Non tutti sanno che «ogni suono in realtà rappresenta una forma geometrica precisa, una sorta di mandala che combacia con le antiche rappresentazioni delle culture ancestrali». Il fisico tedesco Ernst Chladni (XVIII secolo), infatti, ha sperimentato che ogni vibrazione prodotta su una membrana può essere visualizzata (figure di Chladni).
E probabilmente il Maestro Germano Mazzocchetti - musicista, compositore di musiche per teatro, nella creazione delle sue musiche di scena -, deve aver visto, attraverso l’occhio magico del suo intuito, la forma segreta dei suoni e il loro immenso potere. Ha realizzato, infatti, musiche per oltre 170 spettacoli collaborando con i più grandi registi teatrali italiani, esprimendo, con la sua musica, una grande ricchezza di linguaggi, ogni volta con lo stile più appropriato, lasciandosi trascinare dall’ironia e dal gioco, dalla personalità degli attori, dalle emozioni espresse dai protagonisti della storia stessa: gioia, ansia, terrore, oppure leggerezza, comicità e ironia. Il Maestro ha composto anche colonne sonore per il cinema e la televisione, nonché pubblicato dischi.
La Creazione dell’Universo si è compiuta grazie a un suono primordiale misterioso e ineffabile, come si genera, invece, ogni tua composizione?
La musica di scena non deve rispondere solo ad esigenze musicali, ma anche a necessità teatrali, del regista, degli attori; non nasce da sola come quando si scrive un pezzo di musica cosiddetta ‘assoluta’, ossia non veicolata da un’immagine o da un testo. Quando si scrive musica per spettacoli teatrali bisogna conoscere l’idea registica, perché il regista è il referente di tutti i collaboratori dello spettacolo, dello scenografo, del costumista, del musicista e del light designer, oltre che, ovviamente, degli attori. La musica di scena va sempre rapportata agli altri linguaggi che compongono lo spettacolo nella sua interezza.
Il tuo disco, Testasghemba, è ispirato ad un calzolaio del tuo paese natale. Sghembo significa storto, strambo, ma anche trasversale, ha voluto dare questo senso?
Un’espressione gergale che circola tra i musicisti definisce “storto” un pezzo che ha una metrica poco consueta o variabile. Quando ho scritto questo pezzo, che era appunto “storto”, mi è tornata alla memoria la testa storta del mio compaesano (che era all’origine del suo soprannome), morto quando avevo circa 10 anni, che mi aveva molto colpito nell’infanzia.
Sei nato in un borgo vicino Pescara, Città Sant’Angelo, come ha influito questa cittadina nella tua formazione?
Soprattutto per lo strumento che ho studiato, la fisarmonica. È uno strumento che negli anni '50 e '60 veniva usato per suonare quasi esclusivamente musica folkloristica. Nel mio paese c’era all’epoca solo una scuola di fisarmonica. I miei, notando una mia propensione per la musica, volevano che io la studiassi. Avrebbero in realtà preferito il pianoforte – visto che già strimpellavo un vecchio piano di mio nonno –, ma poiché avevo solo 6 anni si sentirono rispondere che ero troppo piccolo per studiare pianoforte e allora mi iscrissero subito al corso di fisarmonica.
I tuoi Maestri sono stati Fiorenzo Carpi e Antonio Calenda, cosa ti ha insegnato l’uno e cosa devi all’altro?
Fiorenzo Carpi è stato il mio Maestro virtuale, nel senso che è il musicista a cui mi sono sempre riferito nella mia carriera. Peraltro, l’ho conosciuto tardi, nei suoi ultimi 5 o 6 anni di vita. Ascoltare le sue musiche mi ha sempre colpito molto, sin da piccolo. Anche in RAI, nella Canzonissima di Dario Fo e Franca Rame, le musiche di Fiorenzo Carpi avevano un altro respiro rispetto a quelle degli altri musicisti, pur bravissimi, che scrivevano per i varietà o per i romanzi sceneggiati. L’ho sempre seguito, lo ritengo, appunto, il mio Maestro. Non saprei dire però se il mio stile (ammesso che io ne abbia uno) sia accostabile al suo. Ad Antonio Calenda devo, invece, il mestiere che faccio. Ci conoscemmo casualmente nel '77: gli dissero che in un paesetto abruzzese c’era un giovane che scriveva musiche per il teatro. All’epoca le componevo per un gruppo di amici che facevano teatro amatoriale. Calenda seppe che suonavo la fisarmonica e mi volle sentire. Stava per mettere in scena uno spettacolo - la Rappresentazione della Passione, sulla Passione di Cristo - e mi chiese di collaborare come fisarmonicista, ma anche di scrivere le musiche originali, che erano accostate ad altre di repertorio. Quello spettacolo si rappresentava nelle chiese e nasceva per fare poche repliche, invece ebbe un grande successo e lo portammo anche in diversi festival all’estero. Da lì nacque la nostra collaborazione. L’incontro con Calenda è stato la mia fortuna, gli devo di essere riuscito a fare il mestiere che volevo.
Nel misticismo Sufi si parla di una vita silenziosa chiamata Zàt, dalla quale il Tutto si origina sotto forma di vibrazioni, mentre il tuo ultimo disco As Soon As Possible, fa riferimento alla fretta. È questo il messaggio?
Il cd si chiama ASAP, acronimo di As Soon As Possible, perché il brano che dà il titolo al disco è un pezzo con un tempo molto veloce, particolarmente virtuosistico. Non c’è mai nulla di esoterico in quello che penso o che scrivo, da artigiano della musica mi attengo a considerazioni molto più pragmatiche.
Hai composto musiche per vari generi teatrali, dal varietà alla musica popolare, alla commedia musicale, fino ai classici del teatro greco, del Novecento e contemporanei, una vita in musica, avresti potuto fare qualcos’altro?
Penso proprio di no. Sono riuscito, come ho già detto, a fare proprio quello che volevo, cioè scrivere musica, e scriverla per teatro. Alla fine degli anni Settanta era ancora possibile riuscire a inserirsi nel mondo del lavoro, qualunque esso fosse. Oggi è molto più difficile. Calenda mi ha dato la possibilità di farlo. Chissà quante altre persone non hanno mai incontrato chi le ha messe in condizione di provarci.
La prima volta che ho visto il Time Jazz di Paolo Fresu è stato per la fisarmonica di Richard Galliano. Quanto è importante per te la fisarmonica?
Amo molto Galliano, grande musicista, mi piace molto anche la sua collaborazione con Fresu, credo che sia una delle cose migliori del jazz di questi ultimi anni. Io però suono la fisarmonica da compositore, sono uno che esegue quello che ha scritto, senza l’ambizione di essere un virtuoso della fisarmonica, cosa che, infatti, non sono.
La nascita del Germano Mazzocchetti Ensemble, che cita vari linguaggi, dalla Classica al Jazz, alla World Music, dalle nenie popolaresche, ai ritmi mediterranei, cosa ha aggiunto alla tua musica?
Il gruppo è nato perché, una quindicina d’anni fa, ho sentito che mi sarebbe piaciuto fare altro rispetto alla e musica “applicata” e poi volevo tornare a suonare, perché il compositore in genere non suona, ascolta gli altri che eseguono quello che lui ha scritto. I solisti che lavorano con me sono molto bravi, ognuno è uno specialista del proprio strumento. Non essendo un virtuoso, per me scrivo cose facili e per loro passaggi più complicati.
Che rapporto hai con la musica Jazz?
Il Jazz è sempre stato la mia musica di riferimento. Mi sono laureato con Roberto Leydi – che fu un grande etnomusicologo - con una tesi sulla Storia del Jazz. È la musica che ho seguito da subito, da adolescente, la musica della mia formazione. Certo, il mio gruppo ha colori jazzistici, ma la musica che suoniamo è una confluenza di vari linguaggi. Per il teatro è diverso, il Jazz è una musica autonoma, è difficile da collocarlo come musica di commento. Eppure c’è chi ci è riuscito benissimo: Duke Ellington ha scritto le musiche per Anatomia di un Omicidio di Otto Preminger, Miles Davis per Ascensore per il patibolo di Louis Malle e Paolo Fresu ha scritto diverse colonne sonore. Il mio rapporto col Jazz nasce soprattutto da ascoltatore, ne ho ascoltato tantissimo da adolescente, col passare degli anni un po’ meno, ma sono rimasto sempre molto legato a questo linguaggio musicale.
Hai lavorato per il regista Sergio Rubini, ne Il Viaggio della Sposa: quali strumenti musicali hai scelto per esprimere l’idea del viaggio che fa innamorare Porzia e Bartolo sconvolgendo tutti i piani?
Da subito con Sergio Rubini abbiamo deciso di percorrere due strade per musicare il film: quella etnica per seguire il viaggio di Porzia e Bartolo, e una dimensione un poco più sinfonica per le altre parti del film. Il piano sinfonico è stato realizzato mediante un’orchestra di una trentina di elementi, mentre per la parte etnica abbiamo utilizzato un piccolo gruppo che suonava un pezzo in 5, metrica che non appartiene alla nostra tradizione italiana.
Hai musicato il primo film muto su Pinocchio: da quale personaggio della fiaba ti sei fatto guidare?
In realtà non ho musicato tutto il film, ma solo alcune scene del Pinocchio di Giulio Antamoro. Quando me lo proposero, il tempo a disposizione era poco per riuscire a musicarlo tutto, per cui ho fatto una specie di cernita di scene, cercando di mantenere all’interno tutta la scansione cronologica del film, e musicandone circa metà. In realtà, mi sono fatto guidare dall’andamento della storia, non da un singolo personaggio. Peraltro, Pinocchio era interpretato da un famoso fantasista francese, Polydor, che parecchi anni più tardi fu anche nel cast della Dolce Vita di Fellini.
Hai applicato la tua musica in molte situazioni, dove non l’hai ancora applicata?
Non ho sperimentato il linguaggio dell’elettronica. Nasco come musicista acustico, mi piace lavorare con gli strumenti acustici, forse sono un po’ troppo anziano per cominciare ad occuparmi d’altro, quindi continuo con gli strumenti acustici. Se mi chiederanno di fare dei lavori utilizzando l’elettronica, purtroppo dovrò declinare l’invito.
Di Germano mi ha colpito il fatto che dopo tutta una vita trascorsa scrivendo musica, abbia mantenuto la sapienza dell’umiltà, perché sono convinta che, come sostiene Papa Francesco «Per essere grandi, bisogna prima di tutto saper essere piccoli. L'umiltà è la base di ogni vera grandezza» .