. "Alle obiezioni sollevate da qualcuno", continuano Echols e Ilchman, "l'artista rispose che il dipinto era una suo dono, molto probabilmente nella consapevolezza che le regole della Scuola proibivano il rifiuto di una donazione. Ai confratelli non restò altro che accettare". E voilà, il gioco era fatto. Pochi anni più tardi a Tintoretto sarebbe stata affidata la decorazione dell'intero edificio, anche grazie alla sua richiesta di un pagamento molto modesto. Con la scorrettezza di sempre.
Se la Scuola Grande San Rocco è rimasto il tempio dell'arte di Tintoretto, l'intera Venezia porta il suo segno. Infaticabile e rapidissimo nell'esecuzione, è stato il pittore che ha lasciato più opere nella città lagunare. Perché è vero che la vita si nutre di vita, ma la sua si nutriva di pittura. E se anche partecipava e forse inventava battute per le rappresentazioni teatrali popolari, se suonava molti strumenti musicali, se sapeva persino cantare, tuttavia il suo vulcano creativo esplodeva con la pittura, che adorava e a cui consacrò la sua esistenza.
Inseguendolo oggi in quelle calli che lui percorse imperterrito anche nei giorni della grande peste, attraversando alla sua ricerca gli stessi ponti dove lui passava quotidianamente per andare a comprare i colori a Rialto o a chiedere lavori ai possibili committenti, lo incontriamo dappertutto. Venezia è una permanente mostra diffusa di Tintoretto, così come lui voleva che fosse. Sono una trentina gli edifici di culto e le istituzioni dove il suo pennello ha lasciato segni, simboli e messaggi.
Lo troviamo a San Cassiano, nella chiesa a due passi dal suo primo atelier. È qui, nel sestriere di San Polo, turbolenta zona di mercati, osterie, magazzini e bordelli che Tintoretto nacque in una data imprecisata tra il 1518 e il 1519. Ed è qui, nella chiesa che costeggia l'omonimo campo, che ci ha lasciato tre dei suoi "racconti" (Crocifissione; Discesa nel limbo; Resurrezione), corali rappresentazioni di masse in movimento che narrano insieme passato, presente e futuro e, parlando della morte, rivelano ogni sfumatura della vita.
Lo incrociamo ancora in piazza San Marco, dove giovanissimo, sotto le Procuratie Vecchie, ancora oggi sede di antiquari, aiutava i decoratori di mobili nelle cui botteghe si vendevano a prezzi popolari cassoni e armadi dipinti in serie. Più tardi, proprio in quella piazza, decorerà pareti e soffitti del Palazzo Ducale, come quel Paradiso che è uno dei colossal della pittura. Lo rivediamo poi nell'isola di San Giorgio Maggiore, alla Giudecca, nella cui chiesa palladiana, altri attori si agitano generando nuova meraviglia mentre illustrano i vecchi "romanzi" della Raccolta della manna e dell’Ultima Cena.
Con la Deposizione nel sepolcro, in una cappella laterale, Tintoretto ci lascia il suo testamento, raffigurando se stesso e i figli Domenico e Marco nel gruppo che domina la scena. Dopo non dipingerà più. La sua sepoltura è una povera lastra tombale in una spoglia cappella della Madonna dell'Orto, a non più di cento passi dal palazzetto sulle fondamenta dei Mori dove aveva vissuto e allestito la sua bottega. Ma sull'opposta parete il suo gigantesco Giudizio Universale rivela l'ultimo atto del dramma della vita. Centinaia di comparse si curvano, si contorcono; i loro corpi nervosi, violati o esaltati, quasi si confondono in attesa di conoscere la propria sorte.
Forse, come suggerisce Melania Mazzucco nella sua minuziosa ricostruzione della vita di Tintoretto (Rizzoli), tra i numerosi personaggi del teatro di Jacopo ricompare lui stesso, riconosciuto nell'uomo ricciuto e barbuto con enormi occhi spalancati nella parte bassa della tela. Attende il giudizio divino per i suoi peccati di arroganza e slealtà. Quello degli uomini lo ha ormai assolto.