"Mia mamma era milanesissima, ma è stato soprattutto mio padre (di Maleo, ora provincia di Lodi) a farmi amare Milano. Accompagnava a piedi (e al passo!) me e mia sorella - le piccole di famiglia - ovunque dovessimo andare, raccontandoci le storie delle case, degli architetti che le avevano costruite e delle famiglie che le abitavano, dei Navigli coi loro ponti che non c’erano più, di Giuseppe Mengoni che è precipitato dalle impalcature il giorno dell’inaugurazione della Galleria... E non solo il centro: ricordo camminate al Monumentale o alla Maggiolina coi suoi funghi, dove noi bambine volevamo piuttosto vedere dove abitava Celentano, il nostro mito".
"Quel passo è lo stesso con cui ancora adesso calco le nuove zone della città: il Quartiere Adriano con la Magneti Marelli che non c’è più (ma ha lasciato il bunker diventato un bell’esempio di archeologia industriale trasformata in arredo urbano), le ex Varesine dove un tempo si andava sull’otto volante... A parte un periodo in via Giusti, zona Sarpi, (altro quartiere della città che amo molto), ho sempre vissuto tra Porta Venezia e via Padova, quindi il nord-est della città è quello che conosco meglio e quello che racconto più spesso nei documentari; dove però protagonista non è la città ma la gente che la abita. Sono loro che riempiono di luce, o di ombre, il quartiere: sono gli abitanti che, nonostante i tanti condomini o palazzi in grave degrado, rendono via Padova così viva".
"I miei tre figli sono cresciuti in via Padova, hanno frequentato il Parco Trotter durante e dopo la scuola. Spesso capitava che andassero ospiti di qualche compagno, cinese, albanese o africano che fosse (la scuola del trotter è frequentata da bambini di cinquanta diverse nazionalità); le loro case spesso non avevano il bagno, a volte non erano nemmeno case, ma negozi o laboratori di pellame dove vivevano intere famiglie. Molti di loro hanno cambiato quartiere o paese, altri hanno intrapreso una strada di integrazione e riscatto sociale: hanno studiato, trovato un lavoro dignitoso, creato nuove famiglie… ed è proprio quello che raccontano nel mio Prossima fermata via Padova altri migranti ma del secolo scorso, che venivano dalle zone più povere d’Italia, Polesine, Emilia, Puglia, Calabria. Donne e uomini che ora sono milanesi e si sentono orgogliosamente tali perché la città li ha accolti. Milano ha saputo inventare fin dall’Ottocento strutture e strumenti innovativi per accogliere le persone in cerca di migliori condizioni di vita e rispondere ai bisogni sociali dei “nuovi milanesi”. Ecco, credo che Milano, con tutte le difficoltà da affrontare, continuerà ad essere una città accogliente perché è nel suo DNA".
Da dove scaturisce la sua passione per la cinepresa?
Sì, è proprio una passione, nata al primo anno di Università frequentando il Collettivo Cinema Militante. La controinformazione mi sembrava un modo di partecipare al grande Movimento in corso, io che non mi riconoscevo in nessun gruppo politico ma mi sentivo parte del cambiamento. Presto mi sono resa conto che non potevo prescindere dalla conoscenza del mezzo e mi sono iscritta a una scuola regionale serale durata tre anni. L’eredità più grande che questa scuola (poi fallita) mi ha lasciato, è stata della pellicola e una cinepresa superotto per sei mesi in cui ho fatto i primi esperimenti filmici che mi hanno illuminato su quello che volevo fare nella vita. Iniziai presto a lavorare come assistente al montaggio. La mia fortuna è stata di lavorare con persone, in particolare Rita Rossi, che non solo mi insegnarono ma mi passarono anche presto lavori, così mi aiutarono a crescere professionalmente. Nel 1985, mentre lavoravo allo Studio Orti di Giulio Cingoli, firmai la mia prima regia, La casa fuori misura, che vinse il Festival Cinema Giovani di Torino.
Esiste una regia al femminile?
Ne sono convinta: noi donne siamo abituate ad aprirci e a raccontarci sentimenti e passioni e siamo tendenzialmente più disposte a metterci nei panni dell’altro. Non è una legge e non dico che siamo più profonde… ma più empatiche coi personaggi che raccontiamo, questo sì. La domanda che ricevo più spesso alle proiezioni dei miei documentari è: Come ha fatto a superare la diffidenza per la macchina da presa? Ad accedere alle case, alle storie anche di persone poco propense ad aprirsi? Mi è sempre piaciuto ascoltare più che parlare, osservare più che essere osservata. La telecamera accesa è ormai silenziosa, e sia io che l’operatore che lavora con me, cerchiamo di mimetizzarci il più possibile con l’ambiente che ci circonda. Questo comporta un lungo lavoro di montaggio: elimino sempre tutte le domande e il racconto deve comunque avere un senso ed essere fluido. E a volte sintetizzare e tagliare è veramente faticoso. Per questo durante il montaggio chiedo a persone che mi sono vicine e dotate di buona capacità critica – ad esempio mio marito - di guardare il lavoro che sto facendo per vedere le reazioni e verificare le mie scelte.
Nella sua meritoria opera di riscoperta di luoghi e personaggi “nascosti” della storia e della tradizione milanese, si è concentrata su Filippo Ravizza: ce ne può sintetizzare l’importanza?
Mentre preparavo il film sulla storia di mia mamma e dei suoi fratelli, Il secolo lungo dei Fratelli Ravizza, Ambrogino d’oro 2011, ho incontrato l’interesse dell’Archivio Storico Intesa Sanpaolo per la figura del nonno, Filippo Ravizza, pioniere dell’insegnamento commerciale e fondatore nel 1951 della prima Scuola Italiana di Pubblicità. Consigliere molto attivo della Famiglia Meneghina ma anche poliglotta e propugnatore dell’esperanto (lingua osteggiata dal regime autarchico), importò dagli Stati Uniti l’attenzione a temi quali il marketing, la formazione del personale, le tecniche di management. Nel 1924 fu l’animatore del Primo Congresso Internazionale del Risparmio, divenendo Direttore dell’Istituto omonimo fino al 1948. Dall’interesse comune nacque un film, prodotto dalla Mir, che ripercorre i momenti salienti della carriera di Filippo Ravizza, la maggior parte dei quali ha come palcoscenico Milano, una città che appare davvero una metropoli illuminata e per nulla provinciale, culturalmente aperta, capace di confrontarsi con il mondo, tanto da divenire crocevia del dialogo e della collaborazione internazionale tra le casse di risparmio.
In particolare, Filippo Ravizza rappresentò quella borghesia professionale ambrosiana, riservata, fattiva e impegnata socialmente, che, fin dall‘800 diede un importante contributo alla realizzazione di una città internazionale e nello stesso tempo consapevole di una sua identità: esiste ancor oggi una classe borghese e imprenditoriale con queste finalità?
Non ho sempre percepito Milano come una città aperta… Ci sono stati gli anni di piombo in cui tutta la carica degli anni precedenti sembrava frantumarsi o la Milano da bere in cui non mi riconoscevo e non riconoscevo nemmeno la città, così povera di identità. Mani Pulite le ha dato uno scossone, la società civile ha ricominciato a muoversi e sì, penso che sia tornata ad essere, soprattutto negli ultimi anni, una città internazionale, che guarda verso il mondo, consapevole però di una propria identità. Ci sono imprenditori illuminati che costruiscono o ristrutturano palazzi progettati non solo per potenziare le loro attività ma anche per offrire spazi fruibili e godibili da chi li frequenta. Hangar Bicocca, Fondazione Prada, Feltrinelli… sono fiori all’occhiello della città e vengono guardati con ammirazione da tutto il mondo. C’è Fondazione Cariplo che sempre più investe in progetti sociali e che, per tornare in zona, ha in gran parte finanziato la ristrutturazione dell’ex Convitto del Parco Trotter, 5.000 mq da destinare metà alla scuola e metà al sociale. Ci sono centinaia di enti e associazioni radicate nel territorio che fanno rete tra loro per creare nuove sinergie a servizio della città.
Ci può suggerire qualche pellicola girata a Milano o su Milano che ci apra a qualche aspetto nascosto della città?
Alla Cineteca di via Fulvio Testi si possono vedere delle vere chicche sui primi passi del cinema a Milano: tuffi ai Bagni Diana ripresi dai Lumière o tanti filmati di Luca Comerio, pioniere della cinematografia italiana, che aveva costruito la sua cinecittà sulla Martesana a Greco. Interessantissimo anche Milano vive documentario di Mario Milani del 1954, testimonianza dello spirito degli anni del boom economico. Come non nominare Milano 1983 di Olmi? Mette i brividi ma era la Milano di quegli anni. E poi ci sono i film di finzione, che a distanza d’anni ci testimoniano una città che non è più, una città che si è profondamente trasformata. Penso ad Antonioni con Cronaca di un amore, a Rocco e i suoi fratelli di Visconti, ma anche a Nata di Marzo di Pietrangeli, film che oggi assumono anche un valore documentario. Di contemporanei suggerisco Prima che la vita cambi noi di Felice Pesoli, sugli anni del beat a Milano (1966/76) oppure Tra il cane e il lupo di Giulia Sodi sul Collettivo Cinema Militante rivisitato da una giovane regista. Entrambi questi film temo si potranno vedere solo in festival o rassegne, come il mio corto Un Barbiere davvero speciale ambientato a Cesate, comune della Città Metropolitana, dove racconto una buona pratica di accoglienza: una dozzina di ragazzi africani profughi appena arrivati da Lampedusa, che una regista, Daniela Schiavone, riesce a coinvolgere nel suo Barbiere di Siviglia messo in scena per il Comune.
Milano è una città cinegenica?
Tutti i posti possono esserlo, dipende dalla luce, dall’inquadratura e soprattutto dalla storia che vuoi raccontare.