Siedo a gambe incrociate e a occhi chiusi, la concentrazione fissa sul respiro, l’attenzione focalizzata sulla zona tra narici e labbro superiore, nel punto in cui si sente l’aria entrare a contatto con la pelle durante ogni inspirazione e successiva espirazione. A un ritmo respiratorio normale, cioè sedici volte al minuto, ciò avviene 21.600 volte al giorno, quasi otto milioni di volte all’anno. Non so se ci avete mai fatto caso. L’aria entra, l’aria esce: il respiro è la chiave per aprire la porta che conduce alla comprensione che il corpo e la mente sono due entità separate, e che quello che chiamiamo l’Io non è né l’uno né l’altra.
Nella meditazione Vipassana la concentrazione sulla respirazione è il primo passo per fermare la mente, che viene paragonata a una scimmia che salta da un ramo all’altro, the Monkey Mind. Ma la mia mente non è una scimmia, è una tigre chiusa in gabbia che gira gira gira e ogni tanto ruggisce e tira zampate e ha artigli molto affilati. Non si ferma mai, quando smette di agitarsi e girare in tondo, il movimento continua in modo più subdolo in una vibrazione sotto la pelle e in un fremito della coda, che non sono il segno di un cedimento ma il temibile preludio a un un ennesimo balzo. Taming the tiger. Anche il corpo si agita, ho gambe intorpidite e un dolore bruciante tra le scapole: l’immobilità mi sembra un miraggio irraggiungibile.
Guardo i monaci seduti davanti a noi, sembra spariscano in uno stato dove la compostezza assoluta li separa dal mondo, immobili come le statue del Buddha alle loro spalle. Non è la prima volta che anch’io cerco di sparire dal mondo e mi chiudo nel silenzio di un Ashram lasciandomi alle spalle giornali, televisione, computer, email, libri, musica, e la sola idea di intrattenere una conversazione o un semplice scambio di sguardi.
La meditazione richiede una concentrazione totale sul momento, sull’attimo in cui respiri, cammini, ti porti il cibo alla bocca. O mentre ti senti un coltello trapassarti la schiena, sensazione che quasi chiunque non sia abituato a stare seduto a gambe incrociate per lunghi periodi è destinato a provare.
Quando sono arrivata qui sapevo cosa mi aspettava, ma non sapevo cosa stessi cercando, né se e come lo avrei trovato. Ho seguito un impulso, e sapendo per esperienza che la enorme e drammatica differenza tra intuizione e illusione è difficile da percepire, sono arrivata carica di speranze e dubbi. Un pessimo inizio. Avevo anche qualche perplessità sulla mia capacità di riuscire a trovare il monastero: soffro di una forma di dislessia geografica grave a sufficienza da crearmi serie difficoltà anche a raggiungere la fermata dell’autobus sotto casa.
Sono partita da Bangkok, undici ore di treno fino a Chiang Mai, poi un autobus fino a Pai e da lì un mini bus per una località sconosciuta (il biglietto era scritto in tailandese) ma con la assicurazione del bigliettaio che l’autista sapeva perfettamente dove scaricarmi: dopo un paio d’ore di viaggio mi ha fatto scendere nel mezzo del nulla, una strada deserta al bordo di una foresta, io, il mio zaino e una tonnellata di dubbi. Ma a lato della strada c’era un’insegna che diceva Wat Pa Tam Wat e indicava un sentiero di terra battuta, che dopo qualche centinaio di metri iniziava a costeggiare un ruscello. Un paesaggio bellissimo, e la bellezza è un grande antidoto alla paura: mi sono addentrata nella foresta con più curiosità che apprensione.
In questa zona il terreno è piatto, non ci sono alture o colline, ma ci sono rocce gigantesche che sbucano dal terreno come enormi denti, un improvviso muro verticale di pietra. Impressionante. È pietra calcarea, non c’è traccia di terra sulla parete ma ci sono grovigli di radici che si aggrappano alla roccia e alberi che vi crescono, sembra davvero di essere sul set di Jurassic Park. Poi dopo un paio di chilometri la foresta improvvisamente si apre, il cambio di luce costringe a strizzare gli occhi e mi trovo davanti un enorme prato che sembra un campo da golf, e dietro a questo finalmente l’entrata del monastero.
C’è una grande sala per la meditazione aperta su tutti i lati, un palco su cui siedono i monaci, dietro a loro delle statue del Buddha, davanti una settantina di persone tutte con gli occhi chiusi, sedute sul pavimento a gambe incrociate. Tutti gli abiti sono bianchi, tranne le kāṣāya- le tonache dei monaci color zafferano. I bungalow sono già tutti occupati, quindi mi dirigo digrignando i denti verso il dormitorio dove arrocco piazzando il mio tatami contro il muro tanto per non avere qualcuno che mi dorme a fianco da entrambi i lati. Io odio dividere lo spazio in cui dormo, da sempre, lo trovo difficoltoso al limite del sopportabile. Ma chi se ne frega, sono qui per fare qualcosa che è difficile comunque: stare seduta per ore cercando di imbrigliare la mente, niente sigarette, niente contatti sociali, niente apertivi… quindi suppongo di avere qualche possibilità di riuscire a sopravvivere anche al dormitorio.
Ogni mattina alle sei i monaci raccolgono l’offerta del cibo, è ancora buio e tutti stiamo inginocchiati lungo il perimetro della sala di meditazione con in mano un piatto di riso, ogni monaco ne riceve un cucchiaio che versiamo nelle loro ciotole. Ha un buonissimo odore. Dopo l’offerta ci mettiamo in fila per fare la nostra colazione, riso e verdure. Poi inizia la prima meditazione, ti siedi e chiudi gli occhi e tenti di domare la tigre, o sedare la scimmia, cercando di raggiungere la mente tramite il corpo, fissi l’attenzione sul respiro e attraverso quello prima o poi, un giorno la porta che si apre sulla mente comparirà. Forse.
Il corpo soffre, spiega un monaco. Persino il Buddha aveva un corpo che soffriva, la sofferenza del corpo è inevitabile. Ma la mente non è il corpo, e può essere sana e libera dal dolore, e felice anche in un corpo malato. Più ci concentriamo sul dolore maggiore è il dolore che proviamo. Vero, chiedetelo alle mie gambe e alle mie anche.
C’è una meditazione che si fa camminando: attraversiamo il ruscello su un ponte di legno e saliamo attraverso la foresta fino alla base della montagna che costeggiamo per poi ridiscendere. Il posto ha una bellezza selvaggia e al contempo serena, bello come certi luoghi che hai sognato quando eri bambino, come le illustrazioni di un libro di fiabe. Mentre cammini cerchi di farlo lentamente e con consapevolezza, eserciti la Mindfullness, l’essere presente in ogni gesto, in ogni respiro, in ogni passo. La maggior parte dei meditatori invece di rallentare il ciclo ininterrotto del processo del camminare, cominciano a muoversi a scatti come dei robot, dei robot che si incastrano e bloccano in momenti strani, come l’Uomo di Latta del Mago di Oz. Incredibile quanto difficili possano essere cose semplici che facciamo da sempre. Guardo con Mindfullness tutta questa gente consapevole vestita di bianco che cammina al rallentatore: sembriamo gli ospiti di una clinica psichiatrica in libera uscita. Ho una mente ipercritica, e mi rendo conto che a volte l’ironia non è una virtù…
Alle undici c’è il secondo e ultimo pasto della giornata: riso e verdure, e banane. Gli avanzi di cibo vanno a Pui, il cane del monastero, che è vegetariano e il cui ruolo è gironzolare, dormire nella Dhamma Hall durante le ore di meditazione e abbaiare quando suona la campana del pomeriggio. Ogni volta che inizia a suonare, Pui si anima e si lancia in un'appassionata serie di lunghi latrati in svariate tonalità, poi si guarda in giro con l’orgoglio di chi di sa di avere fatto bene il proprio lavoro e si riaddormenta.
A metà giornata c’è una parte di meditazione individuale che ognuno fa nella sua stanza e poi tutti a tirar su foglie da terra. Mentre cammino lentamente nel “campo da golf” ramazzando fogliame, sono pervasa dalla sensazione che lottare contro la caduta delle foglie sia una cosa perfettamente assurda, ma tutti gli altri sembrano concentrati e assorti, e apparentemente immuni da tale dubbio.
I giorni passano, e sono tutti identici tranne per la pioggia che comincia a venire giù come una cascata. A un certo punto sono talmente incapace di focalizzare l’attenzione su qualsiasi cosa e annoiata a tal punto che inizio ad attendere con impazienza che le gambe inizino a farmi male, o che mi vengano i crampi: qualsiasi cosa basta che succeda qualcosa.
Ma perché diamine sono qui? Che cosa mi aspettavo? Perché mai ho pensato che stare in questo posto mi avrebbe rivelato qualche direzione da prendere che non riesco a vedere, o mostrato la via per risolvere problemi che non sono in grado di risolvere? Perché non posso essere qualcun altro, qualcuno che ha di meglio da fare che non stare seduto in un monastero buddista a tentare di meditare? Certo, suona bene quando racconti che un anno sei andata a fare meditazione Zen nelle colline del Tamil Nadu e l’anno successivo Vipassana nella foresta in Tailandia, ma perché mannaggia la miseria sono qui? Che cosa ho combinato nella vita? Che cosa ho fatto di buono? Qualche CD??? E dovrebbe avere importanza? Dov’è il mio posto? Dove sono IO? E cosa è IO? Che cosa ha veramente senso e cosa sembra avere molto ma in realtà non ne ha alcuno? Soffro di momenti di intensa frustrazione, rabbia, e di una paura densa e appiccicosa come pece.
Poi all’improvviso succede qualcosa, senza che nulla sia successo, ma è una trasformazione totale, è come quando guardi una bolla di sapone e quella improvvisamente scoppia senza rumore: prima c’era e poi non c’è più. Tutto è cambiato senza che io facessi nulla per farlo cambiare, improvvisamente sono straordinariamente libera e in mi ritrovo uno stato mentale stranissimo. È come la calma dopo la tempesta, uno stato di quiete pieno di silenzio e pace, la tempesta dei pensieri è sparita, è altrove: sono nell’occhio del ciclone. Tutto è immobile, e ogni cosa che era amara ora è dolce.
E ora so che questo era ciò che cercavo: un segno, un momento di speranza, di vero silenzio, e la possibilità di percepire anche per solo un secondo o un minuto che non importa cosa succederà, anche se a volte mi posso sentire completamente perduta come un naufrago in mezzo al mare, c’è sempre qualcos’altro, un punto di vista diverso, il modo di essere realmente liberi. C’è sempre una forma di libertà interiore che non può venire intaccata da NIENTE, c’è una forma di luce in ogni forma di buio. La luce alla fine del tunnel non è un’illusione, il tunnel lo è è una frase che attesta qualcosa di indimostrabile, ma su cui ora so di poter contare. Sempre.