Quando nel 1972 gli irlandesi Thin Lizzy diedero alle stampe Shades of a Blue Orphanage la loro storia contava già un discreto numero di pagine e da parte di tutti (componenti, manager ed etichetta) c’era la speranza che questo fosse finalmente “un piede nella porta”, quella giusta verso il successo. Malgrado l’appoggio dei famosi DJ John Peel e David “Kid” Jensen, oltre che della stampa specializzata, ciò però non avvenne: l’album ottenne un buon riscontro in patria (forse pure per un certo tipo di “humus” culturale presente nei testi) ma non ebbe impatto sulle classifiche inglesi, rimandando quindi i sogni di gloria.
Il disco resta comunque uno scrigno inestimabile dal punto di vista artistico e una magnifica testimonianza dei primi Lizzy in versione trio, con Phil Lynott (voce, basso e chitarra acustica), Eric Bell (chitarra elettrica ed acustica) e Brian Downey (batteria e percussioni), e una nuova prova, forse ancora più estesa rispetto al debutto, della versatilità stilistica del leader, autore pressoché incontrastato dell’intera scaletta, il quale, sperimentando con scrittura e sound, andava via via individuando e dosando gli elementi della propria particolarissima formula intrisa di rock hendrixiano, british blues, progressive e folk celtico. Importante anche il senso del titolo che riuniva i nomi delle formazioni da cui provenivano i membri: i Shades of Blue erano il gruppo di Bell, mentre gli Orphanage quello di Lynott e Downey.
Non un semplice gioco di parole, insomma, quanto piuttosto qualcosa dal sapore “genealogico” che intendeva dichiarare le radici sonore del progetto, fonderle e portarle in una direzione inesplorata. Così come infatti dichiara l’apertura The Rise and Dear Demise of the Funky Nomadic Tribes, l’unico episodio firmato da tutti e tre e non dal solo Lynott: un pezzo che riesce a combinare R&B, prog e hard rock su un tappeto percussivo incalzante (a tratti tribale), un inizio di carattere che funge pure da biglietto da visita delle doti tecniche della band: si ascoltino le figurazioni di basso sopra cui si dipana il canto, gli stacchi, le parti di batteria (e l’assolo finale), le ricercatezze chitarristiche. Buffalo Gal sta a cavallo fra psichedelia e folk, con la vocalità del leader che sottolinea alcune delle sue sfumature caratteristiche, I Don’t Want to Forget How to Jive è una sorta di rock and roll classico, appena “sporcato” di Settanta, mentre Sarah (da non confondere con il brano omonimo del 1979 per la figlia) un gioiello di poesia e melodia, una ballad delicata e intensa allo stesso tempo dedicata alla nonna materna che lo aveva cresciuto quando la madre Philomena non poteva occuparsene.
Sono brani che presentano a loro modo sempre uno sviluppo imprevisto, che riescono a evadere le strutture creando una specie di effetto “ipnosi”, simile all’improvvisazione nel jazz. Brought Down parte soft e in acustico, con le modalità del genere skiffle, per poi sfoggiare un graffio elettrico e un’indole rock, Baby Face invece lo dice da subito di avere toni accesi e lo stesso fa Call the Police (le due canzoni sono intervallate dal folk originale di Chatting Today): entrambi i brani sembrano gettare un occhio al futuro, richiamando un certo tipo di costruzione, di ritmo, di indole “metal” e di ruolo del riff chitarristico che la faranno da padroni nella fase successiva. Chiude la track list il pezzo omonimo del disco, Shades of a Blue Orphanage: una composizione di gran classe che dilata i tempi in un amalgama sonoro di marca psichedelica, lasciandone ad ogni modo in evidenza l’anima celtica. Poco dopo i Thin Lizzy avrebbero pubblicato il singolo Whisky in the Jar, brano della tradizione irlandese riarrangiato in stile rock con infinito gusto e personalità, provato in studio quasi per divertimento: e fu il primo vero successo, dentro e fuori casa. Ecco il “piede nella porta”.
Nella ghiotta riedizione del 2010 si trovano in aggiunta all’album ben nove bonus track, due provenienti dal 45 giri succitato, tre dalla raccolta del periodo Decca The Continuing Saga of the Ageing Orphans del 1977, contenente overdubbing di nuove parti vocali e strumentali (ad opera, fra gli altri, di Gary Moore), e quattro dalle session per John Peel e BBC Radio 1.