Una grande, immobile roccia protesa nel mare; da lei emana un caldo tepore: il dono che il sole le ha lasciato dopo un giorno trascorso insieme.
Nubi lievi, delicate si muovono nel cielo come ombre di un sogno; vanno mollemente alla deriva splendenti di una luce dorata. Promontori coperti di pini dolcemente ondeggianti disegnano figure fantastiche: una grossa tartaruga, un pesce dalle ampie ali, una forma umana che si illumina di rosa e d’argento.
Due cormorani appoggiati sulla scogliera si asciugano le piume alla brezza del tramonto; osservano l’orizzonte segnato dalla rossa striscia lasciata dal Sole. Il tremolio delicato delle tenui foglie di un arbusto sembra far ondeggiare la pietra dalla quale spuntano come per miracolo le radici nodose.
Il grido stridulo dei gabbiani riempie l’aria come un pianto e si specchia nella memoria del cuore: sono lacrime di ricordi lontani, di abbandoni senza ritorno. Sul mare, disteso come un drappo di seta, iniziano a scintillare infinite piccole stelle disegnate dai raggi di luce che si attardano: come un preludio della notte.
La sera sta calando e l’acqua si increspa lentamente facendo scivolare le sue pacifiche onde verso la riva. Una piccola barca galleggia serena sulla distesa del mare cullata dal respiro di una minuscola vela. In lontananza si odono voci di vita: il pianto di un bambino, il saluto scambiato prima di tornare a casa, l’abbaiare di un cane, e ancora parole che arrivano sfumate come quando si avvicina all’orecchio una conchiglia per sentire il suono delle onde.
Lo sguardo accarezza la quiete del paesaggio. Ogni cosa comunica calma e tranquillità. Ogni cosa sembra sospesa in una magica fissità eppure ogni cosa si muove all’impercettibile soffio di una forza invisibile, la più enigmatica di tutte le forze della Natura: il vento.
Tra tutte le forze naturali il vento è stato sempre la più difficile da afferrare. Ci tocca, ci muove, ma non possiamo toccarlo a nostra volta. Fu la nostra prima esperienza dell’ineffabile. Qualcosa con una potenza indescrivibile, troppo remoto per poter essere visto, ma abbastanza vicino per essere sentito in un modo molto intimo, molto personale. [1]
Può alzarsi furtivamente uscendo dal nulla e solleticarci dietro il collo oppure può scaraventarci a terra. Passa tra i capelli come le dita di una mano amorevole o ci fa rabbrividire quando d’improvviso si rende manifesto. Se l’aria è completamente tranquilla e fresca possiamo godere le notti illuminate dalle stelle e la tregua del calore ardente.
Accarezza i fianchi dell’aquilone che, come spinto su un’altalena, si libra nell’aria con il suo corpo di carta sottile rivolto al cielo, sicuro di non cadere se una mano esperta che conosce le correnti ne tiene il filo di seta.
Il vento non riposa la notte, non tramonta al sorgere di altri astri. Ha quella invisibilità che si ritrova talora nella parola: aerea eppure carica di forza, capace di colpire con una violenta sferzata o di accarezzare chi si abbandona al suo soffio.
Non ha forma propria né dimensioni. È forte abbastanza da strappare alle radici le più grandi specie viventi sulla Terra e tuttavia può filtrare attraverso una fessura sottile come un capello. Il vento è sfuggente, mobile, fuggitivo, difficile da definire e impossibile da ignorare. Non c’è muro attraverso cui non possa passare il vento dice un proverbio cinese.
Le sue immagini ci arrivano attraverso i mari frustati dagli uragani, attraverso i vortici di sabbia attorcigliata come una cornucopia; nei pini che crescono sulle scogliere e che del suo soffio conservano la forma anche quando esso è fuggito. Possiamo incontrarlo quando dipinge il cielo con le nuvole, i troni degli dei sui quali un tempo gli angeli si inginocchiavano e i santi trovavano riposo.
Possiamo attraversare l’esperienza più intensa di esserne sollevati come in un mistico abbraccio, eppure lui, il vento, non possiamo vederlo. L’aria è invisibile, invisibili sono i venti che si muovono “con violenza agitata tutt’attorno al mondo sospeso”.
Noi siamo dominati dal senso della vista, una dittatura dell’occhio per il quale ciò che non è visibile non ha senso, e forse per questo si è a lungo mantenuto un alone di mistero attorno a questa potente energia che resta un enigma. L’esperienza che possiamo farne ci arriva soltanto attraverso gli effetti che indirettamente provoca il suo passaggio. Non ha un suo odore eppure è attraverso il fluido veicolo dell’aria che gli effluvi più disparati possono cadere sotto il nostro olfatto: i profumi dei fiori, l’imminenza della pioggia che si preannuncia con il suo sentore umido.
Non ha un suono eppure gli alberi gli forniscono uno strumento naturale perché possa attraverso di loro far udire delle voci: il cipresso è un’arpa, il salice un flauto. Nei pomeriggi estivi i Giapponesi si ritrovano nei boschi per udire il matsukaze, il vento che conosce la canzone dei pini. Dicono i pescatori che l’acuto grido che mette in guardia dalla bora in arrivo è come “un suono disperato che fa tremare il cuore di ogni uomo”.
Non ha colore ma grazie al suo soffio i variopinti, piccoli drappi sui quali sono stampati i sacri simboli del Buddhismo lamaista sventolano nell’aria che si impregna delle preghiere di cui essi sono portatori e ne rimanda i giochi di luce.
Non sempre c’è stata consapevolezza dell’esistenza del vento, del suo essere una forza primigenia paragonabile all’amore, all’odio, capace di manifestarsi in mille forme
All’inizio non esisteva una cosa come “il vento”.
C’erano brezze gentili provenienti da fuori, dal mare che rendevano più piacevoli i caldi pomeriggi estivi, c’erano raffiche gelide che facevano diventare blu le dita di mani e piedi, c’erano bufere vigorose che si aprivano la strada a colpi attraverso i cespugli più fitti, e colonne turbinose di polvere che sembravano possedere una sostanza e una rabbia loro proprie, non c’era motivo di mettere queste cose in uno stesso mucchio, non c’era modo di sapere che partecipavano della qualità e proprietà dell’aria in movimento. [2]
Questo alone di mistero e la sua forza invisibile lo hanno associato a creature mitiche come accade quando non esiste spiegazione razionale per gli avvenimenti. Il vento si è fatto vedere attraverso lo sguardo che attinge alla magia.
Esiste una gamma vastissima di miti sul vento, molti dei quali lo fanno vivere o uscire da una caverna o da un foro nei muri o nel suolo. Ogni cultura ha un proprio modo di riferirsi al vento, di denominarlo ma sono molti gli elementi comuni come l’esistenza di una “casa dei venti” collocata su una collina sacra o in una caverna in montagna.
In Polinesia si credeva che ci fossero dei fori ai bordi dell’orizzonte attraverso i quali Raka, il dio dei venti, e i suoi figli amavano soffiare ed esisteva nelle Hawai una zucca dei venti perenni che conosceva tutti i loro nomi e i loro segreti così che attraverso di lei potevano essere evocati.
Enlil è il signore di tutti i venti nel pantheon sumerico. Il dio Bel o Baal era noto come “colui che cavalca le nubi”.
Il vento soffiato da Zeus dio della pioggia, del vento, della tempesta e del tuono decise la salvezza dei Greci che sconfissero i Persiani a Salamina.
In molte tradizioni la vita ha inizio attraverso il soffio, attraverso l’inspirazione di aria in movimento, con il vento come respiro che trasporta lo spirito: Quetzalcoatl, il dio del sole, del vento e dell’aria nasce quando il signore dell’esistenza alita su sua madre.
“Il respiro è la vita” dicono gli yogi, poiché contiene il prana che considerano la fonte di ogni energia. “Quando il respiro è regolare lo è anche la mente e diviene intonata con i venti dell’universo”.
Il primato del vento è accentuato dal fatto che il simbolo del sole, l’esagramma cinquantasette nel I Ching è costituito dai trigrammi vento sopra vento.
Nel Pantheon olimpico Eolo è il guardiano dei venti che tiene nascosti in un sacco di pelle di bue. Sarà l’avidità dei compagni di Ulisse ad aprire quel sacco che era stato affidato all’eroe perché potesse finalmente giungere in patria.
Pare probabile che la ricorrenza di sacchi, caverne, borse, cesti, zucche come contenitori dei venti possa essere rimando simbolico al grembo materno dove essi attendono per essere liberati. Le caverne che spesso li accolgono sembrano anche sottolineare la loro identità di figli della Madre Terra. I venti non sono dei, hanno la loro origine in Natura, fluiscono dalla Grande Madre e sono maschi.
Il vento assume un ruolo generante in molte tradizioni: uno spirito aereo e maschile che muove il mondo liquido e femminile; violento, precipitoso, fugace, soffiante, onnipotente, onnipresente, imperscrutabile. Una forza che pervade lo spazio senza posa: può rappresentare la vita ma da solo non può generarla.
La dea babilonese Tianat nacque quando il ventre di sua madre fu “riempito dei venti furiosi”. In una storia presa dalle rune finniche si racconta che la vergine Ilmater fu inseminata dal vento dell’est prima di partorire lo stregone Vainamoinen.
Secondo alcuni racconti la dea Era, dopo aver inalato un vento errante, concepì Efesto che divenne l’artigiano degli dei. Una storia indonesiana racconta che all’inizio solo il cielo era abitato. Allora una donna del cielo discese lungo una palma sulla terra dove venne resa gravida dal vento del sud mentre dormiva. Si dice che tutti coloro che vivono oggi sulla terra siano i suoi discendenti.
Un bambino appena nato, con la bocca spalancata, cerca di placare la sua fame d’aria. Gli occhi chiusi, le braccia che si agitano non sa ancora che cosa fare. Poi un sussulto, un’emissione, un piccolo soffio e il respiro comincia ad attraversare il corpo. È un momento magico, che spiega perché il respiro, lo spirito e la creazione siano fortemente intrecciati.
Possiamo dire che l’esperienza del vento è la prima, naturale esperienza della spiritualità. E non è certo un caso che i diversi nomi con cui viene definito siano quasi sempre indicanti il vento ma anche lo spirito.
Rhu in ebraico e arabo significa sia “respiro” sia “spirito”. Lo spirito, spiritus, prende in prestito il suo nome dal respiro del vento. Molti ceppi linguistici riconducono l’origine dei suoi nomi ad una radice indicante il soffio come il Sanscrito va e in tutte le lingue si ritrova la medesima indefinitezza di confini tra le parole che denominano vento, spirito, respiro, anima.
Molto prima dell’approccio scientifico iniziato nel XVII secolo con la creazione del barometro sono state le arti a dare al vento un corpo visibile. L’iconografia ci rimanda angeli a gote gonfie che soffiano sulle sorti dei mortali, putti e amorini rubizzi che spirano aure amorose e con i loro soffi imprevedibili inducono alla passione ignari cavalieri e pudiche donzelle; visionarie immagini di vento sospingono eroi e dei alati.
Dopo il Medioevo gli Umanisti riprendono ad ammirare la Natura e i venti entrano fortemente nell’immaginifico linguaggio degli scrittori che si arricchisce di ogni genere di aggettivi per nominarli: rapidi, liberi, veloci, volubili e selvaggi, licenziosi, mutevoli, feroci, gentili, furenti, scatenati. I cavalieri in battaglia vengono paragonati ad un conflitto tra i venti cardinali.
Tutta l’opera di Shakespeare è densa di riferimenti a venti e tempeste che diventano artifici drammatici capaci di impressionare gli spettatori. Amleto dice: “Mi sembra di impazzire quando soffia il vento di nord-nord ovest” mentre Titania la regina delle Fate ricorda: “Abbiamo riso al veder le vele concepire e crescere un gran ventre con il vento licenzioso”.
Nella poesia romantica i venti non sono tempestosi; sono brezze gentili come quelle che “arrivano leggermente sussurrando da occidente” per Lord Byron. Hanno i colori malinconici della poesia di Shelley:
O vento, vento dell’ovest, tu respiro dell’essere in autunno
Tu, dalla cui presenza non vista le morte foglie
Son spinte come un fantasma che fugga da un incantatore
Ma era stato Ovidio nelle sue Metamorfosi ad attribuire a ciascuno dei quattro venti principali delle caratteristiche antropomorfe alle quali fecero poi riferimento il Medioevo e il Rinascimento ma anche la letteratura romantica e finanche il pensiero moderno.
Borea, il vento del nord, è un vecchio con i riccioli grigi e fluenti che soffia con una tromba fatta da una conchiglia attorcigliata. È l’umore melanconico, identificato con l’elemento terra, associato all’autunno, anche quello della vita. Il suo colore è nero.
Zefiro spira dall’ovest, un vento gentile quasi femmineo. Un tempo era stato selvaggio e funesto, ma l’amore per la graziosa ninfa Clori lo rese una brezza dolcemente olezzante. Quando Clori morì si trasformò nel puro “fiore del vento”, l’anemone, che continua ad essere dal vento fecondato. Il suo elemento è l’acqua, il colore è il bianco. È l’inverno, la tarda età.
Noto spira da sud: è un giovane che porta una brocca rovesciata di cui versa il contenuto sulla terra. Rappresenta la primavera, la giovinezza. Di colore rosso, il suo simbolo egizio era un leone.
Euro, il vento orientale rappresentato come un vecchio dalla carnagione scura, talora coronato da un sole splendente. Cupo, accigliato, di umore bilioso che rimanda al colore giallo che lo caratterizza. È l’elemento fuoco e gli appartengono l’estate e l’infanzia. In Egitto era visto come un falcone, il segno del dio sole Horus.
La letteratura serve al vento per rendersi visibile, ma è anche la pittura che lo rende osservabile, corporeo: il vero vento si manifesta attraverso la pittura di paesaggio. Constable riesce a rappresentare l’essenza della ventosità che è la Natura nell’atto della trasformazione; Turner dipinge ciò che non poteva essere dipinto catturando la qualità della luce nel vento.
Non ha fine il fascino esercitato da questa forza mutevole, cangiante, irrefrenabile: i mobiles di Alexander Calder, le sue forme fluide che rimandano a foglie, fiori, pianeti, pesci tropicali stanno sospesi in un delicato equilibrio, continuamente sollecitati dal passare della brezza. Sono creature del vento.
La musica e in particolare l’opera lirica con la sua potente drammaticità è stata un ambiente perfetto per dare spazio alla potenza del vento, allo scatenarsi di tempeste come metafore dell’esplodere di passioni e perturbazioni emotive.
I rituali wagneriani sono costantemente sottolineati dal tempestoso commento degli elementi naturali. Con una tempesta si apre La Valchiria ed è il vento che fin dall’inizio fa crescere la tensione spazzando con furia la foresta del mondo.
Attorno all’infelice capitano del Vascello fantasma condannato per l’eternità a scrutare la distesa delle acque, aeree quinte fanno sollevare fischiando il vento e attorno a lui si muovono selvagge figure simili a onde.
Giuseppe Verdi fa risuonare il vento che porta la tempesta attorno a coloro che tramano la morte del duca nel Rigoletto.
E c’è un vento che dialoga con il mare nei tre “schizzi sinfonici” di Debussy chiamati La Mer in cui gli strumenti a fiato e gli ottoni danno voce alla Natura che vibra degli echi della creazione.
Il vento è una metafora della volubilità, della mutevolezza, della variabilità della condizione umana. È un modo per ricordarci che non sempre ciò che non ricade sotto il senso della nostra vista è irreale o fantastico. Attirare l’attenzione sulla sua potenza è suggerire di restare disponibili ad accoglier i segni lievi, le presenze impercettibili, la carezza degli sguardi, il profumo delle cose non diversamente da come ci disponiamo a far fronte alle tempeste, agli uragani e alle bufere della vita, consapevoli che la brezza può diventare turbine, ma che anche il ciclone che spazza l’universo prima o poi torna ad essere vento delicato.
A cura di Save the Words®
[1] Lyall Watson, Il libro del vento, Frassinelli, Milano, 1984
[2] Id. ibid.