Adua poteva raccontare di quando aveva visto il principe Andreij mentre, a cavallo, passava in rassegna le truppe. Dalla grande finestra del palazzo, con il ghiaccio che arabescava i vetri, lei bambina aveva guardato quello spettacolo come in una lanterna magica. Poteva sentire ancora il calore alla testa che aveva provato quando le avevano fatto indossare quella piccola cuffia di trine bordata di morbida pelliccia, come quella nella quale l’aveva avvolta la balia prima di sollevarla perché potesse vedere che cosa stava accadendo nel cortile.
Come facesse quella bambina a ricordare con tanta dovizia di particolari una cosa accaduta quando lei aveva poco più di un anno, no, come facesse a un anno a vedere cose accadute due secoli prima, restava un mistero e con il passare del tempo questa attitudine cominciò anche ad essere fonte di un certo imbarazzo, a creare inquietudine negli adulti che si prendevano amorevolmente cura di lei.
“Angelo santo, stella d’oro” le dicevano “non devi raccontare queste cose; vedi come fanno le altre bambine: giocano tra loro tranquille e non fanno questi discorsi strani. Devi smetterla di raccontare le tue storie inventate, non devi dire tutte queste bugie. Alla mamma non piace che tu faccia così”.
E allora la piccola Adua chiudeva gli occhi per non vedere, ma non era con gli occhi che lei vedeva perciò il suo tentativo era sempre vano: più stringeva gli occhi, più le appariva ogni sorta di creatura fantastica, in luoghi che lei soltanto sapeva riconoscere.
Il grande elefante bianco era entrato nella stanza della regina dagli immensi occhi, neri come nere perle, e dalla pelle più soffice del muschio. Lei lo aveva accolto nel suo sogno; con le delicate mani lo aveva accarezzato e insieme avevano creato una danza. Al suo risveglio le era rimasta addosso quella gioia intensa, fatta di umori e visioni che procurano le immagini veritiere del sonno mattutino e cominciò a raccontare perché nulla potesse sfuggire ai ricordi del cuore.
Attraverso le sue parole Adua poteva sentire la musica; anche il suo corpo, avvolto nei morbidi tessuti che la vestivano, iniziava a muoversi; erano suoni carezzevoli, flessuosi e pareva che non avessero segreti per lei. La nobile Signora l’aveva presa per mano e l’aveva invitata a intrecciare insieme a lei i passi che aveva appreso dalle antenate. Le chiese di intonare quell’antico canto d’amore che sempre riusciva a farla piangere di felicità:
Ascolto il profumo della tua lieve corolla,
o mia amata
e un ambrato stormire di vento odoroso
accarezza l’olfatto che schiude il suo cuore,
velato di dolci sentori, di amare parvenze,
fino a farlo vibrare di voluttà
Mia bella Regina
ammantata di morbidi effluvi,
avvolta nel trasparente pallore di eburnea bellezza,
illuminata di opalescente candore
che i raggi silenti dell’Aurora rischiarano
al pari di candida neve.
Le piaceva cantare quella canzone, la conosceva a memoria per averla ripetuta tante volte. Le piaceva ascoltare e parlare quella lingua melodiosa che risuonava come il canto di una ninna nanna, come la flautata voce che racconta una fiaba o intona una preghiera.
Il sole iniziava ad alzarsi nel cielo e illuminava la verde distesa ancora umida di rugiada; l’aria era impregnata della quiete della notte e si udivano le voci degli animali che si affacciavano al giorno; la luce rimbalzava sulle foglie. Quando Adua riapriva gli occhi, come uscita da un incantesimo, voleva raccontare subito quel suo bellissimo incontro. Parlava con entusiasmo dei profumi e dei colori che aveva visto e sentito mentre camminava nel bosco di alberi fatati, vicino alle acque del torrente. Diceva di aver veduto la tigre scivolare via in silenzio e di non aver avuto alcuna paura e voleva ancora continuare a narrare, aggiungere particolari, liberare la sua felicità. In fretta le rispondevano: “sì, va bene ma adesso bisogna sbrigarsi, bisogna andare a scuola e non c’è tempo per le fantasticherie”.
E allora un velo di tristezza sfiorava il suo sguardo e si chiedeva come mai nessuno volesse condividere le emozioni che la attraversavano quando partiva per questi viaggi, le sensazioni che provava ritrovando paesaggi già veduti, incontrando persone già conosciute. Ne aveva talora parlato nel suo diario e aveva tentato di scriverne, ma il risultato non era stato quello che avrebbe voluto. “La fantasia è una gran bella dote” le avevano detto “ma bisogna stare con i piedi per terra”.
E come spiegare che lei i piedi li aveva ben saldi sul terreno quando sicura, fiduciosa, si addentrava in quel giardino che dischiudeva grandi fiori dai rossi petali carnosi, per arrivare là dove altre fanciulle stavano giocando e chiacchierando allegramente, avvolte dall’intenso odore dei gelsomini annodati nelle bianche ghirlande che portavano al collo.
L’avevano sentita arrivare e tutte avevano manifestato la loro gioia nel rivederla. Aveva percepito il buon odore dell’incenso speziato che con il suo esile fumo ringraziava l’antica Dea e quello tenue dell’olio di sandalo con il quale le era stata segnata la fronte. Le avevano raccontato della giovane principessa che aveva dato alla luce suo figlio sotto i rami frondosi del grande albero intonando le antiche note che fanno nascere. Adua non sapeva bene come avvenisse l’entrata nella vita di una nuova creatura ma le pareva meraviglioso essere messa a parte di questa bellissima storia. Mentre le ancelle lo lavavano con cura, il bambino aveva iniziato a camminare e ad ogni passo un fiore di loto sbocciava dalle sue impronte lasciate sul terreno.
Da giorni duravano i festeggiamenti. Da città e campagne erano arrivati uomini e donne di ogni genere. Adesso lei poteva vedere la sala del trono gremita e sentire le voci che gridavano al miracolo di quel principe bambino che già camminava e parlava come un saggio. Adua aveva visto, sapeva, ma questa volta avrebbe dovuto ben guardarsi dal fare racconti dopo aver sentito la conversazione dei suoi genitori:
- è strana questa bambina
- dovremmo fare qualcosa per la sua pericolosa abitudine a raccontare storie
- potrebbe finire per scambiare la realtà con la fantasia
- chissà dove potrebbe portarla questa stranezza
- anche le amiche cominciano a prenderla in giro
Ma perché mai avrebbe dovuto lasciare quei fantastici luoghi dove imparava il linguaggio delle piante e degli animali, dove ritornava sempre piena di nuova curiosità? Quante vite poteva attraversare, quante parole poteva apprendere per descrivere mondi straordinari!
Era verso sera e se ne stava seduta in silenzio a contemplare le montagne che incoronavano il lago dalle acque profonde ormai rese scure dal calar del sole. C’era un silenzio pieno di tenerezza; pensava che nulla avrebbe potuto mutare quella quiete, ferma nel tempo e nello spazio. In lontananza le pareva di scorgere una figura e subito sentì il desiderio di sapere chi fosse. Adua iniziò pian piano ad avvicinarsi; ebbe la sensazione di essere stata scoperta e si fermò. Non aveva timore, ma non voleva turbare quella visione d’infinita beatitudine che permeava l’intero luogo. Poteva adesso vedere quell’esile creatura vestita di scuro mentre si immergeva nel liscio specchio del lago. Si stava chiedendo perché mai avesse scelto di bagnarsi nel freddo della sera e, mentre si perdeva in queste considerazioni, la vide pian piano scomparire nell’abbraccio dell’acqua.
Non pensò che fosse annegata, non pensò alla morte: immaginò che se ne fosse andata a raggiungere il passaggio segreto di cui altre volte le aveva parlato la donna saggia. Arrivò là dove la fanciulla si era lasciata scivolare. Si mise ad ascoltare e presto udì quella voce che le aveva narrato altre storie: “la ritroverai qui a primavera quando il prato sarà fiorito di narcisi. Il suo lungo inverno trascorre nel buio, nel silenzio, nemmeno sua madre può vederla, ma non appena il sole tornerà a scaldare la Terra anche lei riemergerà a vedere la luce. Prendi questa melagrana per ricordarti di venire a salutarla.
Non aveva dovuto camminare troppo per incontrare la donna dai lunghi capelli bianchi seduta sul suo trono impreziosito da una argentea falce di luna. Un manto fiorito, blu come il blu della notte stellata, le copriva le spalle e il suo sguardo era profondo e caldo. Era lei ad alzarsi per andare ad accogliere la sua giovane amica. Si metteva al suo fianco per accompagnarla verso la casa lucente. Accanto a lei il corpo si faceva leggero, senza peso: erano due figure evanescenti che fluttuavano in un luogo sconfinato. Si assaporava il piacere di non avere pensieri, di non avere ostacoli da superare, competizioni da vincere. In questa liquida e quieta intensità avevano raggiunto la dimora senza pareti, con le grandi sale tracciate da fili iridescenti dove si poteva sostare per guardare il paesaggio del crepuscolo. Era qui che la voce della donna saggia si vestiva di parole che accarezzavano l’anima di Adua:
Mia dolce bambina,
vieni a riposare sul mio cuore,
accogli il tepore lieve della mia anima
che ti accarezza e ti comprendeBambina cara, dal sentire antico
guarda serena oltre l’orizzonte,
crea il tuo mondo di bellezza
e custodiscilo nel cuoreBambina sperduta,
che hai attraversato universi sconfinati,
ritrova la gioia del tuo essere come sei,
incontra la Bellezza senza paura,
costruisci i tuoi castelli
ricoperti di pietre prezioseMia piccola amica,
dormi sul mio cuore e
lascia ogni pensiero
che non sia di gioia.
Quelle parole le portava con sé come un dono, un segreto che la aiutava a ritrovare sempre la strada per tornare là dove poteva abbandonarsi all’abbraccio accogliente della sua fantasia, dove una lieve nebbia dorata sfumava i contorni di cose e persone. Le sarebbero venute spesso alla mente quando, con il passare degli anni, la sua vita era tornata ad essere una e i contorni del suo mondo si erano fatti sicuri e definiti.
A quante altre bambine immaginanti è stata preclusa la possibilità di continuare ad attingere alla fonte eterna che custodiscono nella propria anima, quella che le mette in contatto con altre storie, con altre vite. A quante è stata tolta la possibilità di diventare donne depositarie dell’antico, ancestrale sapere che supera ogni barriera. Sante, mistiche, streghe e guaritrici, tutte capaci di ritrovare le rotte dell’immaginario e di intrecciare saperi ed esistenze, tutte obbligate a confrontarsi con i limiti e le restrizioni imposti dalla “normalità”. Quante volte abbiamo chiuso gli occhi per non essere costrette a negare la nostra potenza, quante volte abbiamo fatto finta di non conoscere la lingua dell’incantesimo che guarisce il cuore dalla tristezza per nascondere la nostra capacità di viaggiare nelle terre del sogno. A quante bambine immaginanti è stato impedito di mostrare le loro ali, di aprirle per volare lievi negli universi infiniti. Quante parole mancate, sottratte alle donne che da sempre hanno usato la sacra lingua del corpo generante.
In questo mese di Dicembre pronto ad attendere e ad accogliere miracolose apparizioni concediamoci un gioco visionario: “Immaginiamoci su un’alta scogliera che domina l’oceano. Adagio, adagio, il nostro corpo si allunga trasformandosi in una sorta di nastro che ondeggia libero nell’aria. Davanti a noi si spalanca l’attraente e infinita distesa del mare e del cielo. Possiamo abbandonarci al vento e sollevarci leggeri come nastri: è questa la libertà spirituale”. [1]
È questa l’immensa forza della parola che vede e racconta l’impossibile.
A cura di Save the Words®
[1] Deng Ming-Dao, Il Tao per un anno, Ugo Guanda Editore, Milano, 1993