Ogni anno il 21 settembre si celebra la Giornata Mondiale dell’Alzheimer istituita nel 1994 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’Alzheimer’s Disease International. La parola Alzheimer prende il nome dall’omonimo psichiatra e neuropatologo tedesco che, nei primi anni del Novecento, per primo descrisse un caso di demenza senile. Si tratta di una malattia neurodegenerativa subdola, progressiva, invalidante e irreversibile che, secondo le stime dell’European Carers’ Report 2018 presentato di recente dall’Alzheimer Europe al Parlamento europeo, in Italia riguarda oltre un milione e duecentomila persone, nella maggior parte dei casi donne (74%), tra i 75 e gli 84 anni (49%).
È un’emergenza che, secondo il Rapporto che coinvolge l’Italia insieme a Scozia, Olanda, Repubblica Ceca e Finlandia, incontra uno dei principali ostacoli nei tempi di diagnosi: se infatti in Italia passa poco più di un anno e mezzo, la media si attesta a 2,1 anni, aspetto penalizzante considerando che, con un intervento terapeutico tempestivo, è possibile, se non curare, per lo meno rallentare il progredire del declino delle facoltà mentali dei pazienti. Chi giunge infatti a uno stadio avanzato del morbo di Alzheimer non riesce più a svolgere in autonomia alcun tipo di attività trovandosi a dipendere completamente dai familiari o dal personale sanitario.
Le cause dell’insorgere della malattia sembrano essere collegate all’alterata elaborazione di alcune proteine cerebrali a livello cellulare provocando l'accumulo di una proteina tossica nelle cellule e negli spazi intercellulari. La corteccia cerebrale si atrofizza progressivamente per la perdita di neuroni nell'ippocampo e nella corteccia, con conseguenze gravissime nei processi cognitivi e nella memoria. Nel corso degli anni gli studi scientifici finalizzati a conoscere meglio la patologia sono stati tanti e anche se una cura risolutiva non esiste ancora, molti progressi sono stati fatti per cercare di comprendere come meglio prevenirla e gestirla.
Tra le ricerche più recenti, degna di nota è quella descritta in un articolo pubblicato sul giornale inglese Daily Mail in base alla quale la soluzione potrebbe risiedere in una molecola che funge da “collante” tra le cellule cerebrali consentendo sia di aumentare la memoria sia di proteggere dall'Alzheimer che, secondo le stime, ha colpito 500.000 pazienti nel Regno Unito e 5,5 milioni negli Stati Uniti. I test con la nuova molecola sono stati eseguiti sui topi da alcuni ricercatori tedeschi, ma le prove devono ancora essere eseguite sugli esseri umani. I risultati sono stati rivelati in una conferenza a Berlino lo scorso mese di luglio, alla presenza di alcuni dei maggiori neuroscienziati europei che hanno definito l'idea "intelligente”.
La molecola creata, denominata CPTX, proteggerebbe dunque le connessioni vitali tra le cellule cerebrali che trasportano i segnali, chiamate sinapsi. I malati di Alzheimer perdono infatti gradualmente le sinapsi, la giunzione tra i neuroni, peggiorando gradualmente la loro memoria. I ricercatori del Centro tedesco per le malattie neurodegenerative di Magdeburgo hanno sperimentato la CPTX su roditori con sintomi simili all'Alzheimer e coloro che hanno ricevuto la sostanza chimica, sostiene il team di scienziati, hanno ottenuto risultati migliori nei test della memoria, ad esempio nel riconoscimento di un nuovo oggetto. Le scansioni cerebrali dei topi stessi hanno confermato la teoria, in quanto i topi con CPTX avevano il 30% in più di sinapsi. Come si legge nell’articolo, Carol Routledge dell’Alzheimer's Research UK, sostiene che il CPTX potrebbe, in futuro, essere utilizzato per fermare i problemi di memoria legati all'età, ma nel contempo ritiene che sarebbe tutta un'altra questione se l'idea potesse rallentare l'invecchiamento cognitivo.
Lo studio arriva in seguito a un’altra ricerca secondo la quale i sonniferi presi da centinaia di migliaia di pazienti sarebbero responsabili nell’aumento del rischio di Alzheimer. Nel contempo alcuni ricercatori finlandesi hanno scoperto che il rischio di sviluppare il disturbo della memoria sarebbe più alto per i pazienti che assumono benzodiazepine e farmaci Z e, ancor maggiore, per coloro che assumono farmaci più forti e per un periodo più lungo di quello raccomandato.
L’auspicio è che gli studi sull’argomento possano al più presto essere risolutivi di un problema enorme che coinvolge numerose famiglie sconvolgendo drasticamente il loro stile di vita. Nel frattempo sicuramente molto può essere fatto in tema di prevenzione, soprattutto adottando un sano e mirato regime alimentare e praticando attività fisica con costanza.