Una stanza dopo l’altra sono salita fino alla sommità della torre.
Ho attraversato la porta del mondo per incontrare la principessa dormiente.
Sulla soglia del regno pietrificato ho resistito all’incantesimo della tessitrice.
Sette anni al sonno di Babilonia, sette lame affondate nel ventre molle della bestia senza qualità, sette giorni e sette notti per vedere il deserto fiorito.
Lo spirito della Luna ha svelato la ragnatela fatata.
Il respiro del fulmine ha riaperto il cammino verso l’ottavo cielo.
Il talismano annodato di bianco e rosso si immerge ad incontrare la figlia del fiume.
Sul suo capo una ghirlanda di melograno.
Il tronco del mandorlo non più in fiore ha toccato la volta celeste.
La custode del destino veglia sul frutto della passione.
Settembre è mese di parole che si lasciano scorrere, che vogliono assaporare il piacere di distendersi all’ombra ad immaginare antiche rotte, a veleggiare verso terre lontane. Vogliono librarsi in libertà, godere di quella sensazione languida che accompagna il passaggio dalle luci assolate alle tenui ombre che fanno scivolare il tempo verso l’autunno.
Settembre è un luogo dove si può restare soli: tranquillo, appartato; vi si trova riparo per farsi sfiorare dalle luci che iniziano ad essere più sfumate.
Uno scialle leggero ha preso il posto del ventaglio e sembra più facile lasciare alla fantasia il compito di mostrarci i luoghi che incontriamo nei sogni.
Si entra nella penombra fresca di una vecchia casa; si attraversa un androne poco illuminato nel quale le foglie dell’aspidistra si distendono all’umidore che le nutre di verdi profondi. Si arriva ad un piccolo cortile cintato di mattoni ancora accesi da un tiepido sole. Qui si innalza un melograno colmo di rossi frutti affondato in un vaso d’oricalco. Una pallida fanciulla regge una cornucopia e volge lo sguardo verso le tre Grazie che accennano un passo di danza sul piedistallo di granito. È una musica ondulata e flessuosa quella che si ascolta attraverso i loro corpi che si fanno tempio di sensuale armonia. È un ascolto d’amore, di bellezza.
Ho la percezione esaltante che le parole mi prendano la mano; si uniscono, si avvicinano e si allontanano come i cristalli di un caleidoscopio per il puro piacere di creare immagini cangianti, per trascendere il limite del linguaggio fino a spalancare l’universo dei miti.
Demetra, la madre antica che raccoglie e fa nascere ogni frutto attende come ogni anno il ritorno dall’Ade della sua amata figlia Persefone. A riportargliela sarà Hermes-Mercurio, il messaggero che attraversa i confini fra umano e divino, lui che guida le anime nel mondo delle tenebre: abile nel travestimento, artefice di ogni transizione, custode sulla soglia di ogni dimora, dio della comunicazione.
Fatico a ricondurre le parole nel mio spazio narrativo, fatico a riportarle alla scrittura: sono loro che mi guidano, vogliono vagare e divagare, vogliono sottrarsi al registro della comunicazione per trastullarsi negli spazi aerei del non senso. Vogliono farsi fiaba, sacro racconto, parabola.
Se mi metto in ascolto sento una voce che racconta. È una lettera quella che sta leggendo:
Sono felice di essere approdato in questa terra mai veduta. Per ore, durante i temporali i suoi abitanti fissano l’oceano in attesa dei battelli che vengono ad arenarsi o ad infrangersi sulla spiaggia Qui si è fermato il tempo, qui si possono ascoltare storie affascinanti che ho iniziato a trascrivere per te, per non tralasciare alcun particolare quando te le racconterò.
Quanto ti piacerà ascoltarle. Ti sono sempre piaciute le storie d’amore e d’avventura.
Seduta sulla tua poltrona preferita avrai infilato i tuoi piedini delicati sotto il cuscino per non sentire il primo freddo, pronta ad ascoltare la mia voce che non tarderà a toccare il tuo orecchio curioso. Di tanto in tanto dovrò fermarmi a guardare i tuoi occhi colmi di lacrime: non sarai diventata troppo triste, cuoricino mio?
Non si fanno scrivere volentieri le parole, non hanno voglia di essere fermate sulla carta, preferiscono intrecciarsi nelle voci, nelle vibrazioni, lasciarsi risuonare senza l’ordine e il rigore che solitamente chiediamo loro; si concedono solo per inseguire pensieri che fluiscono come acqua sorgiva.
Le parole vogliono allontanarsi dai luoghi frequentati, dalla strada battuta per inseguire il piacevole e fecondo richiamo a bagnarsi nei mille rivoli della fantasia, per inoltrarsi nei suoi infiniti spazi. Hanno il desiderio di mettersi a guardare le stelle, di dar vita alle favole belle come quella che narra di Eco la ninfa figlia dell’Aria e della Terra, maestra nell’arte della parola che nel suo delizioso modo di intrecciare storie incanta chi la ascolta. La prediletta di Zeus, vittima della gelosia di Era che la condanna alla privazione della parola. Non più racconti avvincenti: non potrà che ripetere le ultime sillabe pronunciate da un altro prima di lei.
È tempo di digressioni, di inoltrarsi in quei territori segreti nei quali le parole si abbandonano ad una tenue bellezza, creano giuochi di illusione; là dove si disegnano i paesaggi dell’anima.
È tempo di contemplazione, di entrare nel cerchio tracciato dall’indovino con il bastone ricurvo per osservare il volo degli auspici.
La Vergine si bagna nelle acque dello Zodiaco e sorride ai piccoli animali che si muovono nella ruota celeste come luminose e lontane figurine in uno zoo di stelle.
La parola ha una doppia vita: definisce, fissa, pare che attraverso di lei le cose assumano un ordine, eppure essa è al tempo stesso cangiante, mutevole, volubile: ben sapevano gli antichi che c’era un potere nella parola che chiamavano incantesimo capace di far cambiare di stato alla materia.
Come la Terra che, con generosa abbondanza, ha concesso tutta la ricchezza dei suoi frutti e vuole ora riposare, così le parole che si sono rincorse, intrecciate, tuffate nel fiotto caldo dell’estate, vogliono tornare alla quiete, starsene ad ascoltare ed a farsi ascoltare, lasciarsi prendere dalla lentezza del racconto, ritrovare la tiepida intimità suggerita dall’odore umido delle foglie che iniziano ad ammantare il terreno di nuovi colori, che risuonano lievi alla prima brezza d’autunno, che si offrono come antico tappeto ai passi accorti di chi cerca il silenzio.
Non si danno limiti le parole, oltrepassano la soglia del dicibile per abbandonarsi alle visioni, alla lingua che incanta, sottile ed effimera come il filo della ragnatela:
Il dono di Iside ha riacceso i colori delle fanciulle in fiore.
I fianchi selvaggi delle montagne si sono coperti di alberi flessuosi.
La resina odorosa della foresta ha svelato lo spirito della statua di cera.
Sacri segni silenziosi tracciati nell’aria.
Le sue mani tese ad afferrare i petali di intenso candore.
Il vento increspa la sua tunica, le morbide colline del corpo si accendono e trascolorano in seducenti richiami.
Le parole dell’oracolo hanno slacciato i suoni del preludio. I polsi si uniscono nel tripudio della luce.
Settembre non è tempo di intensità ma di durata: si entra pian piano nel fluido tepore che allontana le voci forti, il frastuono martellante per percepire le aeree sfumature di una dimensione dilatata e sospesa: si ha talora la sensazione di salire sul treno verso una meta sconosciuta o di aspettare qualcuno che abbiamo lasciato partire e pensiamo di non veder ritornare.
È momento di approdo: si sta laddove il viaggio ci ha condotti.
È tempo di ascoltare le parole per coglierne la corporeità e la pregnanza, per assaporarne il profumo e la forma, per trarne gioia e tenerezza, per indossarle come un misterioso amuleto che preserva dal male.
Stanche di significare vogliono danzare in libertà prima di assopirsi nel silenzio d’autunno e riposare nel grembo di Madre Terra che, con dolcezza e pazienza inizia ad entrare nel suo sonno fecondo, nell’ombra avvolgente e tiepida in cui la vita si rifugia per ritemprarsi. È tempo di conversazione intima, delicata:
Parlami che
io ascolto parlami che
mi metto seduta e ascolto
metto una mano sull’altra e ascolto [1]
È tempo di chiedere alla mente di fare silenzio affinché il nostro cuore, come antico cantastorie, sappia rimandarci immagini e vicende.
È tempo di onorare le parole come antiche dee, di mettersi in cerchio per compiere il rito nel quale si presentano in tutta la loro potenza evocatrice.
Ogni parola è una creazione e una creazione attinge al mondo primordiale, alla matrice da cui ogni cosa trae origine, si inoltra nel labirinto dei sentori, delle percezioni, vibra di ancestrali sonorità.
Le palme di Siria si chiudono in cerchio attorno allo scrigno che nasconde il cuore del re di Tessaglia.
Il serpente dalle dodici teste si è sdraiato sul petto della fanciulla piumata entro il recinto del tempio.
Il sonno della ragione ha guarito la terza figlia di Hermes che guida le anime oltre la montagna custodita dalla Chimera.
Con i sandali alati ha percorso il sentiero verso il giardino dei frutti perenni.
L’oracolo ha rivestito la testa di Orfeo.
L’incubo reciso dal popolo di Horus ha separato luce e tempesta.
Vittoria c’è stata. Altro non è dato sapere.
È tempo di fare pace con le emozioni che hanno voglia di confidenza, di abbandono, di acquietarsi e di lasciarsi scivolare in quegli anfratti del cuore che sanno accoglierle con indulgenza e benevola cura.
La mente sente il bisogno di riconciliarsi con il vissuto, di abbandonare il peso di infinite battaglie; prende la giusta distanza dalla fatica del vivere, chiede di osservare, di accettare, di ritornare all’innocenza con la sua capacità di “non portare danno” che è premessa di guarigione da ogni ferita da ogni male.
È il momento di parlare la lingua del cuore e mi piace ricordare che nella tradizione dello Zen la lingua giapponese ha una parola ricca e multiforme, kokoro, per indicare quell’insieme di generosità, di benevolenza, di parole amorevoli, di gentilezza, di azioni compiute a beneficio degli altri che è espressione della potenza d’amore che vive dentro ogni cosa.
Ad occhi socchiusi, le parole sfiorate da una carezza lieve abbandonano l’urgenza del comunicare, del mettersi in posa al fine di costruire l’architettura perfetta di un discorso e divengono soltanto battito d’ali.
È una speciale opportunità quella che ci offre questo passaggio d’Autunno, quella particolare concomitanza di circostanze che creano l’occasione, quella e non altra, fuggevole e per questo preziosa e irripetibile, un istante aperto e gravido di possibilità, una soglia sulla quale soffermarsi per assaporare la dolcezza dell’inizio. Tutto questo i Greci lo chiamavano kairòs.
A cura di Save the Words®
[1] Mariangela Gualtieri, Antenata, Crocetti, Milano, 1992