“Non perdere la voglia di camminare: io, camminando ogni giorno, raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni mio malanno […] ma stando fermi si arriva a sentirsi malati...
Perciò basta continuare a camminare, e tutto andrà bene”.(Bruce Chatwin)
L’umanità è nata nomade, ma ha finito per seppellirsi in tombe di pietra. Le antiche tribù sollevavano una lettiga di rami intrecciati ponendo la salma su di un albero perché la sua anima potesse spiccare il volo e poi se ne andavano, seguendo le antiche vie delle migrazioni stagionali.
Camminare è un gesto spontaneo come il primo respiro di ogni nuovo giorno. Camminando lasciamo libero lo sguardo di vagare e i pensieri di dissolversi e farsi leggeri. Non c’è cattivo umore che una camminata non possa mitigare. Tuttavia storicamente l’uomo ha sempre camminato per una ragione.
I gruppi di cacciatori e raccoglitori si spostavano seguendo i ritmi stagionali di piante e animali. Tutto il nostro dna urla una sola parola: movimento. Ma il movimento, per essere tale, ha bisogno di uno spazio fisico, di una direzione.
In pianura si vive nelle sole dimensioni del lungo e del largo. Il lungo è la dimensione della distanza, del viaggio, dell’avventura, della comunicazione e del mercante. Il largo è la dimensione della prossimità, dell’abbraccio, della convivialità, del villaggio ma anche della violenza e della sopraffazione. La montagna regala una terza dimensione: l’altezza – la dimensione della vertigine, della preghiera, della contemplazione, del contatto intimo con “l’alto”.
Nella storia delle religioni, le montagne sono scale appoggiate al firmamento che gli uomini percorrono per avvicinarsi al divino. Comunemente tra i popoli pagani scalare le vette rimane un tabù. Su ogni cima delle Ande dimora un Apu (un dio) che è tanto più potente quanto più è possente il monte e avvicinarlo è cosa per pochi.
In montagna ogni opera dell’uomo si deve confrontare con quella della Natura. La montagna è un luogo di affinamento: le rare risorse invitano a un costante esercizio di misura die propri bisogni. Più si sale di quota, più il vivere quotidiano si asciuga, si fa essenziale e scevro di ogni frivolezza. In montagna, apprezzo i rigori dell’inverno perché benvenuta sarà la primavera, ringrazio per la calma gli elementi perché grande è lo spavento quando il cielo si infuria e gioisco quando il raccolto di patate riesce abbondante in quei terreni arcigni. Se dovessi scegliere dove nascere, non avrei dubbi. L’estremo rifugio è tra le valli austere, sotto la benevola protezione degli spiriti delle vette e nel folto del bosco, ovunque sia possibile trovare acqua di fonte, legname per scaldarsi e buona terra per coltivare.
L’altitudine e l’isolamento favoriscono un senso di spiritualità che, alcune ricerche confermano, è parte del nostro corredo genetico. Come la vista ci permette di intuire il visibile, così la spiritualità ci rivela ciò che attorno a noi è invisibile. La rivelazione è spesso tenue perché affetta da molte distrazioni e interferenze ma con una paziente e continua attività di allenamento allo stare con se stessi, si può irrobustire il segnale e affievolire ciò che lo disturba in modo graduale.
Siamo così assuefatti all’idea di un mondo inerte da precluderci qualsiasi occasione di ascolto che invece in Natura si rende possibile perché il segnale è meno disturbato, si accede con più facilità a una sensazione di interdipendenza che ci collega gli uni agli altri, spesso senza bisogno di “fare”, bensì con un paziente e costante lavoro di indagine interiore. In un’epoca del fare e del realizzare, entrare in contatto con un simile convincimento, significa iniziarsi a un percorso fatto di rinunce, di pratiche di ascolto, di progressivo diminuire del volume delle proprie affermazioni all’esterno con l’intento di raggomitolarsi sempre più, sempre meglio all’interno.
Sto parlando di pratiche di ascolto che mettano noi stessi e le nostre dinamiche al centro ma non con l’obiettivo di isolarci e di sottrarci al confronto con il mondo esterno, piuttosto con quello di renderci sempre più consapevoli dei nostri movimenti interiori e quindi in grado di andare nella relazione in modo responsabile e felice. Anche l’ascolto è un cammino, fatto di passi interiori, di respiro e progressivo familiarizzare con i propri pensieri, sensazioni ed emozioni.
L’umanità è nata nomade e anche se ha finito con il seppellirsi in tombe di pietra, è rimasta e rimarrà nomade nell’anima, perché anche quando non muove un passo è capace di esplorare continenti interi guidata dal suo proprio respiro perché, per citare Thich Nhat Hanh e un suo bellissimo libro, “la pace è a ogni passo”.