Se sei sdraiato su una spiaggia e vedi un ‘Essere Umano’ che giunge su una zattera e ti chiede aiuto, che cosa fai? Prima di soccorrerlo, gli chiedi se è maschio o femmina, bianco o nero, adulto o bambino? Oppure, prima di farlo avvicinare alla battigia, gli domandi i documenti e, se per caso non li ha, lo ri-spingi in mare aperto?
La zattera del naufrago è una imbarcazione abbandonata ai venti e alla tempesta e chi vi è sopra è partito nella ‘speranza’ di un approdo sicuro. Magari si è messo in viaggio perché non aveva più cibo, oppure perché è stato vittima di un cataclisma, o ancora perché era inseguito da mostri pericolosi. E pensi che si sia portato dietro i documenti?
Se c’è un solo Uomo che ha bisogno di aiuto, noi altri Uomini non possiamo far finta di niente, se lo lasciamo morire rischiamo di diventare degli assassini. Perché come dice il ritornello della Canzone del maggio di Fabrizio De Andrè «anche se voi vi credete assolti, siete pur sempre coinvolti». Qualunque sia il colore della sua pelle, la sua nazionalità, il suo credo politico o religioso, il naufrago è un Essere Umano che si trova in pericolo di vita.
Prendo spunto, dunque, dall’incontro intitolato “Prima gli Esseri Umani”, svoltosi lo scorso 14 luglio all’Hotel Miramare di Latina in occasione del Festival Come il Vento nel Mare. Di fronte a un pubblico che occupava ogni spazio, in piedi, seduto, dentro e fuori la suggestiva location sul mare, il Direttore Artistico del Festival Massimiliano Coccia ha intervistato il sindacalista italo-ivoriano dell’Unione Sindacale di Base (USB) Aboubakar Soumahoro e lo scrittore e giornalista Roberto Saviano.
Per comprendere lo spirito del dibattito bisogna rammentare che l’USB è un sindacato indipendente che «rifiuta lo "sviluppismo", che distrugge vite umane e territori, genera guerre, razzismo e miseria e vuole porsi come sindacato capace di attivare un cambiamento generale nel nostro paese». E il suo Dirigente Sindacale, Aboubakar, trentotenne sociologo di grande carisma e chiarezza espositiva, è perfettamente consapevole degli obiettivi che il suo sindacato si pone. Quando si parla di voler arrestare l’invasione degli stranieri in Italia, possiamo far riferimento alle sue parole: «I processi migratori non potranno mai essere fermati. Bisogna però raccontare il perché: ci sono processi strutturali, geopolitici e ambientali. Da qui al 2050 avremo 143 milioni di persone che fuggono dal proprio luogo abituale di dimora per i cambiamenti climatici, 815 milioni di persone colpite dalla fame».
Insomma fuggono dalla tempesta, dai cataclismi e cercano ristoro alla fame, che cosa dobbiamo fare? Torniamo alla nostra zattera e al nostro naufrago. L’italiano medio si chiederà: «Ma se io ho solo una pagnotta, come faccio a darla a lui?» Beh, probabilmente, potrebbe rinunciare a mezza pagnotta, ma gliene resterebbe altra mezza e magari, insieme, potrebbero trovare il modo per procurarsi altro cibo, per entrambi. Il cittadino cosmopolita, invece, apprezzerebbe, l’arrivo di questa gente nuova, con cultura e abitudini diverse e si sentirebbe arricchito da questa varietà. Se siamo gocce nel mare, noi non possiamo osservare il mare, chi invece, guarda il mare dal di fuori, può vedere quello che, ormai, coinvolti e prigionieri dell’acqua, non siamo più in grado di guardare. Rischiamo, infatti, di chiuderci nel nostro provincialismo e di non aprire le nostre menti, i nostri porti dell’accoglienza e nemmeno le braccia del nostro cuore.
Il filosofo Dario Antinori, che conobbe a Vienna il teorico della «Società aperta» Karl Popper, ci riporta questo concetto del filosofo austriaco: «La società aperta è la società che è aperta a più valori, a più visioni del mondo filosofiche e religiose, a più proposte politiche, e quindi a più partiti, alle critiche più incessanti e severe dei diversi punti di vista. La società aperta è aperta al maggior numero possibile di idee ed ideali diversi e magari contrastanti. La società aperta, pena la sua autodissoluzione, è chiusa solo agli intolleranti e ai violenti».
Sapete cosa manca in una società chiusa? Manca lo stupore. Tutto sembra essersi stabilizzato in uno stato di equilibrio che viene considerato una verità assoluta. Solo chi non vive in quel mondo e non è pervaso dalle credenze che lo determinano, riesce a stupirsi di un comportamento, un avvenimento, un’azione. E il migrante, non perché sia migliore di noi, ma proprio per la sua prerogativa di venire da un’altra terra, da un’altra cultura, da altre abitudini, da altre credenze, nel suo confronto con il nostro mondo, magari può farci vedere un altro modo di creare la realtà a cui non avevamo nemmeno pensato.
È anche questo il senso del libro del sociologo francese Alain Touraine Libertà, uguaglianza, diversità, noto per aver coniato il termine "società post-industriale". La diversità è ricchezza e forse ne dovremmo essere fieri, dovremmo nutrircene, accogliere le differenze, provare a dialogarci, a volte riuscire ad integrarle, altre volte a rimanere della nostra opinione, ma sempre nel rispetto dell’opinione e dello spazio dell’altro. Quando lessi, tanti anni fa, questo saggio, però, mi rimase sempre nel cuore un’altra affermazione del celebre sociologo. Egli sosteneva che, piuttosto che preoccuparsi dei punti di conflitto tra una razza e l’altra, si potrebbe cercare di vederne i punti di unione. Come si comporta il cuore di una mamma nei confronti del proprio bambino? Quale gioia esprime il volto di una sposa nel giorno del suo matrimonio? Quanto dolore vi è nel cuore di una persona che ha perduto un suo caro? Come brillano gli occhi di un bambino quando abbraccia sua madre? Pensate che queste emozioni siano differenti se siamo bianchi, neri, gialli, africani, arabi o indiani? Anzi, nella nostra società disumanizzata, forse si è perduto qualcuno di questi valori e magari loro, i migranti, ce lo possono riportare alla mente e forse anche riaprirci il cuore.
Eppure sorrido quando penso a un fatto che mi capitò in un paesino della costa sarda. Premetto che sono cagliaritana e ho vissuto per anni le nostre spiagge popolate da sfilate incessanti di marocchini e senegalesi: li conoscevamo per nome, compravamo quello che non ci serviva, ci raccontavano le loro storie e gli accoglievamo sempre con gioia. Eppure quel giorno che ancora non ho dimenticato, vidi una donna vestita di nero e sentii che gridava al suo nipotino: «Se non vieni subito qui, chiamo il marocchino!». Ricordo che mi sono sentita addosso tutta l’ignoranza di quella affermazione. Quel bambino veniva minacciato con lo spauracchio dell’uomo di colore e nemmeno tanto nero, solo poco più nero di un sardo, e non sempre, perché i contadini che lavorano al sole spesso sono anche più neri. Il marocchino diventava, nella testa di quella donna anziana, sinonimo di uomo nero, scuro, oscuro, infido, sconosciuto e in quanto tale pericoloso, come lo è tutto quello che non è controllabile, che non ci è noto.
Nessuna donna e nessun uomo dovrebbe vivere in questa condizione di ignoranza, perché proprio come ci spiega Touraine, anche quell’uomo che calca le nostre terre carico di merci cercando di sbarcare il lunario, da qualche parte, lontano o vicino, ha anche lui un bambino, una moglie, dei genitori, tutta gente a cui, dopo la fatica quotidiana del lavoro, lui manda i soldi guadagnati. Allora perché non proviamo a vedere quell’Uomo semplicemente come un ‘Essere Umano’, che nel cuore prova gioia e dolore, affetto e tenerezza, rabbia e tristezza, esattamente come noi? Siamo preoccupati per la sua diversità? O abbiamo paura di una invasione di uomini di colore? Ma poi in che cosa consiste realmente questa invasione? Soumahoro ci fornisce dei dati: «In Italia sembra che si stia assistendo a un’invasione: in realtà parliamo del 5% della popolazione».
E non dimentichiamoci davvero che anche noi siamo stati e siamo ancora migranti. A volte ci siamo spostati dalla nostra isola e ci siamo avventurati nel continente per allargare i nostri confini - come la sottoscritta -, a volte siamo partiti per qualche paese dell’Europa alla ricerca di un lavoro migliore, a volte siamo salpati oltreoceano per avere un lavoro e per cercare fortuna. Non sempre siamo stati spinti solo dalla curiosità o dalla volontà di espandere la nostra visione, molte volte è stata la necessità a muovere la nostra speranza. E non parlo solo dei nostri nonni contadini e braccianti, operai e artigiani, ma anche dei nostri laureati e dei nostri intellettuali geniali, che spesso hanno dovuto espatriare per donare ad altri paesi i loro talenti o semplicemente la loro poesia.
Non voglio muovere critiche a governi, a partiti politici e a uomini chiave, non voglio parteggiare per Destra, Sinistra o Centro, voglio semplicemente schierarmi a favore dell’Uomo, della Vita e del Cosmo che lui abita. Quell’uomo schiaffeggiato, svilito, sfruttato, cacciato, deriso, massacrato, in un domani non proprio lontano “potresti essere proprio tu!”. Alla domanda: «Perché “Prima gli Esseri Umani”?», Roberto Saviano, infatti, risponde: «Perché è sempre pericoloso fare distinzioni tra noi e loro. Sono categorie destinate a ribaltarsi. Siamo stati “loro” tante volte e siamo stati maltrattati, vessati, schiavizzati, umiliati e anche uccisi. Abbiamo subito e sofferto e questo è un buon motivo per non fare lo stesso».
Il mare è di tutti, non possiamo metterci le porte, il mare è l’occasione per metterci in viaggio. Saviano racconta di una legge valida fin dal tempo dei fenici: «In mare se non salvi, non sarai salvato. Il destino su quella barca non è solo di donne uomini e bambini africani che stanno scappando ma è il nostro destino su quei legni».
In definitiva ogni buon ateo o cattolico o agnostico di questo Paese può essere d’accordo con i teologi del continente nero e con le parole di Don Antonio Bello, come suggerisce Saviano, «non ci interessa sapere chi è Dio, ci interessa sapere da che parte sta…».