In questi giorni, discutendo sul controverso tema delle vaccinazioni, un gran numero di politici, scienziati, sanitari e semplici cittadini si sono schierati in modo risoluto a favore della scienza. La scienza, sostengono, non può essere democratica, perché nella scienza non vi sono opinioni, ma certezze. Delle due una: o il sole gira intorno alla terra o la terra gira intorno al sole. Non vi sono vie di mezzo. La scienza, stabilisce in modo certo e incontestabile cosa sia giusto fare o non fare in determinate circostanze e ciò non può essere oggetto di alcuna discussione, né tantomeno di mediazione. Chi non si adegua è un povero ignorante che non merita alcuna considerazione. Deve solo rassegnarsi a studiare.
Di fronte a tanto rigore mi sorgono due riflessioni: una sulla natura del pensiero scientifico e l’altra sulla coerenza tra i principi richiamati in termini così ultimativi e le azioni messe in atto nella vita quotidiana. Per quanto riguarda le certezze della scienza ritengo che sarebbe un segno di saggezza sfuggire alla presunzione di conoscere la verità assoluta, una posizione che più si addice alle fedi e alle ideologie che alla scienza. Si sa che la scienza procede per prove ed errori e diffondere l’idea che essa possa dare risposte definitive, oltre che sbagliato dal punto di vista epistemologico, ci espone a molti rischi. Quasi nulla di ciò che un tempo è stato scientificamente riconosciuto è tuttora valido. Ciò vale per la fisica, per la chimica, per la biologia ma ancor più per la medicina, di cui la storia (anche quella recente) è zeppa di tremendi errori. Come vedremo in seguito, è molto facile trovare in ambito medico procedure non suffragate da adeguate conoscenze scientifiche e constatare che gli annunci di scoperte sensazionali sono perlopiù ridimensionati o smentiti da studi successivi [1].
Questo non certo per mettere in dubbio la validità del pensiero scientifico, nel quale mi riconosco, né tantomeno per smentire l’utilità delle vaccinazioni (anche se ogni vaccino ha le sue peculiarità), ma solo per ricordare che nei confronti della scienza è bene mantenere un atteggiamento di umiltà, di disponibilità, di confronto, di dialogo, ben sapendo che l’evoluzione del sapere è la principale garanzia della sua affidabilità. Come ci ricorda Edgar Morin: l’incertezza è inseparabile dal vivere, bisogna apprendere a navigare in un oceano di incertezza attraverso arcipelaghi di certezza. L’incertezza non si elimina, si media con essa [2]. Dunque, le conoscenze scientifiche non sono immutabili. La scienza non è credibile perché offre la risposta definitiva, ma perché offre la migliore risposta di cui disponiamo al presente. In altre parole, il segreto della conoscenza è molto semplicemente essere aperti a imparare [3]. Attenersi alle conoscenze scientifiche, quando ci sono, pare quindi la cosa più sensata, senza però rinunciare a prendere atto dei limiti del nostro sapere, soprattutto quando si affrontano argomenti eterogenei e complessi.
Torna utile ricordare, al riguardo, che se in medicina dovessimo impiegare solo ciò che è stato scientificamente provato, con buona pace degli “scienziati”, dovremmo abbandonare gran parte di ciò che costituisce la pratica clinica attuale. Sorprendentemente, infatti, secondo il Clinical Evidence Handbook (il prestigioso testo della Cochrane Collaboration che raccoglie le sintesi delle migliori conoscenze scientifiche disponibili) solo l’11% di oltre tremila prestazioni cliniche di uso corrente si fonda su chiare prove di efficacia [4]. Che cosa facciamo con il resto? Come ci comportiamo quando la scienza non ci aiuta? Come si vede, non si tratta solo di applicare le migliori conoscenze di cui disponiamo ma anche di essere preparati ad affrontare l’incertezza che contraddistingue le nostre decisioni quotidiane e in questi casi un atteggiamento altezzoso poco si addice a chi subito dopo è costretto a misurarsi con la propria ignoranza.
Veniamo al secondo punto. In considerazione del rigore e dell’intransigenza con cui la maggior parte delle persone si dichiara a favore della scienza dovremmo coerentemente aspettarci una quasi perfetta sintonia tra le migliori evidenze scientifiche e le conseguenti decisioni pratiche. Più che giusto. Ma è quello che succede? Assolutamente no. Qualche esempio?
Lo scorso mese di marzo il JAMA, una delle più autorevoli riviste mediche del mondo, ha pubblicato i risultati di un importante studio clinico che si proponeva di valutare se la mortalità per cancro della prostata diminuisce nei soggetti che si sottopongono allo screening eseguendo il PSA (Prostate-Specific Antigene) [5]. Come noto si tratta di un test molto diffuso anche in Italia e sul quale ci sono già stati autorevoli interventi. Ricordo, per esempio, che nel 2013 una giuria di cittadini informati, convocata nell’ambito di uno specifico progetto promosso da PartecipaSalute, aveva deliberato che il servizio sanitario dovrebbe sconsigliare il PSA come test di screening [6]. Lo stesso Richard Ablin (lo scopritore del test), dalle autorevoli pagine del New York Times, qualche anno or sono si dissociò apertamente dall’uso del PSA come test di screening dichiarando che non avrebbe mai immaginato che la sua scoperta potesse avere effetti così disastrosi per la salute pubblica [7].
Lo studio soprarichiamato, non è l’unico disponibile, ma è il più grande in assoluto mai realizzato su questo tema, ha coinvolto oltre 400.000 maschi di età compresa tra 50 e 69 anni, 189.000 dei quali hanno eseguito il PSA come test di screening per il cancro della prostata. Dopo essere stati seguiti per dieci anni, la mortalità per cancro della prostata dei soggetti sottoposti allo screening non mostrava alcuna differenza significativa da quella registrata nel gruppo di controllo (214.000 uomini). Tuttavia, la proporzione di uomini con diagnosi di cancro è risultata significativamente più elevata nel gruppo sottoposto allo screening (4,3%), rispetto a quello di controllo (3,6%).
In pratica, come dimostra anche una recentissima revisione sistematica della letteratura [8], gli uomini che si sottopongono al test, a fronte di una piccola riduzione della mortalità specifica, aumentano significativamente la loro probabilità di avere una diagnosi di cancro (con tutto quello che ne consegue) senza trarne alcun beneficio in termini di sopravvivenza. Di questo, però, nessuno li informa. Questi dati dimostrano che chi si sottopone al test, non cambia la sua probabilità di morire, ma nel caso risulti positivo corre il rischio di vedersi inutilmente rovinata la vita a causa degli effetti dannosi associati alla terapia chirurgica e radioterapica (disturbi della minzione, incontinenza, impotenza sessuale). In altre parole, lo screening, dal punto di vista epidemiologico, si comporta come un vero e proprio induttore di tumori. Tutti coloro che continuano a proporlo devono esserne consapevoli e devono assumersi la piena responsabilità dei loro consigli. I cittadini, dal canto loro, prima di sottoporsi al test, hanno il pieno diritto di essere correttamente informati sia dei benefici che dei rischi associati a tale pratica. Ciò anche alla luce della nuova legge sulla responsabilità professionale.
Che cosa si fa al riguardo? Semplicemente nulla. Molti medici persistono nel prescrivere il PSA senza informare i pazienti che il test, a fronte di possibili rischi, ha poco o nessun valore, gli amministratori non sembrano interessati al problema, i giornalisti continuano a disinformare il pubblico, e i cittadini nell’illusione di difendere la salute sono ben lieti di sottoporsi all’esame. Eppure anche in questo caso si tratta di attenersi alla scienza. Perché nessuno si scandalizza?
Per giunta, quello del PSA non è l’unico esempio di prestazioni di cui si abusa e che vengono assicurate al di fuori dei canoni scientifici. Basta guardare con occhio disincantato la letteratura medica per rendersi conto che l’intero ambito della medicina è pervaso da prestazioni inutili, inappropriate e dannose. I check-up non servono a nulla, vitamine e integratori dietetici sono inutili, come pure la maggior parte degli esami preoperatori o gli ECG eseguiti alle persone in buona salute. Sono inappropriate quasi la metà delle indagini radiologiche ambulatoriali, dal 20% al 50% delle angioplastiche eseguite a pazienti con angina stabile e gran parte delle artroscopie eseguite nei pazienti con artrite del ginocchio, che a parità di risultati, potrebbero essere sostituite da semplici terapie fisiche. Tutti dati pubblicati su prestigiose riviste scientifiche, a cui pochi mostrano interesse.
A tale proposito Slow Medicine, insieme ad altre organizzazioni afferenti a 21 Paesi distribuiti su 5 continenti, ha lanciato in Italia il progetto Fare di più non significa fare meglio - Choosing Wisely-Italy, a cui hanno già aderito 42 Società scientifiche e associazioni professionali sia mediche che infermieristiche. Tali associazioni, sulla base delle migliori conoscenze disponibili si sono impegnate a ridurre il sovrautilizzo di esami e di trattamenti sanitari, attraverso scelte informate e condivise con i pazienti, individuando, finora, oltre 200 trattamenti di uso comune ad alto rischio di inappropriatezza [9]. Si tratta di cose semplici, pratiche, fattibili che si incontrano ogni giorno e che hanno ricadute immediate sulla salute delle persone. Sono azioni sobrie, basate su conoscenze scientifiche, facilmente comprensibili, che non si alimentano di grandi discorsi e di dichiarazioni altisonanti, che non richiedono cambi di paradigmi, piani strategici, investimenti straordinari. Sarebbe davvero bello che i professionisti e i cittadini unissero le loro forze e dimostrassero che si può aspirare a una buona medicina, sobria, efficace e a misura d’uomo, senza ricorrere a proclami, senza rinviare a decreti, senza aspettare ordini e regole che discendono dall’alto, ma così semplicemente, piano piano, senza clamore, mettendosi d’accordo, applicando ciò che si sa (noi diciamo in modo slow), a partire dalle piccole cose.
Bibliografia
[1] Ioannidis J: Contradicted and Initially Stronger Effects in Highly Cited Clinical Research. JAMA 2005; 294: 218-228.
[2] Morin Edgar: Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione. Raffaello Cortina Editore 2015.
[3] Rovelli Carlo: Che cos’è la scienza. Arnoldo Mondadori editore 2014.
[4] BMJ Evidence Center: Clinical evidence Handbook 2012.
[5] Martin RM, Donovan JL, Turner EL, et al; CAP Trial Group. Effect of a low-intensity PSA-based screening intervention on prostate cancer mortality: the CAP randomized clinical trial [published March 6, 2017]. JAMA. doi:10.1001/jama.2018.0154.
[6] Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri: Giurie di cittadini per la salute: Sconsigliato il PSA come test di screening individuale per il tumore della prostata in uomini di 55-69 anni.
[7] The Great Prostate Mistake.
[8] Ilic D et al: Prostate cancer screening with prostate-specific antigen (PSA) test: a systematic review and meta-analysis). BMJ 2018;362:k3519.
[9] Slow Medicine.